Ordinanza n. 337 del 1995

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ORDINANZA N. 337

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 50, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e dell'art. 176, terzo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 26 gennaio 1995 dal Tribunale di sorveglianza di Firenze nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Misso Giovanni, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che nel corso del procedimento pro mosso su istanza di ammissione alla semilibertà di Misso Giovanni, condannato all'ergastolo che assumeva doversi computare nel termine di espiazione minimo previsto dalla legge (venti anni) una quota di condono pari a due anni di reclusione in forza del d.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, rilevato che "l'assetto normativo e la conseguente costante giurisprudenza" escludono l'applicabilità dell'istituto del condono alla pena dell'ergastolo e che tale inapplicabilità coinvolge "anche i termini di ammissibilità alle due misure alternative rappresentate dalla semilibertà e dalla liberazione condizionale", ha, con ordinanza del 26 gennaio 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 3, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 50, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e 176, terzo comma, del codice penale, "in quanto non riconoscono alcun effetto alla intervenuta concessione dell'indulto o di analoghi benefici ai fini della ammissibilità, rispettivamente, alla semilibertà e alla liberazione condizionale del condannato all'ergastolo"; che, in punto di rilevanza, il giudice a quo, dopo aver rammentato che la Corte costituzionale, con ordinanza n. 369 del 1994, ha dichiarato inammissibile un'identica questione, non essendo stati specificati nè i titoli dei reati nè i decreti di indulto astrattamente applicabili, precisa che il Misso è stato condannato alla pena dell'ergastolo per i reati di concorso in omicidio e tentato omicidio aggravati, evasione, porto e detenzione di armi e furto aggravato, reati non ostativi all'applicazione dell'indulto di cui al d.P.R. n. 394 del 1990, il quale non prevede limitazioni sotto il profilo oggettivo; che, inoltre, l'interessato ha scontato sedici anni di reclusione ed ha conseguito sino ad oggi oltre due anni di riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, con la conseguenza che, qualora si dovesse ritenere ingiustificata la esclusione dall'indulto, quanto meno ai fini del raggiungimento dei venti anni indicato dall'art. 50 della legge n. 354 del 1975, il beneficio sarebbe per lui conseguibile; che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo, premesso essere dato ormai acquisito che la pena dell'ergastolo è stata ritenuta compatibile con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, soltanto in virtù dell'applicabilità ad essa di meccanismi alternativi di espiazione, ed in particolare della semilibertà e della liberazione condizionale, ditalchè sarebbe ormai improprio considerare l'ergastolo come una pena "senza termine", trattandosi invece, alla stregua della sua evoluzione normativa, di una pena "a termine incerto", rileva che, mentre per le pene detentive temporanee, ai fini del computo del periodo minimo di detenzione per la concedibilità dei suddetti benefici, deve essere detratta la parte di pena condonata, ciò non è consentito, invece, ai medesimi fini, per la pena dell'ergastolo, una diversità di regime irragionevole, oltre tutto, considerando che della liberazione anticipata, che è un altro istituto incidente sulla determinazione del periodo minimo di pena espiata, è fatta applicazione anche per l'ergastolo, a norma dell'art. 54, quarto comma, della legge n. 354 del 1975; che non sussisterebbe, dunque, "una ragione logica e costituzionalmente tale, per l'esistenza di un meccanismo diverso per quanto concerne il condono", un istituto di rilevanza costituzionale in quanto espressamente richiamato dall'art. 79 della Costituzione, dal quale si evince, peraltro, come l'unico limite alla sua applicabilità riguarda la data del commesso reato cui potrebbe astrattamente riferirsi; che, non essendo la pena dell'ergastolo pena "senza termine", non sussisterebbe alcun ragionevole motivo perchè il condono non debba essere computato al fine di raggiungere anticipatamente i limiti previsti dalla legge per l'ammissibilità a quelle misure alternative che progressivamente conducono all'estinguibilità, ritenuto requisito irrinunciabile di qualsivoglia pena detentiva, tanto più che taluni reati vengono puniti alternativamente con pena temporanea o con l'ergastolo a seconda del "giuoco logico e giuridico delle circostanze", cosicchè la differenza che intercorre tra condannati per uno stesso reato è soltanto quella della durata della pena: donde la violazione dell'art. 3 della Costituzione, anche alla luce delle "scelte succedutesi nel tempo in materia di diritto penitenziario"; che sarebbe, ancora, violato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, perchè, una volta soddisfatta, attraverso il ravvedimento del reo, la finalità rieducativa della pena, costringere il condannato a subire il regime inframurario a causa dell'esclusione dal computo della pena espiata di condoni applicabili alla generalità dei detenuti equivarrebbe ad infliggergli una sofferenza gratuita, e, dunque, un trattamento contrario al senso di umanità; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo, anzitutto, che la questione, nella parte in cui coinvolge la liberazione condizionale, è da ritenere inammissibile per difetto di rilevanza, vertendosi in un procedimento in cui deve decidersi circa la concedibilità della semilibertà, la sola misura per la quale il condannato ha presentato istanza; che, per il resto, l'art. 50, quinto comma, della legge n. 354 del 1975, non contiene la previsione della inapplicabilità, ai fini del computo dei limiti temporali per l'ammissione alla semilibertà, dei benefici clemenziali, discendendo ciò solo da una interpretazione giurisprudenziale, contrastata, con vari argomenti, dal giudice a quo; e che, essendosi dunque quest'ultimo limitato a prospettare, nella sostanza, dubbi interpretati vi, la questione, anche per la parte relativa all'art. 50 della legge n. 354 del 1975, deve ritenersi inammissibile.

CONSIDERATO che la questione incentrata sull'art. 176 del codice penale è - come esatta mente ha dedotto l'Avvocatura generale dello Stato - priva di rilevanza, risultando il procedimento promosso nella specie al fine di conseguire il beneficio della semilibertà; che la questione avente ad oggetto la legittimità dell'art. 50, quinto comma, della legge n. 354 del 1975, è, invece, manifestamente infondata, dovendo la pena dell'ergastolo, nonostante il suo inquadramento nell'attuale tessuto normativo abbia, a determinati fini, provocato il venir meno della rigorosa caratteristica di perpetuità che "all'epoca dell'emanazione del codice la connotava" (v. sentenza n. 168 del 1994), considerarsi comunque una pena perpetua tanto da non ammettere <"scomputi" che non incidano sulla natura stessa della pena> (v. sentenza n. 270 del 1993); che ciò sta a significare che se, a taluni fini, la pena dell'ergastolo può assumere i caratteri della temporaneità nel quadro di quelle misure premiali che anticipano il reinserimento come effetto del sicuro ravvedimento del condannato, da comprovarsi dal giudice sulla base non solo della buona condotta tenuta durante l'espiazione della pena, bensì, soprattutto, della sua partecipazione rieducativa (v., ancora, sentenza n. 168 del 1994), non è possibile detrarre dalla pena inflitta la misura corrispondente all'indulto perchè, altrimenti, si inciderebbe sulla natura stessa della pena quale irrogata in sede di cognizione con inevitabili riverberi non solo sulla misura ma sulla qualità della pena stessa; che, del resto, la giurisprudenza della Corte di cassazione, con una costante linea interpretati va fondata sull'ineludibile presupposto della perpetuità della pena dell'ergastolo nel suo momento applicativo - donde l'infondatezza della seconda eccezione avanzata dall'Avvocatura generale dello Stato, non potendo, certo, la questione proposta profilarsi in termini di un mero dubbio ermeneutico - ha coerentemente ravvisato una ontologica incompatibilità tra l'ergastolo e l'istituto del condono "parziale" poichè la durata complessiva della pena essendo stabilita fino alla morte del reo non è determinabile a priori, con la conseguenza che essa può essere condonata "in tutto" oppure essere commutata in un'altra specie di pena stabilita dalla legge; che, dunque, ai fini dell'accesso alla liberazione condizionale e delle misure alternative alla detenzione l'ergastolo non può mai essere considerato una pena temporanea; che, proprio in forza di tali principii, la Corte di cassazione ha affermato che l'art. 1 del d.P.R 22 dicembre 1990, n. 394, non consente di estendere l'indulto alla pena dell'ergastolo, ribadendo come se è vero che l'ergastolo, al pari delle altre pene detentive, permette il ricorso agli istituti della liberazione anticipata ciò non si è verificato per l'introduzione di un principio derogativo all'inscindibilità dell'ergastolo, essendosi solo introdotta la regola che dopo un certo periodo di detenzione, anche il condannato all'ergastolo può fruire di quei benefici se ha dato prova, con la sua condotta, di ravvedimento ovvero ha dimostrato attivo interesse all'opera di rieducazione, requisiti entrambi da cui l'indulto prescinde completamente, così ulteriormente comprovando la conformità delle norme denunciate i precetti costituzionali invocati. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 176, terzo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con l'ordinanza in epigrafe;

2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative del la libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/07/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 20/07/95.