Sentenza n. 302 del 1995

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SENTENZA N. 302

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso della Corte dei conti notificato il 27 gennaio 1995, depositato in Cancelleria il 2 febbraio 1995, per conflitto di attribuzione sorto in relazione alla sottrazione del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, al controllo preventivo della Corte dei conti, in violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione e dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143 e dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge 17 luglio 1993, n. 232, nonchè al connesso comportamento del Governo consistente nella modifica del citato art. 7 , comma 10, del decreto-legge 17 luglio 1993, n. 232, in violazione dell'art. 77, secondo comma, e dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione e alla connessa illegittimità costituzionale, sotto vari profili e in subordine, degli artt. 3, comma 13, e 8, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 ed iscritto al n. 2 del registro conflitti 1995. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 30 maggio 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli; uditi l'avv. Alessandro Pace per la Corte dei conti e l'Avvocato dello Stato Antonino Freni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ricorso del 14 ottobre 1994 la Corte dei conti, in persona del Presidente pro-tempore - in forza dei poteri conferitigli con la determinazione della Sezione del controllo sugli atti del Governo del 12 agosto 1993, n. 135 - ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alla sottrazione del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, al controllo preventivo della Corte dei conti, in violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione e degli artt. 7, comma 1, del decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143, e 7, comma 10, del decreto-legge 17 luglio 1993, n. 232, nonchè al connesso comportamento del Governo, consistente nella modifica del citato art. 7, comma 10, in violazione degli artt. 77, secondo comma, e 100, secondo comma, della Costituzione ed alla connessa illegittimità costituzionale degli artt. 3, comma 13, e 8, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, per violazione degli artt. 77, secondo e terzo comma, e 100 secondo comma, della Costituzione. Nel ricorso si espone che con il decreto n. 242632 del 22 giugno 1993 il Ministro del tesoro, in attuazione del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481 (art. 22, comma 1, lettere a) e c) ), ha fissato i nuovi criteri cui devono uniformarsi gli enti e i gruppi creditizi nella detenzione di partecipazioni in imprese. Tale decreto si verrebbe a configurare sia come "atto generale di indirizzo", sia come "atto generale attuativo delle norme comunitarie" contenute nella direttiva n. 89/646, risultando, di conseguenza, assoggettabile al controllo preventivo della Corte dei conti, ai sensi dell'art. 7, comma 1, lettere c) ed e), del decreto-legge n. 232 del 1993, che ha dettato nuove norme in tema di controlli. Ciononostante - prosegue il ricorso - il Ministro del tesoro non ha ritenuto di dover sottoporre l'atto in questione al controllo preventivo, ma ha invece ritenuto di potervi dare esecuzione per il tramite della Banca d'Italia, che ha provveduto ad impartire agli enti e gruppi creditizi le istruzioni di propria competenza. Inoltre, lo stesso Ministero non ha aderito all'invito dell'Ufficio di controllo di astenersi da ulteriori atti di esecuzione e, a spiegazione del proprio comportamento, ha affermato - dapprima con la nota n. 242771 del 27 luglio 1993 e poi con una memoria richiamata nell'intervento orale all'adunanza del 12 agosto 1993 della Sezione del controllo della Corte dei conti - che il decreto ministeriale in questione doveva ritenersi esente dall'assoggettamento al controllo preventivo in ragione della clausola derogatoria prevista dall'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 del 1993, secondo la quale le disposizioni sul controllo preventivo di cui all'art 7, comma 1, del medesimo decreto non si applicano nei confronti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691 (cioè nelle materie relative alla tutela del risparmio, all'esercizio del credito ed alla valuta). Ad avviso del Ministero gli "enti" cui si fa riferimento nella clausola derogatoria di cui al citato art. 7, comma 10, non sarebbero - come ritenuto dalla Sezione del controllo della Corte dei conti - gli enti e i gruppi creditizi, bensì il complesso apparato politico-amministrativo costituito dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, dal Ministero del tesoro e dalla Banca d'Italia, titolare dei poteri di indirizzo e vigilanza nel settore del credito. Nel ricorso si espone poi che in epoca successiva all'adunanza della Sezione del controllo del 12 agosto 1993, il Governo, nel reiterare il decreto-legge n. 232 del 1993, adottava il decreto-legge 14 settembre 1993, n. 359, che seppure di contenuto pressochè identico, modificava il testo della clausola derogatoria prevista dall'art. 7, comma 10, riferita non più agli "enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691", ma agli "atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria": con l'evidente conseguenza, ad avviso della ricorrente, di rendere legittimo, a partire dall'entrata in vigore del decreto-legge n. 359, il rifiuto del Governo di sottoporre a controllo preventivo il decreto in questione. La narrativa dei fatti esposta nel ricorso si completa con il richiamo all'ulteriore reiterazione avvenuta con l'emanazione del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, pedissequamente ripetitivo del precedente, che per una parte veniva convertito nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, mentre per la parte restante veniva trasformato in disegno di legge governativo approvato come legge 14 gennaio 1994, n. 20. Questa legge contiene, all'art. 3, comma 13, una previsione identica a quella prevista dall'art. 7, comma 10, dei decreti-legge nn. 359 e 453 del 1993, e, all'art. 8, comma 1, una clausola di sanatoria di tutti gli effetti prodotti medio-tempore dai decreti non convertiti.

2.- Per quanto concerne i presupposti soggettivi del conflitto, il ricorso richiama le sentenze di questa Corte nn. 406 del 1989 e 466 del 1993, che hanno riconosciuto alla Sezione del controllo della Corte dei conti la legittimazione a proporre conflitto di attribuzione, mentre la legittimazione passiva del Governo viene affermata in relazione al fatto che i comportamenti dei ministri connessi all'interpretazione di un decreto- legge vanno imputati alla responsabilità collegiale del Governo (ord. n. 242 del 1993). Inoltre, nel caso di specie, il Governo ha fatto propria la posizione del Ministro del tesoro, modificando in via d'urgenza con i decreti-legge nn. 359 e 453 del 1993, l'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 del 1993. In riferimento ai presupposti oggettivi si rileva poi che la lesione lamentata attiene alla funzione di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, prevista dall'art. 100, secondo comma, della Costituzione.

3.- Passando all'esame del merito, nel ricorso si osserva che il comportamento omissivo del Governo risulta fondato sull'assunto secondo il quale gli enti che svolgono la loro attività nelle materie indicate all'art. 1 del decreto legislativo n. 691 del 1947 (cui si riferisce la deroga espressa nell'art. 7, comma 10, del decreto- legge n. 232 del 1993) sarebbero le autorità che esercitano poteri pubblicistici nella materia del credito (Ministro del tesoro, Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, Banca d'Italia), mentre la ricorrente sostiene che con il termine "enti" la norma ha inteso riferirsi alle banche e agli intermediari finanziari. A supporto di questa interpretazione nel ricorso si richiama l'art. 1 del decreto legislativo n. 385 del 1993, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, che qualifica il Ministro del tesoro, il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio e la Banca d'Italia come "autorità creditizie" e non come "enti". Nè potrebbe condividersi il diverso assunto del Governo secondo il quale gli enti cui fa riferimento l'art. 7, comma 10, non possono essere quelli creditizi, dal momento che la Corte dei conti non ha mai esercitato il controllo su tali enti. Questa obbiezione del Governo - sempre secondo la ricorrente - non terrebbe conto della collocazione sistematica della clausola limitativa prevista dall'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232, dal momento che tale clausola è riferita all'insieme delle disposizioni contenute nell'articolo e quindi non necessariamente a quelle concernenti i controlli preventivi e successivi sugli atti, i quali risultano circoscritti alla sfera provvedimentale del Governo e della pubblica amministrazione statale (art. 7, commi 1 e 4). Dopo aver osservato che, nell'ambito della riforma dei controlli voluta dal legislatore, accanto alla nuova disciplina del controllo sugli atti, assume particolare rilievo il controllo sulla gestione (art. 7, commi 5-9), nel ricorso si sostiene che in tale contesto sarebbero agevolmente individuabili occasioni e ragioni di verifiche, accertamenti e valutazioni da parte della Corte dei conti anche nei riguardi di enti e gruppi creditizi, al fine di verificare l'efficacia degli investimenti azionari pubblici e lo stato patrimoniale degli enti bancari partecipati. Pertanto, neppure la clausola di sanatoria prevista dall'art. 8, comma 1, della successiva legge n. 20 del 1994 - che ha sancito la validità degli atti adottati e delle attività poste in essere in base ai decreti-legge nn. 54, 143, 232, 359 e 453 del 1993 - potrebbe convalidare il contestato comportamento omissivo del Governo, dal momento che tale clausola non potrebbe comunque sanare un comportamento che deve considerarsi illegittimo in quanto in contrasto con un decreto-legge non convertito, ma vigente all'epoca del comportamento medesimo. Nella seconda parte del ricorso, esaminando la fase successiva all'entrata in vigore del decreto-legge 14 settembre 1993, n. 359, si osserva che durante questa fase il comportamento omissivo del si è fondato sul nuovo testo della clausola de rogatoria di cui all'art. 7, comma 10, dove si prevede la non applicabilità del controllo preventivo "agli atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria". Tale clausola è stata riprodotta nel decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, e, infine, nell'art. 3, comma 13, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, attualmente in vigore. Secondo la ricorrente, questa modifica della clausola derogatoria non farebbe venir meno il conflitto in esame, ma ne cambierebbe semplicemente il parametro di riferimento: infatti se, inizialmente, l'illegittimità lamentata nel ricorso consisteva nella violazione sia dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione, sia dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 del 1993, in seguito tale l'illegittimità verrebbe a derivare dall'applicazione dei decreti-legge nn. 359 e 453 del 1993, nonchè della legge n. 20 del 1994, in quanto atti contrastanti con l'art. 77, secondo e terzo comma, e con l'art. 100, secondo comma, della Costituzione. La Corte dei conti, infatti, pur riconoscendo che il comportamento omissivo tenuto dal Governo in epoca successiva all'entrata in vigore del decreto-legge n. 359 non sarebbe in contrasto con la disciplina prevista da tale decreto e da quello che lo ha reiterato, ritiene che il fondamento della persistente illegittimità del comportamento governativo risiederebbe nella illegittimità costituzionale dei decreti ora richiamati, nonchè della legge n. 20 del 1994. Pertanto, la ricorrente sollecita la Corte costituzionale a sollevare dinanzi a sè la questione di costituzionalità della disciplina attualmente in vigore, prevista dall'art. 3, comma 13, e dall'art. 8, comma 1, della legge n. 20 del 1994, per violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione. Ad avviso della ricorrente la sottrazione al controllo preventivo non potrebbe discendere altro che dalla impossibilità materiale o giuridica di sottoporre a controllo determinati atti, dal momento che la Costituzione, all'art. 100, imporrebbe in forma assoluta, senza alcun rinvio alla legge, il controllo in questione. Dall'inesistenza di sufficienti motivi per la sottrazione al controllo preventivo deriverebbe, secondo la Corte dei conti, l'illegittimità, per cattivo uso della discrezionalità spettante al legislatore, dell'art. 3, comma 13, della legge n. 20 del 1994. Infine, un ulteriore profilo di illegittimità della disposizione ora citata e dell'art. 8 della stessa legge n. 20, è sviluppato nell'ultima parte del ricorso, in riferimento all'art. 77, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonchè in relazione all'art. 15, commi 2, lettera b), e 3 della legge 23 agosto 1988, n. 400. La ricorrente esclude che la legge n. 20 del 1994 possa considerarsi una legge di conversione, dal momento che il decreto-legge n. 453 è formalmente decaduto nella parte considerata, e pertanto l'approvazione della legge medesima non assolverebbe il Governo dalla responsabilità che si è assunto emanando i decreti- legge, con l'effetto di lasciare spazio al sindacato della Corte costituzionale. Nel ricorso viene, infatti, contestata la sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza per procedere alla riforma per decreto- legge della Corte dei conti, nonchè il fatto che, attraverso più decreti-legge reiterati, il Governo sia intervenuto "in causa propria", al solo scopo di sottrarsi ad un controllo della stessa Corte. Il che avrebbe determinato uno sviamento di potere rispetto alla disciplina dell'art. 77 della Costituzione e la conseguente lesione delle attribuzioni costituzionali spettanti alla ricorrente.

4.- Con ordinanza n. 21 del 1995, questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto in esame, affermando che il comportamento del Ministro del tesoro, oggetto di censura, è da riferirsi alla responsabilità collegiale del Governo, e che va riconosciuta alla Corte dei conti, nell'esercizio della funzione di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, la legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri.

5.- Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato. In riferimento all'ammissibilità del conflitto, l'Avvocatura osserva che il ricorso è stato proposto dalla Corte dei conti, in persona del Presidente pro-tempore, in forza dei poteri asseritamente conferitigli con la determinazione n. 135 del 12 agosto 1993 della Sezione del controllo della Corte dei conti. Nella memoria si rileva che, invece, dalla determinazione n. 135 del 1993 risulta che la Sezione, deliberando il ricorso in oggetto, ha affermato la propria legittimazione a stare in giudizio a mezzo del proprio Presidente. L'Avvocatura osserva poi che il contenuto del ricorso in epigrafe non corrisponde al contenuto e alle conclusioni del ricorso deliberato dalla Sezione del controllo e che, di conseguenza, dovendosi tener conto solo di quanto affermato nella citata determinazione della Sezione, il conflitto non sarebbe più attuale a seguito dello ius superveniens. Nella memoria di costituzione si rileva che, mentre il ricorso si fonda sull'interpretazio ne dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 del 1993, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 - che ha espressamente escluso dalla categoria degli atti soggetti al controllo quelli in materia creditizia - il conflitto sollevato non sarebbe più attuale. Ad avviso dell'Avvocatura deve comunque escludersi che l'interpretazione dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 sia quella sostenuta dalla Corte dei conti, dal momento che dall'esame di tale disposizione emerge che i primi quattro commi dell'art. 7 riguardano il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e che i rimanenti commi si riferiscono al controllo sulla gestione, alla relazione sull'esito del controllo e ai poteri della Corte dei conti nell'esercizio del controllo. Nella memoria si osserva che tutte le citate disposizioni riguardano le amministrazioni pubbliche e, di conseguenza, risulterebbe arbitrario voler riferire il solo comma 10 agli enti creditizi, che sono in gran parte imprese private. Inoltre, il riferimento alla materia della tutela del risparmio (e non alla raccolta del risparmio), contenuto nell'art. 7, comma 10, confermerebbe che tale norma derogatoria riguarda le amministrazioni che esercitano l'alta vigilanza nelle materie indicate, mentre la riformulazione della stessa disposizione prevista nel successivo decreto- legge n. 359 del 1993 conforterebbe ulteriormente questa interpretazione. Infine, nella memoria si ribadisce che l'art. 100, secondo comma, della Costituzione deve essere integrato da norme di legge ordinaria, allo scopo di individuare gli atti soggetti al controllo, e che tali norme, per la funzione alla quale assolvono, non incorrono nella illegittimità costituzionale, salvo che, in ipotesi estrema, non vengano a comprimere la sfera costituzionalmente tutelata fino ad essere sostanzialmente elusive del controllo. L'Avvocatura esclude che questa ipotesi ricorra nel caso di specie e che la norma in questione possa essere censurata sotto il profilo della ragionevolezza, sottolineando la funzione di alta specializzazione tecnica svolta dalle "autorità creditizie" e la necessità di una immediata applicazione delle loro decisioni.

6.- In prossimità dell'udienza entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative. Nella memoria della Corte dei conti si eccepisce, in primo luogo, la mancata costituzione in giudizio del Governo, essendosi costituito solo il Presidente del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente in carica, che, pur potendo essere parte di taluni conflitti di attribuzione, è da tenere distinto dal Governo, identificabile con il Consiglio dei ministri. In riferimento alle eccezioni di inammissibilità prospettate dall'Avvocatura, nella memoria si precisa che ai sensi dell'art. 1, terzo comma, del regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, confermato dall'art. 3, comma 10, della legge n. 20 del 1994, il Presidente della Corte dei conti presiede anche la Sezione del controllo sulle amministrazioni dello Stato. Pertanto, il mandato contenuto nella determinazione n. 135/93 della Sezione del controllo deve ritenersi indirizzato al Presidente della Corte dei conti, che si è costituito nel presente giudizio. Inoltre, la Corte dei conti osserva che, una volta sollevato il conflitto, l'indicazione delle motivazioni giuridiche che lo sostengono spetta al difensore. Nel merito, la Corte dei conti ribadisce che la lesione delle proprie attribuzioni non è venuta meno a causa dell'entrata in vigore dei decreti-legge di reiterazione del decreto- legge n. 232 del 1993, e che tale lesione risulta aggravata dal successivo comportamento del Governo, il quale ha conferito valore normativo alla precedente interpretazione estensiva dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232.

7.- Nella memoria illustrativa dell'Avvocatura si ribadiscono le precedenti conclusioni, sottolineando, innanzitutto, che il decreto del quale la ricorrente rivendica la soggezione al controllo è stato emanato durante la vigenza di un decreto-legge non convertito, che ha quindi perso efficacia ex tunc, e che non può essere invocato per introdurre un controllo non previsto dalla normativa preesistente di cui al regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214: normativa che, secondo l'Avvocatura, sarebbe rimasta vigente fino all'entrata in vigore della legge n. 20 del 1994. Dopo aver ricordato che la Corte dei conti non aveva mai rivendicato in passato che fossero sottoposte a controllo preventivo le direttive impartite dalle autorità creditizie alla Banca d'Italia, dal momento che tali atti non rientravano tra quelli elencati agli artt. 17, 18 e 19 del regio decreto n. 1214 del 1934, l'Avvocatura contesta che il richiamato decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, possa considerarsi "atto generale di indirizzo" ovvero "atto attuativo di direttive comunitarie", non trattandosi di atto amministrativo generale rivolto ad una pluralità di destinatari, in quanto rivolto soltanto alla Banca d'Italia, ed avendo le direttive comunitarie in materia bancaria avuto già attuazione con il decreto legislativo n. 481 del 1992. In relazione alla legittimità delle disposizioni contestate della legge n. 20 del 1994, l'Avvocatura ribadisce che è pacifico che l'art. 100, secondo comma, della Costituzione deve essere integrato dalla legislazione ordinaria al fine di individuare gli atti del Governo sottoposti al controllo. Nel caso di specie, le norme di cui all'art. 3, commi 1 e 13, della legge n. 20 del 1994, e le corrispondenti disposizioni dei decreti precedenti, concorrono a definire l'area del controllo preventivo, seguendo una ratio analoga a quella che in passato aveva escluso dall'applicazione delle norme della legge 21 marzo 1958, n. 259 gli istituti di credito sottoposti alla vigilanza della Banca d'Italia.

Considerato in diritto

 

1.- La Corte dei conti, in persona del suo Presidente, solleva conflitto di attribuzione contro il Governo della Repubblica al fine di sentir dichiarare: "a) che spetta alla Corte dei conti, Sezione del controllo sugli atti del Governo, la competenza a controllare il decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, previa, se necessaria, la proposizione, dinanzi a se stessa, della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 13, e dell'art. 8, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, per violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione; b) che, ai sensi degli artt. 77, secondo comma, e 100, secondo comma, della Costituzione, non spettava al Governo il potere di sostituire l'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232 del 1993 con l'art. 7, comma 10, dei decreti-legge n. 359 e 453 del 1993; c) in subordine alla richiesta sub b), nella contestata ipotesi che si qualificasse la legge n. 20 del 1994 come legge di conversione, dichiarare l'illegittimità costituzionale degli artt. 3, comma 13, e 8, comma 1, della legge n. 20 del 1994 per violazione dell'art. 77, terzo comma, della Costituzione". Resiste al ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri per chiedere che il ricorso stesso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato.

2.- Va preliminarmente verificata, la sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi idonei a giustificare, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la proposizione di un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Come già rilevato in sede di giudizio sulla ammissibilità del ricorso (ord. n. 21 del 1995), la presenza di tali presupposti ricorre nel caso di specie. Per quanto concerne i requisiti soggettivi, da un lato va, infatti, riconosciuta alla Corte dei conti, nell'esercizio della funzione di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, la legittimazione a sollevare conflitto, stante la piena autonomia dell'organo investito di tale funzione (v. sentt. 406 del 1989 e 466 del 1993); dall'altro, va individuato nel Governo il soggetto passivo del conflitto in esame, dal momento che il comportamento omissivo tenuto dal Ministro del tesoro, che forma l'oggetto principale della censura, deve intendersi riferito alla responsabilità collegiale del Governo in ordine all'interpretazione di atti di normazione primaria quali il decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143 ed il decreto-legge 17 luglio 1993, n. 232 (v. ord. n. 242 del 1993), mentre i comportamenti consistenti nell'adozione dei decreti-legge 14 settembre 1993, n. 359 e 15 novembre 1993, n. 453, oggetto di ulteriore censura, risultano anche essi imputabili al Governo nella sua collegialità. La presenza dei requisiti oggettivi viene, d'altro canto, a trovare la sua giustificazione nel fatto che il ricorso contesta la violazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali, quale quella spettante alla Corte dei conti, in tema di controllo preventivo di legittimità, dall'art. 100, secondo comma, della Costituzione.

3.- L'Avvocatura dello Stato eccepisce l'inammissibilità del ricorso sotto due profili diversi e cioè: a) per essere stato lo stesso ricorso proposto dalla Corte dei conti in persona del suo Presidente anzichè - secondo quanto previsto nella determinazione n. 135 della Sezione del controllo del 12 agosto 1993, concernente la proposizione del conflitto - dalla stessa Sezione in persona del suo Presidente; b) per il fatto che il contenuto del ricorso non risulterebbe corrispondente al contenuto di quanto deliberato dalla stessa Sezione con la suddetta determinazione n. 135. Nè l'una nè l'altra di tali eccezioni meritano di essere accolte. In proposito va, infatti, rilevato che il conflitto, ancorchè deliberato dalla Sezione del controllo, non poteva essere sollevato altro che dall'organo investito della titolarità del potere di controllo di cui all'art. 100, secondo comma, della Costituzione, in relazione al quale la lesione risulta affermata. Tale organo non è la Sezione del controllo, ma la Corte dei conti nella sua unità, della cui rappresentanza è investito il suo Presidente pro-tempore, cui spetta anche presiedere la Sezione del controllo (v. art. 1, terzo comma, regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 e art. 3, comma 10, legge 14 gennaio 1994, n. 20). Per quanto concerne poi l'asserita mancata corrispondenza tra il contenuto del ricorso ed il contenuto della determinazione n. 135 del 1993, ciò che va rilevato è che, in relazione ai profili essenziali del conflitto, i due atti vengono a coincidere nella sostanza, mentre gli svolgimenti ulteriori espressi nel ricorso possono trovare la loro giustificazione nell'autonomia che va riconosciuta alla difesa tecnica nello svolgimento delle tesi affermate dalla parte, autonomia che ha indotto il difensore ad argomentare anche in ordine alla sopravvivenza dell'interesse al conflitto pur in presenza di uno ius superveniens.

4.- La Corte dei conti ha sollevato, nella memoria, una eccezione di inammissibilità relativa alla costituzione in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri anzichè del Governo, identificabile nel Consiglio dei ministri. Tale eccezione non va, peraltro, presa in esame, avendo la difesa della ricorrente rinunciato alla stessa nel corso dell'udienza.

5.- Nel merito il ricorso non è fondato. La domanda principale proposta dalla ricorrente investe la mancata sottoposizione del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Con tale decreto - adottato in relazione all'art. 22, comma 1, lettere a) e c), del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481 - il Ministro del tesoro, su conforme parere del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, ha dettato i criteri ai quali la Banca d'Italia deve attenersi nel disciplinare, mediante istruzioni di carattere generale, la materia delle partecipazioni detenibili da parte degli enti creditizi. Ad avviso della Corte dei conti (v. nota dell'Ufficio di controllo sugli atti del Ministero del tesoro n. 463 del 14 luglio 1993), il decreto in questione doveva essere sottoposto al controllo preventivo di legittimità della stessa Corte in quanto "riconducibile alle categorie degli atti generali di indirizzo e di quelli attuativi di norme comunitarie" sottoposte al visto di legittimità ai sensi dell'art. 7, comma 1, lettere c) ed e), del decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143. Opposto l'avviso del Ministero del tesoro che, alla richiesta della Corte dei conti, replicava (v. nota del direttore generale del tesoro n. 242771 del 27 luglio 1993), richiamando la sopravvenienza - dopo la caducazione per mancata conversione del decreto-legge n. 143 del 1993 - del decreto- legge 17 luglio 1993, n. 232, dove all'art. 7, comma 10, veniva introdotta una deroga al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti nei confronti degli "enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691" (e cioè nelle materie concernenti la tutela del risparmio, l'esercizio della funzione creditizia e la valuta). Sulla base di tale divergenza interpretativa la Sezione del controllo della Corte dei conti, con la determinazione n. 135 del 12 agosto 1993, deliberava di sollevare il conflitto in esame, ma il ricorso relativo veniva proposto soltanto il 14 ottobre 1994, in presenza di un quadro normativo sensibilmente mutato a seguito dell'adozione del decreto-legge 14 settembre 1993, n. 359 (reiterato con il decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453), che, all'art. 7, comma 10, apportava una modifica alla corrispondente disposizione contenuta nel decreto-legge n. 232 del 1993; nonchè a seguito dell'approvazione della legge 14 gennaio 1994, n. 20, che, all'art. 3, comma 13, riproduceva il testo dell'art. 7, comma 10, del decreto- legge n. 359 del 1993.

6.- Ai fini della soluzione del conflitto in esame - che investe l'esistenza o meno di un obbligo del Ministro del tesoro di sottoporre al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti il decreto 22 giugno 1993, n. 242632 - la disciplina in tema di controllo che assume rilievo non può essere altro che quella in vigore alla data dell'emanazione dell'atto in relazione al quale il conflitto stesso è stato sollevato: disciplina che, nella specie, va identificata in quella espressa nel decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143, vigente al momento dell'emanazione dell'atto e successivamente convalidata nei suoi effetti - a seguito della mancata conversione dello stesso decreto-legge - dall'art. 8, comma 1, della legge n. 20 del 1994. In base a tale disciplina la domanda avanzata dalla Corte dei conti non può essere accolta. In primo luogo va escluso che il decreto del Ministro del tesoro di cui è causa possa essere qualificato, ai sensi dell'art. 7, comma 1, lett. c), del decreto-legge n. 143, come "atto generale di indirizzo". Il decreto ministeriale in questione, infatti, non assume i caratteri della "generalità", dal momento che non contempla una pluralità di destinatari, indeterminati o indeterminabili, ma si indirizza esclusivamente alla Banca d'Italia, cui vengono indicati i criteri da seguire nel disciplinare, in conformità delle direttive del Comitato interministeriale del credito e del risparmio, la materia delle partecipazioni detenibili da parte degli enti creditizi. Nè il carattere generale delle istruzioni che la Banca d'Italia è venuta successivamente ad adottare nei confronti degli enti creditizi, ai sensi dell'art. 22, comma 1, del decreto legislativo n. 481 del 1992, può essere tale da riflettersi nella natura puntualmente mirata degli indirizzi impartiti, con il decreto in esame, dal Ministro del tesoro a tale ente. Parimenti va anche escluso che lo stesso decreto del Ministro del tesoro possa essere qualificato, ai sensi dell'art. 7, comma 1, lett. e), tra gli "atti generali attuativi di norme comunitarie". Il decreto in questione, infatti, oltre a non disporre - per le ragioni già richiamate - del carattere della generalità non può neppure ritenersi "attuativo" di una normativa comunitaria, quale quella espressa nella direttiva 89/646 CEE, la cui attuazione è stata direttamente operata - in esecuzione della delega espressa con l'art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 - mediante il decreto legislativo n. 481 del 1992. Va, dunque, riconosciuto che, alla luce della disciplina in tema di controllo in vigore alla data dell'adozione dell'atto, non sussistevano le condizioni per affermare la sottoponibilità del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti.

7.- Sulla base di quanto precede non può assumere rilievo, per la soluzione del conflitto in esame, il richiamo alla normativa intervenuta successivamente al decreto-legge n. 143 del 1993 e formulata nei decreti-legge nn. 232, 359 e 453 del 1993 nonchè nella legge n. 20 del 1994. Le domande avanzate nel ricorso in ordine a tale normativa, anche con riferimento alle prospettate questioni di legittimità costituzionale, non vanno, di conseguenza, prese in esame.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava alla Corte dei conti, Sezione del controllo sugli atti del Governo, la competenza a controllare il decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993 n. 242632.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/06/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Enzo CHELI, Redattore

Depositata in cancelleria il 06/07/95.