Sentenza n. 280 del 1995

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 280

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1994 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da Tramannoni Renzo, iscritta al n. 415 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1994. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 aprile 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

 

1. - La Corte di Cassazione - 3u Sezione penale, nell'ambito di un giudizio su ricorso avverso sentenza della Corte di Appello di Ancona, con la quale, a seguito di appello incidentale proposto dal pubblico ministero, la pena inflitta dal primo giudice per la contravvenzione di cui all'art. 21, primo e secondo comma, della legge 16 maggio 1976, n. 319, determinata nel giudizio di primo grado in due mesi e venti giorni di arresto, era stata aumentata a sei mesi di reclusione (sic), ha sollevato, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale nella parte in cui prevede il potere del pubblico ministero di proporre appello in via incidentale. L'ordinanza del giudice a quo premette che la questione di costituzionalità dell'art. 595 nei sensi su accennati era stata sollevata, in via subordinata, dal ricorrente sostenendo che l'appello incidentale del pubblico ministero nel processo penale "si pone in palese contrasto con i princìpi di cui agli articoli 3, 24 comma secondo e 112 della Costituzione". In particolare, sotto il profilo dell'art. 3 Cost., il ricorrente negava che l'esistenza dell'appello incidentale dell'imputato, introdotto nel codice vigente, avesse eliminato la disparità tra le due parti processuali, in quanto l'istituto "giova esclusivamente alla posizione del P.M., per il rischio dell'imputato di una 'reformatio in peius', mentre nessuna conseguenza negativa può derivare al P.M., appellante principale, se è l'imputato a proporre appello incidentale". Inoltre - prosegue l'Ordinanza, sempre riferendo la posizione del ricorrente, - "il potere d'impugnazione costituisce esplicazione della funzione d'accusa del P.M.: potere che deve essere esercitato per la sua piena soddisfazione della pretesa punitiva, in base ad una valutazione che deve prescindere dall'eventuale proposizione del gravame dell'imputato".

2. - Ciò premesso, la Corte di Cassazione osserva che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente non appare manifesta mente infondata, "ma soltanto nella parte in cui viene prospettato il contrasto con l'art. 112 della Costituzione". Al riguardo ricorda la Corte che, vigente il codice del 1930, quando il potere di appello incidentale era conferito soltanto al pubblico ministero (art. 515, comma quarto), vari giudici di merito avevano sollevato incidente di legittimità costituzionale dell'istituto perchè ritenuto contrastante con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, mentre altro giudice di merito (il Tribunale di Venezia) aveva profilato, oltre alle questioni suddette, anche il contrasto dell'istituto con l'art. 112 della Costituzione; e che la questione era stata da questa Corte costituzionale, con sentenza n. 177 del 10 novembre 1971, dichiarata infondata per la "disparità di trattamento nell'esercizio del diritto di difesa (articoli 3 e 24)", perchè "l'appello incidentale, consentito ad una delle parti del processo, turba l'equilibrio del contraddittorio". "Tuttavia" - prosegue l'Ordinanza del giudice a quo - nella stessa sentenza la Corte Costituzionale aveva considerato "assorbente" il profilo della violazione dell'art. 112 (dovere di impugnazione come estrinsecazione di quello, non discrezionale, dell'esercizio dell'azione penale; e quindi comportamento contraddittorio nell'esperire il gravame dopo aver lasciato scadere i termini dell'appello principale, allo scopo di "contenere l'iniziativa dell'imputato", ostacolando, in pratica, il diritto di quest'ultimo alla tutela giurisdizionale. "Quanto meno" questo profilo - sostiene l'Ordinanza del giudice rimettente - sopravvive anche nel sistema del nuovo codice, risultante dagli articoli 595 e seguenti, attuativi della direttiva n. 90 dell'art. 2 n. 3 della legge-delega del 16 febbraio 1987.

"Si rende quindi necessaria - sempre ad avviso della Corte di Cassazione - una nuova pronuncia della Corte Costituzionale, dato che - come si evince chiaramente dalla motivazione della precedente sentenza ablativa (n. 177/1971) - l'obbligo del P.M. di attuare la pretesa punitiva dello Stato non può ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del, in modo particolare quando si tratta di "verificare" un giudizio di insostenibilità dell'accusa e decidere per l'acquiescenza o per l'impugnazione".

3. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, riportandosi a un proprio atto di intervento relativo ad altro giudizio (R.O. n. 339 del 1993), riguardante la mancata attribuzione al pubblico ministero del potere di proporre appello incidentale avverso le sentenze - inappellabili, per tale organo, in via principale - pronunciate a seguito di rito abbreviato.

Considerato in diritto

 

1. - La Corte di Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale nella parte in cui detto articolo prevede il potere del pubblico ministero di proporre appello incidentale quando non abbia proposto appello principale: e ciò in relazione all'art. 112 della Costituzione, in quanto l'obbligo di esercitare l'azione penale, ivi sancito, non può ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del procedimento, in modo particolare quando si tratta di verificare un giudizio di insostenibilità dell'accusa e di decidere per l'acquiescenza o per l'impugnazione. Sotto tale profilo, secondo il giudice rimettente, il fatto che il codice vigente - diversamente da quello del 1930, che prevedeva il solo appello incidentale del pubblico ministero - abbia esteso, in conformità di esplicita direttiva della legge-delega del 16 febbraio 1987, n. 81, il diritto di appello incidentale a tutte le parti processuali, non avrebbe rilievo. Varrebbero infatti, tuttora, le enunciazioni che il giudice rimettente coglie nella sentenza n. 177 del 1971, con le quali l'appello incidentale, allora previsto per il solo pubblico ministero, fu dichiarato costituzionalmente illegittimo anche per contrasto con l'art. 112 della Costituzione.

2. - La questione non è fondata.

3. - L'appello incidentale nel processo penale - ancorchè sia risultato statisticamente marginale tanto sotto l'impero del codice abrogato quanto sotto l'impero di quello vigente - è istituto segnato da una storia complessa e controversa ed è stato oggetto di adesioni e di critiche variamente motivate. Per quanto in particolare riguarda l'appello del pubblico ministero, è da ricordare che il suo ingresso nel sistema del diritto processuale penale italiano fu propugnato per la prima volta all'epoca della formazione di quello che poi divenne il codice del 1913; ma la proposta non venne accolta nè nel progetto definitivo nè nel codice. L'art. 480 del codice medesimo contemplò invece, nel comma secondo, il divieto di reformatio in peius in danno dell'imputato quando appellante fosse soltanto l'imputato stesso o alcuna delle altre parti private abilitate a proporre appello ai sensi dell'art. 128, e non vi fosse invece appello del pubblico ministero. Tuttavia il giudice d'appello, che avesse ritenuto di dover dare del reato una diversa definizione anche più grave, purchè nei limiti della competenza del giudice di primo grado, poteva stabilire la nuova definizione, pronunciando in conformità ad essa il dispositivo della sentenza (art. 480, comma terzo). Il divieto di reformatio in peius, inteso nel contenuto e nei limiti sanciti dal codice del 1913, fu oggetto di aspra contestazione al momento della formazione del codice del 1930. In particolare, il Guardasigilli dell'epoca sostenne in un discorso al Senato, e scrisse nella relazione al Progetto preliminare, che "una volta che l'imputato appella e che il processo viene portato avanti al giudice di secondo grado, questo, se ritiene inadeguata la pena inflitta dal primo giudice, deve avere il potere di aumentarla; altrimenti il suo giudizio sarebbe incompleto e incoerente". E ancora: "Quando il rapporto processuale venga mantenuto in vita mediante un atto sia pure del solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere di conoscere e di decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o privarnelo, fuori dei casi eccezionalmente consentiti dalla legge". E a queste considerazioni, chiamate di "ragione logico-giuridica", altre ne aggiungeva "d'ordine pratico": "conviene togliere all'imputato la facoltà d'appellare senza alcun rischio, anzi col vantaggio, nella peggiore delle ipotesi, di differire il momento dell'esecuzione della condanna.

Così facendo si ridurrà il numero degli appelli a quei soli casi che possono apparire meritevoli di riesame, perchè l'imputato, conscio della possibilità di reformatio in peius, si guarderà bene dal proporre la impugnazione, quando non abbia la coscienza di meritare l'assoluzione, o quanto meno una diminuzione di pena. Se egli reclama un nuovo giudizio, deve assoggettarvisi completamente; se non vuole correre alcun rischio, si accontenti della prima sentenza". Queste proposizioni, nella loro durezza e categoricità, non incontrarono il favore degli organismi interpellati sui contenuti del progetto preliminare. Di conseguenza il ministro Guardasigilli modificò le proprie vedute originarie; e - come volle scrivere nella relazione al progetto definitivo - non per le querimonie sprovviste di buone ragioni, che mai sarebbero state idonee a rimuoverlo dalla sua prima idea, ma per essersi convinto che "se la possibilità pratica della reformatio in peius appare come freno efficace al dilagare degli appelli, l'istituto giuridico, che vorrebbe porsi a base di tale pratica conseguenza, cioè il carattere pienamente devolutivo dell'appello, non può andare esente da critiche.

Questo carattere dell'appello, infatti, implica la facoltà, data anche alle parti private, di far cadere in tutto la sentenza, con un semplice atto unilaterale di volontà, negando così la natura stessa decisoria della sentenza, e trasformando il giudizio di primo grado in una specie di procedimento preparatorio, duplicato superfluo del procedimento d'istruzione". E proseguiva: "Ho perciò modificato l'art. 520 (divenuto poi l'art. 515 del codice del 1930), riconoscendo al pubblico ministero la facoltà di proporre appello incidentale, quando l'impugnazione sia stata proposta dal solo imputato. In questo modo le temerarietà degli imputati rimangono frenate dalla possibilità dell'appello incidentale del pubblico ministero (che naturalmente ha tutti gli effetti dell'appello principale dello stesso pubblico ministero), e si conserva il divieto della riforma in peggio in quel caso in cui, essendo stato proposto l'appello dal solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto che mettesse conto d'appellare a sua volta". Gli stessi concetti il Guardasigilli ripeteva nella relazione al Re (n. 188), osservando che, mentre la Commissione parlamentare aveva espresso il parere che l'appello incidentale del pubblico ministero fosse da abolire, egli aveva "ammesso codesto appello esclusivamente per attenuare il rigore della regola della incondizionata possibilità della reformatio in peius accolta nel progetto preliminare". L'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero - adottato, come si è visto, nell'intento di permettere una reformatio in peius della sentenza dopo che fosse stato proposto appello principale da parte del solo imputato - non andò esente da critiche neanche dopo l'entrata in vigore del codice del 1930. Da taluno esso fu chiamato "istituto anacronistico e antigiuridico", criticandosene soprattutto la strumentalità vantata nelle relazioni del Guardasigilli in funzione di "mezzo di ritorsione" contro gli appelli dell'imputato. Da altri fu messo invece in rilievo il suo carattere sostitutivo rispetto alla soluzione della piena devolutività di ogni appello, intravvista ad un certo momento con favore da una certa corrente di pensiero, come soluzione globale e non compromissoria. Altri invece, severamente criticando l'enunciazione dello "appello- spauracchio" fatta nelle relazioni ufficiali sopra menzionate, sostenne la piena validità logica e giuridica dell'istituto come "esercizio di un potere giuridico tendente ad impedire la definitività di una determinata situazione giuridica". Queste ed analoghe valutazioni si collegavano alla definizione, pure oggetto di dibattito, dei limiti dell'appello incidentale, visto come un mezzo diretto a permettere l'aumento della pena, la revoca di eventuali benefici e l'applicazione di pene accessorie, misure di sicurezza e ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge, ma non mai come un mezzo diretto ad investire anche capi della decisione di primo grado ai quali non fosse riferibile l'appello dell'imputato: ciò che veramente avrebbe convertito l'appello incidentale in un "appello di dispetto". Altri, e con essi la giurisprudenza prevalente, sostenevano invece che l'appello incidentale del pubblico ministero potesse investire anche punti di decisione diversi da quelli cui si riferiva l'appello dell'imputato e del tutto autonomi. Altro punto oggetto di controversia fu, sempre sotto il vigore del codice del 1930, quello concernente la limitazione dell'effetto devolutivo dell'appello incidentale del pubblico ministero al coimputato appellante e al coimputato non appellante che abbia partecipato al giudizio d'appello, evidentemente intervenuto, quest'ultimo, per giovarsi dell'effetto estensivo dell'appello principale.

Secondo alcuni questa regola avrebbe vulnerato il principio della "indivisibilità dell'azione penale". Nonostante queste ed altre critiche, l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero rimase indenne nella vasta riforma del processo penale attuata con la legge 18 giugno 1955, n. 517, che estese una quantità di diritti dell'imputato e dette maggiore spazio alla sua difesa. Esso cadde soltanto in virtù della ricordata sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte costituzionale, della quale più oltre si dirà.

4. - Nei progetti susseguitisi durante più di un quarto di secolo per la riforma del codice di procedura penale del 1930 l'appello incidentale del pubblico ministero subì alterne vicende. Nel 1969, durante i lavori parlamentari per la prima legge-delega - e precisamente durante l'esame del disegno di legge di iniziativa del Governo n. 380 presentato dal Guardasigilli alla Camera il 5 settembre 1968 - fu proposto, in seno alla Camera dei Deputati (IV^ Commissione giustizia, seduta antimeridiana del 27 febbraio 1969), ed approvato con il parere favorevole del Governo, un emendamento aggiuntivo volto ad introdurre, nell'art. 2, contenente le direttive per il legislatore delegato, il punto 51 del seguente testuale tenore: "Parità tra il pubblico ministero e l'imputato in ordine all'eventuale appello incidentale".

Il Parlamento devolveva dunque al Governo la scelta tra il mantenimento e la soppressione dell'istituto dell'appello incidentale nel processo penale, ma imponeva allo stesso, nel caso di scelta positiva, di estendere il diritto d'appello anche all'imputato e in condizioni di parità rispetto all'appello incidentale lasciato al pubblico ministero. Detta direttiva, approvata dall'Assemblea della Camera il 22 maggio 1969, ivi divenuta il punto 59 ed integrata con il punto 61 ("divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato"), fu approvata anche dal Senato della Repubblica il 4 dicembre 1970, quando il punto relativo assunse il n. 65, divenendo poi (sempre nello stesso letterale tenore) il n. 63 nel testo riapprovato dalla Camera dei Deputati nelle sedute del 18, 19 e 20 ottobre 1971 e successivamente ritrasmesso dal Senato alla Camera. Scioltasi anticipatamente la quinta legislatura, e insediatesi le Camere della sesta, in data 5 ottobre 1972 il Guardasigilli presentava alla nuova Camera dei Deputati il disegno di legge n. 864, contenente il nuovo testo di legge-delega.

In esso la direttiva soprariportata più non figura, risultando anzi sostituita dalla seguente (n. 67): "esclusione dell'istituto dell'appello incidentale". Veniva invece mantenuto il "divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato" (direttiva 69). Frutto dichiarato, questa nuova scelta abolitiva dell'appello incidentale, della sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte, intervenuta nel frattempo, come si è detto. Le due direttive ora riportate rimasero immutate nella legge-delega 3 aprile 1974 n. 108, dove assunsero i numeri, rispettivamente, 72 e 74; e ad esse si uniformò, ovviamente, il progetto preliminare del codice di procedura penale divulgato nel 1978 ma non divenuto mai legge dello Stato. La relazione al Progetto stesso sottolinea peraltro nettamente di avere escluso, in conformità dei lavori preparatori della legge- delega, anche l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione "scelta che è sembrata alla Commissione (ministeriale) del tutto preclusa". Del tutto diverse furono invece, in merito all'istituto dell'appello incidentale, le scelte del Parlamento nel corso dell'ottava e della nona legislatura, i cui lavori approdarono alla nuova legge- delega del 16 febbraio 1987 n. 81 e, attraverso questa, al codice vigente. Nel testo unificato approvato dalla Camera dei Deputati il 18 luglio 1984 e trasmesso al Senato il 3 agosto 1984 (n. 916), sotto il punto 87 dell'art. 2 compare la seguente direttiva: "potere delle parti di proporre appello incidentale; perdita di efficacia dell'appello incidentale in caso di inammissibilità dell'appello principale": una disciplina, come si vede, contrastante con quella del codice del 1930, sia per l'estensione dell'appello incidentale a tutte le parti, anche diverse dal pubblico ministero, sia per la prevista perdita di efficacia dell'appello incidentale in tutti i casi di inammissibilità (dunque anche di rinuncia) dell'appello principale (il codice abrogato, nell'art. 515, ultimo comma, manteneva invece l'efficacia dell'appello incidentale del pubblico ministero anche nel caso di rinuncia dell'imputato alla propria impugnazione). Al punto 89 di detto testo unificato rimaneva sancito il "divieto di reformatio in peius in caso di appello del solo imputato".

Queste direttive rimasero immutate attraverso l'esame condotto dal Senato della Repubblica, essendosi ritenuto soltanto di dovere aggiungere nella seconda parte del punto 87 (divenuto punto 88 e successivamente punto 90) l'espressa menzione della rinuncia a fianco di quella della inammissibilità dell'appello principale. La Camera non modificò il testo emendato dal Senato, con la conseguenza che il punto 90 dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, risultò del seguente tenore: "potere delle parti di proporre appello incidentale; perdita di efficacia dell'appello incidentale in caso di inammissibilità o di rinuncia all'appello principale". Da questa direttiva scaturì il testo dell'art. 587 del progetto preliminare e del progetto definitivo, divenuto poi l'art. 595 del codice di procedura penale del 1989, sottoposto all'odierno scrutinio di costituzionalità.

5. - Così ricordati i precedenti e l'iter legislativo dell'articolo 595 del codice di procedura penale, giova ora definire la ragion d'essere dell'istituto dell'appello incidentale nel processo penale, quale è dato desumerla sia dal dibattito parlamentare che dall'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sull'argomento. Par chiaro che la ragion d'essere dell'istituto trova le proprie radici nel sistema generale delle impugnazioni, e più specificamente in quello dell'appello, intendendosi con l'appello incidentale assicurare a ciascuna delle parti (od anche, in ipotesi, ad una soltanto di esse) il potere di esprimere le proprie scelte dopo avuta la piena conoscenza della posizione assunta dalle altre parti in ordine alla sentenza di primo grado. Ogni parte, nel sistema del processo, può, alla luce della sentenza di primo grado, mantenere le posizioni originariamente assunte e quindi, ove la sentenza non abbia dato ad esse piena soddisfazione, impugnare la decisione stessa: ed è qui che si colloca il rimedio dell'appello principale. Ma la parte stessa può anche decidere di rivedere le proprie posizioni originarie e di fare acquiescenza alla sentenza che non abbia dato soddisfazione alle proprie ragioni o abbia dato ad esse una soddisfazione soltanto parziale. Diversa è invece la situazione della parte rispetto alle prospettive di una sentenza futura quale è quella del giudice di secondo grado, quando una divergenza di quest'ultima rispetto a quella resa dal giudice di primo grado sia divenuta possibile per effetto dell'appello proposto da altra parte processuale, in particolare da quella le cui ragioni od istanze siano contrapposte alle proprie. In questo caso appare equo e ragionevole assicurare alla parte, che si era risolta a fare acquiescenza alla sentenza del primo giudice, il mezzo per impedire che la sentenza di secondo grado possa sacrificare le proprie ragioni al di là di quanto già accaduto per effetto della sentenza di primo grado. In modo particolare, per stare al tema, il pubblico ministero può bene accettare una sentenza che abbia concesso all'imputato circostanze attenuanti da lui contrastate o una pena meno alta di quella da lui richiesta; ma ben può, viceversa, non essere disposto ad accettare che quella pena sia nel giudizio d'appello ulteriormente diminuita o che alle circostanze attenuanti riconosciute in primo grado altre se ne aggiungano per effetto della sentenza d'appello: sì che se ritiene di avere un mezzo più efficace per impedire questo risultato, facendo valere proprie doglianze autonome e diverse da quelle consistenti nella semplice resistenza contro l'accoglimento dell'appello principale dell'imputato, è equo e ragionevole che gli sia consentito di usarlo. E ciò tanto più in relazione all'esistenza di un espresso divieto, sancito nell'ordinamento, di una reformatio in peius da parte del giudice di secondo grado che sia investito del solo appello dell'imputato. Potrebbe dirsi, secondando una definizione dottrinale proposta in relazione al sistema del codice del 1930, che l'appello incidentale è per il pubblico ministero un onere, nel senso che egli deve farvi ricorso solo se intende cercare di impedire quegli effetti favorevoli per l'imputato che potrebbero derivare da un accoglimento dell'appello principale dall'imputato stesso proposto. Queste considerazioni svelano l'equivoco in cui cadono i critici dell'istituto quando ne assumono una contraddittorietà logica asserendo che ogni sentenza debba essere guardata in sè e per sè, per ciò che essa rappresenta e che soltanto su questa valutazione possa fondarsi l'esercizio del potere d'appello. Essi trascurano del tutto la visione, pur legittima e in qualche caso doverosa, di quella che potrebbe essere, nella stessa causa, una sentenza del giudice d'appello nonchè il correlativo diritto di premunirsi contro i suoi possibili contenuti. Il legislatore, con l'appello principale e l'appello incidentale, conferisce alle parti due poteri diversi, che logicamente si collocano e si svolgono in due momenti diversi. Il primo potere è quello di dolersi della sentenza impugnata in sè stessa: e a tal proposito sono stabiliti i termini per l'impugnazione principale.

Il secondo potere è quello che si riferisce alla prevenzione di effetti non desiderati ma possibili ad opera della futura sentenza di secondo grado: e a ciò si riferisce il secondo momento, in quanto i termini per fare uso dell'appello incidentale decorrono proprio dalla conoscenza dell'esistenza e del contenuto dell'appello principale avversario. È pertanto del tutto fuorviante guardare, come taluno fa, all'appello incidentale con la stessa ottica con cui si guarda all'appello principale. L'appello principale attiene infatti alla posizione che l'avente diritto all'appello stesso intende assumere, dopo la propria valutazione, nei confronti della sentenza di primo grado, mentre l'appello incidentale viene valutato e proposto con riguardo a quella che potrebbe essere una sentenza futura a seguito dell'appello principale dell'altra parte. Questa essendo la ragion d'essere dell'istituto, appare di scarso rilievo il fatto, enfatizzato nei lavori preparatori del codice del 1930 e al quale si fa riferimento anche in quelli preparatori del codice vigente, oltre che da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che la previsione di un potere di appello incidentale conferito dalla legge al pubblico ministero possa servire da "deterrente" per l'imputato, in modo dal trattenerlo dal proporre appelli principali più o meno fondati, intesi spesso non solo a migliorare la propria sorte nel giudizio d'appello, ma anche a realizzare, in relazione alla prevedibile lunghezza dei giudizi di impugnazione, il traguardo della prescrizione del reato. La prevenzione di siffatti pericoli non è che un effetto collaterale e non necessario dell'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero. Come rispetto ad altri istituti del diritto, bisogna saper distinguere anche in questo caso quella che è la giuridica ragion d'essere dell'appello incidentale da quelli che ne possono essere gli effetti. Comunque, il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell'ordinamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, sì che ogni scelta circa l'adozione o meno dell'appello incidentale nel processo penale non può che essere riservata al legislatore.

6. - A questo punto si deve esaminare la questione di costituzionalità sollevata dal giudice rimettente sulla base di alcune proposizioni contenute nella sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte e del dispositivo con cui la stessa ebbe ad eliminare dall'ordinamento processuale del tempo l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero. La sentenza ora menzionata consta di due parti ben distinte. In una prima parte (n. 3 della sentenza) la Corte, considerando fondate le questioni sollevate dai giudici di merito sulla base degli articoli 3 e 24 visti nel loro complesso, rileva che "l'appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l'equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell'imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall'altro nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti". Ed aggiunge che la fondatezza delle censure mosse alla norma denunciata sotto il duplice riflesso degli articoli 3 e 24 della Costituzione "è avvalorata dall'inciso, contenuto nello stesso art. 515, quarto comma, cod. proc. pen., relativo all'inefficacia, ai fini del prosieguo del giudizio di secondo grado, della rinuncia dell'imputato al proprio appello; e dall'ultima parte di detto articolo, relativa al coimputato non appellante". Nel successivo paragrafo (n. 4) la sentenza n. 177 del 1971 prende poi in considerazione la censura mossa all'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale del 1930 da uno dei giudici rimettenti in relazione all'asserito contrasto dell'articolo stesso non soltanto con gli articoli 3 e 24, ma anche con l'art. 112 della Costituzione. E considerando "assorbente" questo profilo di incostituzionalità rispetto ai due profili precedentemente riconosciuti come sufficienti, sia pure nel loro insieme, per il giudizio di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata, contiene le proposizioni dalle quali parte l'odierno giudice rimettente per rilevare il possibile contrasto dell'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero reintrodotto nell'art. 595 del codice vigente in concomitanza con il riconoscimento dello stesso diritto alle altre parti processuali, ed in particolare all'imputato, con l'art. 112 della Costituzione; e ciò a causa del collegamento tra la impugnazione del pubblico ministero in materia penale e l'obbligo di esercitare l'azione penale sancito appunto nella suddetta norma costituzionale, obbligo rispetto al quale l'appello principale del pubblico ministero è dalla sentenza definito "estrinsecazione ed aspetto" e qualificato "atto conseguente, obbligatorio e non discrezionale". Di tale paragrafo 4 della sentenza 177/1971 sono possibili due letture: la prima, rigorosamente ancorata ad alcune proposizioni, dalle quali può evincersi che convincimento della Corte sia che il potere di impugnazione del pubblico ministero è un potere-dovere scaturente direttamente dall'obbligo costituzionale di esercitare l'azione penale; ed una seconda, per cui, pur sempre con riferimento ai doveri nascenti per il pubblico ministero nel quadro segnato dall'articolo 112, sembra che la Corte censuri l'uso improprio che il pubblico ministero può fare dell'appello incidentale "allo scopo pratico di contenere l'iniziativa dell'imputato, che è quanto dire di ostacolarne l'esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e di difesa giudiziaria (ex art. 24, primo e secondo comma, Cost.)". Con questa proposizione finale la sentenza sembra così tornare, mediante l'ulteriore passaggio dell'art. 112, alla censura di incostituzionalità dell'art. 515, quarto comma, codice abrogato, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa dell'imputato.

7. - Ora, quale che sia l'interpretazione più corretta da darsi alla citata sentenza n. 177/1971, deve ritenersi che il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all'obbligo di esercitare l'azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile. Nei lavori preparatori della Costituzione (resoconti delle sedute della Commissione per la Costituzione, detta anche "Commissione dei settantacinque" e resoconti delle sedute dell'Assemblea Costituente), non è dato rinvenire la benchè minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l'azione penale e potere di impugnazione - in particolare potere d'appello - del pubblico ministero quasi che quest'ultimo fosse un'estrinsecazione od una conseguenza necessaria, e pertanto configurante un nuovo dovere, del dovere di esercitare l'azione penale. Dall'esame degli atti suddetti risulta che la costituzionalizzazione dell'obbligo di esercitare l'azione penale fu trattata sotto i tre seguenti profili: rapporti del pubblico ministero con il potere esecutivo nel momento iniziale dell'azione penale; possibilità di prevedere eccezioni a tale obbligo nel senso di possibili sospensioni o ritardi nel suo esercizio; controllo del giudice sui possibili casi di mancata attivazione del pubblico ministero nei confronti di una determinata notitia criminis. Tutti argomenti attinenti al momento iniziale dell'azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi d'impugnazione. Ma, al di là di queste constatazioni, si deve rilevare che tutto il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto il codice vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l'esercizio, non è riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale. Innanzi tutto il pubblico ministero è abilitato dalla legge a fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza. Questa acquiescenza è testualmente prevista dalla legge nell'art. 570, primo comma, del codice di procedura penale (art. 191 del codice abrogato) e non è concepibile che la legge processuale preveda istituti che possono essere in contrasto con doveri funzionali o addirittura con obblighi elevati a rango costituzionale. Da tale possibile acquiescenza deriva, come unica conseguenza prevista dall'ordinamento processuale, il potere di impugnazione del procuratore generale presso la Corte d'appello (v. ancora il citato art. 570, comma primo). Di qui un secondo argomento a favore della impossibilità di considerare il potere di impugnazione del pubblico ministero come inerente all'obbligo di esercitare l'azione penale. Ed infatti un potere conferito alternativamente a due soggetti mal si concilia con la doverosità in capo ad uno solo di essi. Per di più uno dei due soggetti del diritto d'appello alternativamente previsti dall'ordinamento - e cioè il procuratore generale - non è di regola il titolare dell'obbligo di esercitare l'azione penale. In terzo luogo l'appello, come ogni altra impugnazione del pubblico ministero in materia penale, è rinunciabile nelle forme previste dall'art. 589 del codice di procedura penale (art. 206 del codice del 1930), senza che la legge richieda al riguardo alcuna motivazione. Non risulta che siano stati ravvisati profili di illegittimità costituzionale nei suddetti istituti; nè sembra che i ricordati comportamenti del pubblico ministero (acquiescenza, rinunzia) siano suscettibili di censura sotto il profilo della violazione di obblighi funzionali. Se di un dovere in senso lato si può parlare per il pubblico ministero di fronte all'esercizio del potere d'impugnazione, tale dovere è riconducibile a quei generali doveri che competono al pubblico ministero in relazione alle funzioni ad esso demandate, doveri che nel vigente ordinamento giudiziario (art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) sono indicati con riferimento alla vigilanza sull'osservanza delle leggi e sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia e, con specifico riferimento al campo penale, come promovimento della repressione dei reati.

Nel suddetto ordinamento lo specifico obbligo di iniziare ed esercitare l'azione penale è indicato nel separato articolo 74. Da questo insieme di riferimenti è dato trarre la conclusione che quando il pubblico ministero deve decidere se impugnare o meno una sentenza, egli deve interrogare la propria coscienza in relazione al contenuto del provvedimento impugnabile e determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia. Questo vale per l'appello principale; ma analoga considerazione può farsi per l'appello incidentale, con il correttivo del particolare profilo derivante dalla visione che il pubblico ministero possa essere indotto ad avere circa i contenuti della sentenza che il giudice di secondo grado potrebbe essere tratto a pronunciare in accoglimento dell'appello principale dell'imputato pervenendo a conclusioni che egli ritiene, ove fossero adottate, contrarie a giustizia. Se dunque è legittima l'acquiescenza del pubblico ministero nei confronti della sentenza di primo grado, non è accoglibile la tesi secondo la quale tutti i poteri che al pubblico ministero stesso competono dovrebbero esaurirsi nella proposizione dell'appello principale, con ciò restandogli precluso, come incompatibile con i suoi doveri, il ricorso all'appello incidentale. Si deve pertanto escludere che l'art. 595 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede, con quello di altre parti processuali, l'ap pello incidentale del pubblico ministero, sia da considerarsi costituzionalmente illegittimo perchè in contrasto con l'art. 112 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, con l'ordinanza della Corte di Cassazione in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 28 giugno 1995.