Ordinanza n. 230 del 1995

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ORDINANZA N.230

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 444, 445, 446, 447 e 448 del codice di procedura penale e dell'art. 2 n. 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) promosso con ordinanza emessa il 14 novembre 1994 dal Pretore di Bassano del Grappa nel procedimento penale a carico di Battocchio Marcello, iscritta al n. 774 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 maggio 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

RITENUTO che il Pretore di Bassano del Grappa dubita della legittimità costituzionale del rito alternativo dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, nella sua interezza, previsto dall'art. 2, direttiva n. 45, della legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81, nonchè dagli artt. da 444 a 448 del codice di procedura penale; che, in sostanza, da quanto è dato evincere nel complesso iter argomentativo esposto dal remittente, le norme impugnate, in quanto consentono di irrogare una pena "incongrua", perchè diminuita di un terzo rispetto a quella applicabile in un ordinario dibattimento, contrasterebbero: -- con l'art. 27, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione: per la detta "incongruità" della pena, e perchè la medesima verrebbe irrogata senza una vera sentenza di condanna, con l'ulteriore conseguenza che la finalità rieducativa della sanzione non risulterebbe effettivamente perseguibile; -- con l'art. 3 della Costituzione: per la manifesta irragionevolezza della disciplina nel suo complesso; -- con l'art. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione: perchè i diritti alla libertà personale ed alla difesa sono indisponibili; -- con l'art. 111, primo comma, della Costituzione: perchè nella motivazione della sentenza sono esposte come "prove" del reato i soli elementi di prova contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; -- con l'art. 112 della Costituzione: perchè l'azione penale non può dirsi effettivamente esercitata se la richiesta di patteggiamento è presentata nel corso delle indagini preliminari; -- con l'art. 76 della Costituzione (censura rivolta solo verso le disposizioni del codice di rito): per violazione dell'art. 2, prima parte, della legge di delega, statuente l'obbligo del rispetto delle Convenzioni internazionali (nella specie sarebbe violato l'art. 5, secondo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il quale vieta l'irrogazione di pene senza una sentenza di condanna).

CONSIDERATO che, con sentenza n. 313 del 1990, questa Corte, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 444, comma 2, del codice di procedura penale ("nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione") ha già esaminato censure analoghe a quelle sollevate dal Pretore di Bassano dichiarandole non fondate; che, in particolare, nella citata decisione si è chiaramente precisato che il controllo del giudice deve essere esercitato sulla congruità della pena in concreto, quale indicata nella richiesta consensuale delle parti (v. cit. sent. n. 313 del 1990, paragrafo n. 8) e non su quella astrattamente comminabile in assenza della riduzione ("fino ad un terzo") prevista dal primo comma dell'art. 444; che tale controllo, evidentemente, non può non estendersi anche all'osservanza del principio di proporzione tra entità della pena e gravità dell'offesa, comprendendo quindi anche una valutazione sull'effettivo valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalità; che, in ordine ai profili generali che delineano l'istituto del "patteggiamento", questa Corte ha ulteriormente affermato (v. sentenze cit. nn. 116 del 1992 e 313 del 1990): che nella sentenza resa ex art. 444 sussiste pur sempre una indispensabile motivazione che esprime il convincimento del giudice, sia sull'esclusione di elementi acquisiti agli atti che neghino la responsabilità o la punibilità, sia sulla correttezza o meno della definizione giuridica del fatto che scaturisce dalle risultanze e dalla valutazione delle circostanze; che la richiesta di applicazione della pena formulata dall'imputato costituisce essa stessa una modalità di esercizio del diritto di difesa; che il fatto che il giudice conservi comunque, pur in presenza dell'accordo delle parti, il potere-dovere di pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale, è espressione di un principio generale posto evidentemente a garanzia dello stesso imputato; che non può ravvisarsi, nell'istituto in esame, alcuna "disponibilità" da parte dell'imputato dei diritti alla libertà personale ed alla difesa, in quanto la Costituzione garantisce le condizioni affinchè tali diritti possano essere esercitati in tutte le loro legittime facoltà, ma ciò non autorizza a configurare quell'esercizio come obbligatorio; che, sul piano sistematico, ed ai fini che qui interessano, lo stesso diritto vivente identifica nella sentenza di applicazione della pena su richiesta una pronuncia di condanna; che, in conclusione, tutte le questioni devono essere dichiarate manifestamente infondate, ad eccezione di quella sollevata, sulle medesime disposizioni, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, che va dichiarata manifestamente inammissibile, per irrilevanza, in quanto risulta che nel giudizio a quo la richiesta di patteggiamento non è stata presentata durante le indagini preliminari, bensì in limine al dibattimento. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara: 1) la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2 n. 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) e degli artt. 444, 445, 446, 447 e 448 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 76, 13, 24 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Bassano del Grappa con l'ordinanza in epigrafe; 2) la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni, sollevate, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, dal Pretore di Bassano del Grappa con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 02/06/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 06/06/95