Ordinanza n. 137 del 1995

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ORDINANZA N. 137

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 554, primo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 21 giugno 1994 dal Pretore di Arezzo - Sezione distaccata di Sansepolcro nel procedimento penale a carico di Rossi Leandro, iscritta al n. 543 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1994; 2) ordinanza emessa il 16 giugno 1994 dal Pretore di Arezzo - Sezione distaccata di Cortona nel procedimento penale a carico di Roggi Alberto, iscritta al n. 559 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 marzo 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che con due ordinanze di analogo contenuto il Pretore di Arezzo, nell'un caso quale giudice presso la Sezione distaccata di Sansepolcro e nell'altro di Cortona, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 554, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente al pubblico ministero di emettere il decreto di citazione a giudizio senza compiere alcuna indagine e senza prima "sentire" l'indagato; che a tal proposito il giudice a quo rileva come il "fenomeno" della totale carenza di indagini abbia finito per assumere le caratteristiche di una prassi costantemente seguita presso gli uffici del pubblico ministero, e da ciò deriverebbero, a parere del rimettente, "conseguenze gravi e negative", fra le quali il notevole incremento dei processi, con conseguente allungamento dei tempi di celebrazione e connessi rischi di prescrizione dei reati, la diminuita possibilità per l'imputato di difendersi efficacemente, la possibilità che l'esercizio dell'azione penale sia fondata "sull'arbitrio e persegua scopi anomali" e la necessità per il giudice del dibattimento di "svolgere indagini preliminari di competenza degli organi di polizia giudiziaria e del pubblico ministero"; che in rapporto a tale "grave smagliatura nel sistema processuale penale", la disposizione oggetto di impugnativa verrebbe così a porsi in contrasto: a) con l'art. 24 della Costituzione, in quanto, consentendo la norma la prassi censurata, non si assicura alla persona indagata il diritto "di difendersi entro un lasso di tempo ragionevole" e tale diritto verrebbe ad essere "addirittura eliminato alla radice nello stato e nella fase delle indagini"; b) con l'art. 3 della Costituzione, sia perchè - nei casi in cui il rinvio a giudizio si fonda su denuncia privata - si dà credito solo ad una delle parti che hanno interesse nella vicenda, sia perchè è maggiormente garantita la posizione di chi viene rinviato a giudizio davanti al tribunale; c) con l'art. 112 della Costituzione, perchè l'esercizio della azione penale viene ad essere di fatto "delegato al privato"; e che nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

CONSIDERATO che le ordinanze sottopongono all'esame della Corte l'identica questione e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unico provvedimento; che il giudice a quo, dopo aver denunciato come "prassi costante" l'emissione del decreto di citazione a giudizio da parte del pubblico ministero senza aver compiuto alcuna indagine e senza aver interrogato l'imputato, deduce l'illegittimità costituzionale dell'art. 554, primo comma, del codice di procedura penale, proprio nella parte in cui "autorizza" il pubblico ministero a serbare una simile condotta che, a parere del rimettente, è idonea a generare effetti lesivi dei principii sanciti dagli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione; che le prospettazioni svolte dal giudice a quo in punto di fatto indubbiamente riflettono una problematica fortemente avvertita, essendo stato in più sedi e da più parti rilevato come l'impronta di accentuata semplificazione che il legislatore aveva inteso imprimere al rito pretorile si saldasse intimamente, per un verso, ad una rapida celebrazione della fase dibattimentale e, per l'altro, all'adeguata funzione di filtro che avrebbe dovuto svolgere l'auspicato massiccio ricorso ai procedimenti alternativi, sicchè, risultando nella pratica spesso vanificati entrambi gli obiettivi, ha finito per entrare in crisi la coerenza stessa del modello processuale, con l'ovvia conseguenza di produrre risultati non di rado insoddisfacenti sul piano della tutela sostanziale dei valori coinvolti; che peraltro, e pur dovendosi auspicare una rimeditazione legislativa che porti globalmente a soluzione i non pochi problemi offerti dalla pratica, le censure del giudice a quo si rivelano infondate, non essendo da un lato generalizzabile ad ogni ipotesi l'esigenza di compiere specifici atti di indagine (si pensi, ad esempio, alla notitia criminis su base documentale), nè, sotto altro profilo, può ritenersi costituzionalmente imposta l'audizione dell'indagato, iscrivendosi la stessa in una fase che per definizione precede l'esercizio dell'azione penale e la formulazione della imputazione, essenziali per consentire appieno un efficace e concreto esercizio del diritto di difesa; che del pari nessuna violazione subisce il principio di uguaglianza sotto entrambi i profili denunciati, giacchè non sono fra loro comparabili situazioni soggettive eterogenee, quali sono quelle della parte offesa e dell'indagato, mentre le diversità che caratterizzano il rito pretorile rispetto a quello previsto per i reati di competenza del tribunale sono state in più occasioni ritenute conformi all'invocato parametro (v., da ultimo, ordinanza n. 22 del 1995), essendo le stesse in linea con il criterio di massima semplificazione che il legislatore delegante ha enunciato per connotare proprio quel tipo di procedimento; che del tutto inconferente appare il richiamo all'art. 112 della Costituzione, in quanto ancorchè sulla base di una denuncia da parte di privati, la scelta se esercitare o meno l'azione penale spetta comunque e sempre al pubblico ministero; e che, pertanto, la questione deve essere di chiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 554, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 112 della Costituzione, dal Pretore di Arezzo - Sezioni distaccate di Sansepolcro e di Cortona, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/04/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 27/04/95.