Sentenza n. 135 del 1995

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SENTENZA N. 135

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 25 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), promosso con ordinanza emessa l'11 marzo 1993 dal Giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Napoli nel procedimento penale a carico di C. A., iscritta al n. 317 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale per i minorenni di Napoli, in composizione e con funzioni di giudice per l'udienza preliminare, ha sollevato, con ordinanza dell'11 marzo 1993 (pervenuta a questa Corte il 18 maggio 1994), questione di legittimità costituzionale dell'art. 25 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui (comma 1) detta norma esclude l'applicabilità nel processo penale minorile delle disposizioni del titolo II del libro VI del codice di procedura penale (artt. 444-448: c.d. patteggiamento), in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

2.- Il rimettente premette che nel giudizio a quo l'imputato minorenne ha formulato personalmente, all'udienza preliminare, richiesta di applicazione della pena concordata ex art. 444 del codice di procedura penale, in una determinata misura e con sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria; sull'opposizione del pubblico ministero, stante la preclusione al rito richiesto stabilita dall'art. 25 del d.P.R. n. 448 del 1988, la difesa dell'imputato ha eccepito l'illegittimità costituzionale di quest'ultima previsione.

3.- Nel sollevare la questione il Tribunale espone in primo luogo il requisito della rilevanza muovendo dai numerosi profili di concreto interesse, per l'imputato minorenne, a fruire del patteggiamento: a) l'interessato ha già riportato in precedenza altre condanne a pene non sospese, e non può ulteriormente giovarsi del beneficio sospensivo; b) è suo interesse ottenere una sanzione pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, nella misura minima possibile; c) ancora, è suo interesse ottenere una pronuncia come il patteggiamento, non costituente a tutti gli effetti una sentenza di condanna, giacchè viceversa una decisione di quest'ultimo tipo potrebbe comportare la decadenza dall'affidamento in prova al servizio sociale, in corso di svolgimento per precedente condanna; d) mentre la sostituzione di pena sarebbe un dato sicuro applicando il patteggiamento, la stessa sostituzione degrada ad eventualità nell'ipotesi di accesso al rito abbreviato, consentito nella specie; e) infine, vi è l'interesse dell'imputato alla pronuncia di pena concordata anche sul piano della non- iscrizione di essa nel certificato del casella rio giudiziale (art. 689, comma 2, lettera a), numero 5) c.p.p.).

4.- Nel merito della questione, il Tribunale ritiene che la esclusione del patteggiamento nel processo minorile sia in contraddizione con le stesse scelte effettuate dal legislatore del 1988 nel dettare la disciplina del nuovo processo penale minorile; se da un lato l'obiettivo di fondo è quello della più sollecita fuoriuscita del minore dal circuito giudiziario penale, e se in linea con questo obiettivo sono stati previsti gli istituti - nuovi - della irrilevanza del fatto (art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988) e della sospensione del processo per messa alla prova (art. 28 del d.P.R. citato), risulta d'altro lato contraddittorio l'abbandono delle possibilità deflattive e di spedita risoluzione della vicenda processuale insite nel patteggiamento (come pure nel giudizio per decreto, anch'esso non consentito).

Possibilità ed esigenze che però sussistono nel processo a carico di minori, anche alla luce di norme o atti internazionali, come le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile approvate dall'O.N.U. il 29 novembre 1985 (c.d. Regole di Pechino) o come la Raccomandazione sulle risposte sociali alla delinquenza minorile approvata dal Consiglio d'Europa il 17 settembre 1987.

È perciò dubbia, ad avviso del rimettente, la coerenza della norma sulla esclusione del patteggiamento rispetto al raggiungimento degli scopi propri del processo penale minorile.

Nè risulta appagante, in questo senso, la giustificazione della norma offerta dalla relazione ministeriale al progetto preliminare del codice, incentrata sul fatto che la richiesta di patteggiamento presuppone una piena maturità e capacità di valutazione e di scelta che farebbe difetto nel minore, in correlazione con l'obbligo di verifica caso per caso della capacità intellettiva e volitiva del minorenne. Sul punto osserva in contrario il rimettente che l'art. 9 del d.P.R. n. 448 del 1988 impone al pubblico ministero e al giudice la raccolta di dati relativi alla personalità del minore, e dunque individua uno strumento di verifica delle capacità dell'imputato, valevole anche ai fini della richiesta di patteggiamento; nè può dirsi sussistente il rischio di decisioni affrettate e sommarie di "ratifica" del patteggiamento, stanti sia l'obbligo per il giudice di verificare l'assenza di cause di proscioglimento ex art. 129 del codice di procedura penale, sia l'ampio ambito del controllo giurisdizionale sulla richiesta, esteso, in forza di decisione della Corte costituzionale (sent. n. 313 del 1990), anche alla congruità della pena.

5.- Ulteriori elementi contrastanti con la ratio dell'esclusione del rito speciale tratteggiata dalla relazione ministeriale sono poi desunti dal giudice a quo attraverso l'analisi del complesso delle facoltà processuali accordate al minore nel processo penale, che delineano - diversamente da quanto avviene nel processo civile - un soggetto con piena capacità processuale, rispetto al quale le altre figure (genitore, esercente la potestà, congiunto) non si sostituiscono a lui. I diritti e le facoltà processuali, infatti, sono riservati al minore, mentre il genitore e le altre figure richiamate integrano la sua difesa senza sovrapporsi alle sue scelte. Non contraddicono questa configurazione - prosegue il giudice a quo - le norme che consentono l'impugnazione all'esercente la potestà o quelle sulla nomina del difensore da parte di un prossimo congiunto dell'imputato arrestato o fermato, poichè anch'esse rappresentano strumenti ad adiuvandum; ne è riprova l'art. 34 del d.P.R. n.448 del 1988 che assegna la prevalenza all'impugnazione del minore in caso di contrasto con quella del genitore.

6.- Tra le accennate facoltà assume spiccato rilievo, quale termine di raffronto per la questione sollevata, la possibilità per il minore di richiedere il giudizio abbreviato: una scelta attraverso la quale il minorenne, personalmente, dispone in modo incisivo della propria situazione processuale, accettando una marcata contrazione delle proprie possibilità difensive, insita nel giudizio allo stato degli atti e nella utilizzabilità di tutto il materiale di indagine raccolto - salvo le prove acquisite illegittimamente - ai fini della decisione (nonchè, prima dell'intervento della Corte costituzionale, nella inimpugnabilità delle condanne a pena sospesa).

Ad avviso del Tribunale, il "rischio" complessivo per il minore è più alto nel giudizio abbreviato che nel patteggiamento: in questo, al più, potrà esservi rigetto della richiesta, ma in caso di accoglimento l'interessato si vedrà applicata la situazione sanzionatoria predeterminata; nel rito abbreviato, invece, il quadro sanzionatorio è interamente devoluto al giudice, mentre per il minore risulterebbe compromessa la facoltà di "difendersi provando".

A ciò si aggiunge la diversità del termine per formulare la richiesta, che è anticipato nel giudizio abbreviato (fino all'inizio dell'udienza preliminare) rispetto al patteggiamento (fino all'apertura del dibattimento); può così verificarsi che il minore, anche per scarsa attenzione, lasci decorrere il termine per richiedere il rito abbreviato e perda così la possibilità di "influire" sulla pena, mentre questa facoltà è ancora praticabile, ad esempio, per il maggiorenne coimputato dello stesso reato ascritto al minore.

7.- In conclusione, il Tribunale ritiene che l'impossibilità di accesso al patteggiamento per il minore sia ingiustificata, e lesiva dell'art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della disparità di trattamento tra minorenne e maggiorenne, sia sotto il profilo della incongruenza della norma ostativa rispetto alla possibilità, viceversa accordata, di altri riti differenziati, nei quali il "rischio" di perdita di chances è assai elevato e per i quali dovrebbero dunque a maggior ragione valere le giustificazioni (di diminuita o incerta capacità e consapevolezza) offerte dal legislatore nel motivare la denunciata preclusione.

8.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

Nell'atto di intervento, l'Avvocatura argomenta nel senso dell'infondatezza della questione, sotto entrambi i profili.

9.- Quanto al profilo della disparità di trattamento tra minorenni e maggiorenni, l'Avvocatura richiama la relazione alle nuove norme sul processo minorile, in cui si rileva che l'applicazione della pena su richiesta "presuppone nell'imputato una capacità di valutazione e di decisione che richiedono piena maturità e consapevolezza di scelte".

Questa situazione non ricorre per il minore, che in generale per l'ordinamento giuridico non ha la capacità di disporre autonomamente dei propri diritti, e che in particolare per l'ambito penale è in condizione di incapacità assoluta se sotto i quattordici anni ed è soggetto a verifica di maturità in concreto se infradiciottenne.

È proprio la diversa situazione descritta che giustifica un trattamento processuale differenziato e peculiare, nel quale trovano posto, accanto al tradizionale perdono giudiziale, nuovi istituti idonei a tener conto della particolare condizione minorile, quali in particolare la sospensione del giudizio per messa alla prova, e, sul piano delle regole processuali, l'esame diretto da parte del giudice. In questo quadro, osserva l'Avvocatura, l'esclusione del patteggiamento risulta pienamente coerente con la specificità del giudizio penale minorile.

10.- Quanto al secondo profilo, l'Avvocatura contesta la validità del raffronto istituito dal giudice a quo tra giudizio abbreviato e patteggiamento, sottolineando la diversità strutturale tra i due procedimenti speciali.

Il patteggiamento si configura come un accordo tra imputato e pubblico ministero sull'applicazione della pena in una certa misura - salvo il controllo del giudice sulla correttezza del titolo e sulla congruità della pena stessa - e quindi concerne il merito dell'imputazione, pur riflettendosi sul rito; il giudizio abbreviato, viceversa, riguarda soltanto il rito (la decidibilità allo stato degli atti), ma non tocca in alcun modo il merito dell'imputazione.

È proprio in questa fondamentale differenza che risiede la giustificazione della determinazione legislativa di accordare al minore la sola scelta sul processo e non quella sul merito dell'addebito, che implicherebbe una sostanziale rinuncia dell'imputato al pieno accertamento della sua responsabilità; accertamento, viceversa, pieno e completo nell'ambito del giudizio abbreviato, in cui, per quanto qui rileva, le peculiarità processuali non alterano le regole di giudizio, che rimangono quelle proprie del processo penale.

Considerato in diritto

1.- È stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 1, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) nella parte in cui esclude nel processo minorile la disciplina per l'applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) prevista dal titolo II del libro VI (artt. 444 e seguenti) del codice di procedura penale.

Il giudice rimettente assume il contrasto della norma denunciata con l'art. 3 della Costituzione: a) per irragionevolezza della norma, non ritenendo valido fondamento di essa la presunta incapacità del minore, sul rilievo di altri aspetti del processo minorile e in particolare nel raffronto con la possibilità accordata al minorenne di richiedere il giudizio abbreviato - che presenterebbe "rischi" anche superiori al patteggiamento - nonchè alla luce delle norme che configurano la condizione del minore nel processo penale, diversamente da quanto avviene in sede civile, come quella di un soggetto (assistito ma) autonomo e capace di scelte; b) per disparità di trattamento rispetto ai maggiorenni, in particolare coimputati del medesimo reato, i quali godrebbero di chances processuali maggiori; con complessiva incoerenza, sotto entrambe le prospettazioni, rispetto ai principi fondamentali del processo minorile - desumibili anche da statuizioni internazionali - della sollecita fuoriuscita del minore dal circuito penale e della più ampia utilizzazione delle valenze del processo a favore del medesimo imputato.

2.1.- La questione non è fondata sotto entrambi i profili prospettati.

Il giudice a quo ritiene inappagante la giustificazione offerta dalle relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, che fanno leva sulla mancanza nell'imputato minorenne di "una capacità di valutazione e di decisione che richiedono piena maturità e consapevolezza di scelte". Si sostiene difatti nell'ordinanza di rinvio che, nel caso di consenso del pubblico ministero al patteggiamento, incomberebbe pur sempre al giudice, oltre alla "doverosa" acquisizione di elementi sulla personalità del minore ( ciò dovendosi desumere dalla disciplina generale del processo minorile: art. 9 del d.P.R. n. 448 del 1988), l'obbligo di formulare "un proprio giudizio circa la mancanza della possibilità di assoluzione ex art. 129 del codice di procedura penale, la qualificazione giuridica dei fatti e la comparazione delle circostanze e, quindi, a maggior ragione, anche sulla capacità del soggetto al momento della commissione del reato", nonchè - a seguito della sentenza. n. 313 del 1990 della Corte costituzionale - di verificare la congruità della pena concordata.

In proposito osserva la Corte che, nonostante la presenza immanente del controllo del giudice sul patteggiamento - controllo che secondo l'ordinanza di rinvio si estenderebbe fino alla verifica della capacità dell'imputato - la scelta operata dal legislatore circa l'inapplicabilità al processo minorile dell'istituto in parola non appare contraddittoria con la facoltà, invece riconosciuta all'imputato minorenne, di chiedere (personalmente o a mezzo di procuratore speciale) il giudizio abbreviato che comporterebbe, secondo il giudice a quo, una "situazione ... di gran lunga più pregiudizievole" del patteggiamento.

In relazione a quanto precede, si deve considerare che ai fini che si propone l'ordinanza di rinvio non è possibile un raffronto fra i due istituti. Difatti quello del patteggiamento opera su di un piano diverso da quello proprio del giudizio abbreviato, in quanto quest'ultimo istituto si riflette esclusivamente sul rito e sulla misura della eventuale pena, per cui la scelta di esso da parte dell'imputato, se comporta la decidibilità allo stato degli atti, lascia tuttavia impregiudicati i poteri decisori del giudice e quindi aperte tutte le possibili conclusioni del giudizio. Nell' applicazione di pena su richiesta delle parti, invece, il controllo del giudice consiste nella verifica della sussistenza dei presupposti per la sua ammissibilità, della correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell'applicazione o della comparazione delle circostanze, nonchè della congruità della pena concordata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione (sentenza n. 313 del 1990), mentre il giudice stesso può pervenire ad una pronuncia di proscioglimento solo se ricorrano le condizioni previste dall'art. 129 del codice di procedura penale. Ma al di là di questi poteri, una volta intervenuto l'accordo resta esclusa ogni possibilità per una conclusione del giudizio di contenuto assolutorio o comunque diversa da quella concordata, per cui la relativa sentenza, diversamente da quanto si verifica nel giudizio abbreviato, si ricollega in via diretta alla definizione pattizia intercorsa tra imputato e pubblico ministero (sentenza n. 265 del 1994).

D'altronde questa Corte, pur nella consapevolezza di talune analogie tra il rito abbreviato ed il patteggiamento, in ragione della presenza in entrambi di un accordo tra accusa e difesa, e dell'effetto dell'adozione del rito sulla commisurazione della pena, ha sottolineato (sentenze nn. 251 del 1991 e 66 del 1990) come essi risultino "differenziati nel contenuto dell'accordo che, nel primo caso, attiene soltanto alle norme processuali da adottare, mentre nel secondo investe anche il merito del processo e la misura della pena" per cui "nella costruzione del rito speciale regolato dagli artt. 444-448 del codice di procedura penale viene ad emergere un profilo di negozialità", così che l'istituto, "più che essere un rito speciale, è una forma di definizione pattizia del con tenuto della sentenza" (sentenza n. 265 del 1994 citata).

Inoltre, anche se si è ritenuta (sentenza n. 251 del 1991 citata) "l'impossibilità di riferire alla sentenza di cui all'art. 444 del codice di procedura penale natura di vera e propria sentenza di condanna" essa tuttavia, come esplicitamente affermato dalla legge (art. 445, comma 1, c.p.p.) e riconosciuto sia dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte che da quella del giudice ordinario di legittimità, è per vari effetti equiparata alla prima.

"Negozialità", dunque, sul contenuto della decisione, da una parte, ed equiparazione sotto il profilo degli effetti alla sentenza di condanna, dall'altra, costituiscono certamente elementi tali da far ritenere non contraddittorio e quindi non irragionevole aver escluso la richiesta di patteggiamento là dove è ammessa la richiesta di rito abbreviato da parte del minore, dato che in quest'ultimo giudizio, come si è detto, l'accordo delle parti non incide sul contenuto della decisione nè sugli effetti della sentenza del giudice che lo recepisce.

2.2.-Che l'esclusione del "patteggiamento" nel processo minorile non sia poi irragionevole - dato che il recepimento dell'accordo preclude una pronuncia di tipo assolutorio, diversamente da quel che accade con il recepimento dell'accordo per il giudizio abbreviato - si desume, del resto, proprio dal carattere e dalla specificità del processo penale minorile. In esso il giudice è dotato di amplissimi poteri caratterizzati dall'esigenza primaria del recupero del minore, un soggetto dalla personalità ancora in formazione (v. da ultimo sentenza n. 168 del 1994) per cui sono previste misure che, in vista di tale esigenza, possono portare a far concludere il processo in modi e con contenuti diversi da quelli propri del processo penale ordinario.

Queste misure (perdono giudiziale; sospensione del processo e messa alla prova; sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto; più ampio ambito di applicazione delle sanzioni sostitutive) sarebbero invece precluse, nell'attuale configurazione, dal "patteggiamento", istituto quest'ultimo che, pertanto, rispetto al minore, potrebbe condurre a risultati incoerenti rispetto all'accennata finalità e dunque lesivi dei principi fondamentali cui si ispira la giustizia minorile invocati dal rimettente.

3.- Questo aspetto induce altresì ad escludere l'incostituzionalità della norma anche sotto il denunciato profilo della disparità di trattamento, data l'obiettiva diversità delle situazioni poste a raffronto in ragione della particolare condizione e della diversa e più ricca gamma di possibili soluzioni del giudizio per l'imputato nel pro cesso minorile, rispetto a quelle previste per l'imputato maggiorenne nel processo ordinario .

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 1, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Napoli, in funzione di giudice per l'udienza preliminare, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/04/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 27/04/95.