Sentenza n. 129 del 1995

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SENTENZA N. 129

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 23 marzo 1994 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia su ricorso proposto da Belhaiba Abdelilah contro il Ministero dell'interno iscritta al n. 577 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 1995 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. - Belhaiba Abdelilah, cittadino marocchino, entrato in Italia prima del 31 dicembre 1989 e regolarizzato ai sensi della legge n. 39 del 1990, impugnava il decreto di espulsione del prefetto di Milano, motivato sulla base della sentenza di "patteggiamento", emessa nel gennaio 1991, ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale. Affermata preliminarmente la propria estraneità ai fatti, il ricorrente sosteneva che il "patteggiamento" non può (nè deve) essere assimilato a una condanna penale dalla quale soltanto scaturiscono i provvedimenti espulsivi di cui all'art. 7 del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato); e faceva presente, altresì, di essere coniugato con una cittadina italiana e di svolgere un'attività di lavoro subordinato.

Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, chiamato a decidere sul ricorso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 28 febbraio 1990, n. 39 (recte: del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito nella legge 28 febbraio 1990, n. 39), in relazione agli artt. 3, 97, 24, 35 e 25 della Costituzione.

2. - Ha osservato il giudice a quo che la sentenza di "patteggiamento", ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, integra i contenuti di una pronuncia di condanna sia perchè promana da un giudice penale ed irroga una pena criminale, sia perchè in tal senso deporrebbe - in modo esplicito ed inequivoco - il disposto di cui all'art. 445, comma 1, del codice di procedura penale. In ragione di tale natura, il prefetto non avrebbe alcuna discrezionalità nell'espellere lo straniero dal nostro territorio nazionale, e il giudice non avrebbe alcun potere di controllo sull'atto prefettizio.

Il rimettente è a conoscenza ordinanza n. 72 del 1994 della Corte costituzionale che, in relazione alla medesima questione di costituzionalità riguardante l'art. 7 del decreto-legge n. 416 del 1989, come convertito e modificato, dispose la restituzione degli atti per il ius superveniens, costituito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296 (Conversione in legge con modificazioni del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonchè sull'espulsione dei cittadini stranieri). È vero che in quell'occasione la Corte intravide una nuova e ulteriore forma di coordinamento fra la due figure di espulsione - quella giurisdizionale e quella amministrativa - enucleabile dall'art. 7, comma 1, e basata sul cardine dell'inciso <Fermo restando>; tuttavia il giudice a quo ritiene che, anche in ragione del principio di non retroattività della legge penale (la "condanna" a seguito della sentenza di "patteggiamento" è stata anteriore all'emanazione della legge n. 296 del 1993), il menzionato coordinamento non sarebbe applicabile al caso di specie.

L'art. 8 della legge n. 296 del 1993, che ha fornito allo straniero, condannato a una pena inferiore a tre anni, un'alternativa all'espiazione della pena, non avrebbe infatti modificato il quadro dell'espulsione come sanzione accessoria, irrogabile <dal giudice penale nei casi previsti dal codice o dalle leggi speciali e dal prefetto nei residui casi disciplinati dall'art. 7>. Il presente caso non rientrerebbe nel coordinamento istituito in forza dell'inciso <Fermo restando>, di cui al comma 1 dell'art.7, trattandosi d'un particolare tipo di condanna cui non ha fatto seguito, nè poteva farlo, una misura cautelare o espulsiva in sede penale. In conseguenza di tale lacuna, si sarebbe legittimamente determinata un'attivazione del prefetto, obbligatoria e vincolata, che sarebbe culminata in un provvedimento di espulsione, automatico, adottato indipendentemente da una valutazione di pericolosità del soggetto.

Senonchè, la contraddittorietà del sistema si rivelerebbe ancor più, questa volta, in considerazione del fatto che l'art. 445 del codice di procedura penale non suppone un accertamento di responsabilità penale per colui che richiede (e ottiene) il "patteggiamento" al fine di evitare l'alea del giudizio. Ove, pertanto, l'art. 7 dovesse essere interpretato, come sembra al collegio rimettente, nel senso che il prefetto deve procedere all'espulsione dello straniero in modo vincolato, e obbligatoriamente, quando <il giudice penale non ha competenza a pronunciarsi sull'espulsione, perchè la condanna non comporta l'applicazione di tale misura di sicurezza>, detto articolo violerebbe numerosi principi costituzionali.

Confliggerebbe con il canone di ragionevolezza, desumibile dall'art. 3 della Costituzione, e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97. La norma sarebbe altresì in contrasto con l'art. 24, essendo inibito al giudice amministrativo il potere di controllo sulla legittimità sostanziale dell'operato del prefetto, e con l'art. 25, (recte: art. 27), venendo meno la finalità rieducativa della pena e, infine, con l'art. 35, impedendo l'espulsione l'esercizio dell'attività lavorativa di cui è titolare l'interessato.

3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.

Del tutto fuori luogo sarebbe il riferimento all'art. 25 della Costituzione, poichè il profilo della finalità rieducativa della pena si àncora all'art. 27, terzo comma, ove si afferma che le pene <devono tendere alla rieducazione del condannato>. La censura, comunque, sarebbe infondata, stante la possibilità di svolgere un'attività lavorativa anche in altri Stati della comunità internazionale.

Non vi sarebbe contrasto neppure con l'art. 3 essendo assai copiose, nel nostro ordinamento, le disposizioni che regolano in via automatica le misure di rigore, in caso di inosservanza di leggi o regolamenti. Del resto, varie pronunce della Corte costituzionale avrebbero riconosciuto la legittimità delle norme che riservano agli stranieri un trattamento differenziato rispetto ai cittadini, mentre il principio di eguaglianza può essere loro esteso soltanto in relazione alla tutela dei diritti inviolabili (v. particolarmente sentenze n. 244 del 1974 e n. 104 del 1969). Neppure potrebbe prospettarsi una lesione dell'art. 24 della Costituzione, atteso che la legge impugnata, all'art. 5, detta norme in materia di tutela giurisdizionale; e, infine, l'impedimento all'attività lavorativa, con conseguente violazione dell'art. 35, non avrebbe alcuna consistenza posto che gli stranieri non avrebbero alcun diritto costituzionalmente protetto di soggiorno nel territorio nazionale.

Considerato in diritto

1. - Ritorna all'esame della Corte la questione di costituzionalità dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato). La disposizione, nella parte in cui obbliga il prefetto a espellere dal territorio nazionale lo straniero cui sia stata inflitta una pena criminale in forza di una sentenza penale di "patteggiamento" ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, senza che si compiano valutazioni (discrezionali) in ordine alla sua pericolosità sociale o alla sussistenza di altri interessi costituzionalmente tutelati, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 97, 24, 35 e 25 (recte: art. 27) della Costituzione.

2. - Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sull'interpretazione di quelle disposizioni, per vero complesse, contenute nell'art. 7 del decreto-legge n. 416 del 1989, convertito nella legge n. 39 del 1990, richiamate dal giudice a quo. Con ordinanza n. 72 del 1994, sulla base della distinzione tra le due figure di espulsione (la misura di sicurezza e la misura di polizia) veniva sottolineato come l'art. 7 impugnato si aprisse, significativamente, con una "clausola di salvezza" riferibile a tutte le disposizioni già vigenti in materia di espulsione-misura di sicurezza. Il coordinamento tra le due figure di espulsione veniva pertanto conformato in termini di alterità, attraverso una ripartizione "topografica" dell'articolo 7 impugnato, assegnando l'intero primo comma all'area della misura di sicurezza e i commi successivi all'area della misura amministrativa (o di polizia).

3. - Di tale ricostruzione interpretativa si è fatto carico, invero, il giudice a quo quando ha riproposto, negli stessi termini, la questione già a suo tempo sollevata anche da altre sezioni dello stesso tribunale amministrativo regionale. A suo dire, il coordinamento tra le due forme di espulsione produrrebbe, infatti, una nuova ipotesi di "accavallamento" essendo precluso al giudice penale il vaglio della misura di sicurezza espulsiva in forza di una sentenza di "patteggiamento" ex artt. 444-445 del codice di procedura penale. (<La sentenza prevista dall'art. 444, comma 2, non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento nè l'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca>: art. 445, comma 1, del codice di procedura penale). Non potendo il giudice penale applicare la misura di sicurezza dell'espulsione, dovrebbe surrogarlo il prefetto, con la conseguenza di far rivivere tutte le doglianze d'incostituzionalità già lamentate nell'incidente di costituzionalità che dette luogo alla già citata pronuncia di questa Corte.

4. - Ma il ragionamento del rimettente - che pur ripercorre correttamente, in premessa, l'iter argomentativo seguito ordinanza n. 72 del 1994 - non giunge alle sue giuste conclusioni. Infatti, una volta escluso in radice il potere del giudice penale di fare applicazione della misura espulsiva (in forza della cennata disposizione contenuta nell'art. 445, comma 1, del codice di procedura penale) non si comprende perchè - stante la già indicata alterità delle due misure - essa diverrebbe di competenza del prefetto, trasformandosi immotivatamente in una misura di polizia.

In realtà, la ripartizione "topografica" dell'espulsione, disciplinata dall'impugnato art. 7, fra il primo comma (dove consiste nella misura di sicurezza) e gli altri (ove è misura amministrativa, di polizia), comporta anche l'invalicabilità di quel recinto da parte delle diverse autorità preposte all'applicazione delle rispettive misure espulsive. Ponendo il confine, la ripartizione, così individuata da questa Corte, segue anche una diversità strutturale, ontologica, fra le due misure quale discende dalle due autorità statuali cui è attribuita la loro applicazione, sì che l'inapplicabilità d'una di esse - per l'esistenza d'un ostacolo legislativo, d'una deroga o altro - non consente la surroga da parte dell'autorità non competente. Così come la corte di cassazione ha censurato la concessione allo straniero della sospensione condizionale della pena da parte del giudice del "patteggiamento" alla condizione, accettata, dell'espulsione amministrativa dallo Stato, annullando la sentenza resa ex art. 444 del codice di procedura penale, analogamente dev'essere censurata l'indebita sostituzione dell'autorità amministrativa nei poteri espulsivi di competenza del giudice. Del resto, il "patteggiamento" implica, di solito, un giudizio favorevole che accoglie una proposta (o implica un'accettazione) dell'imputato: esso, perciò, non può tradursi in un trattamento deteriore, visto che all'accordo l'imputato potrebbe determinarsi anche, e principalmente, per la previsione legale della inapplicabilità della misura di sicurezza espulsiva.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 35 e 25 (recte: 27) della Costituzione, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/04/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 14/04/95.