Sentenza n. 110 del 1995

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SENTENZA N. 110

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Antonio BALDASSARRE Presidente

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art.67 del r.d. 16 marzo 1942, n.267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con n. 2 ordinanze emesse il 21 aprile e il 19 maggio 1994 dal Tribunale di Milano nei procedimenti civili vertenti tra la s.p.a. Fallimento Codelfa e la s.r.l. Gavardo Officine Meccaniche e tra la s.p.a. Sogefan e la s.p.a. Fallimento Codelfa, iscritte rispettivamente ai nn. 603 e 667 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 47, prima serie speciale, dell'anno 1994; Visti l'atto di costituzione del Fallimento Codelfa s.p.a., nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 marzo 1995 il Giudice relatore Renato Granata.

Ritenuto in fatto

1. - Con due ordinanze in data 21 aprile e 19 maggio 1994 - emesse in altrettanti giudizi, nei quali il Fallimento Codelfa s.p.a. aveva proposto (in un caso, in via riconvenzionale, contro l'attrice Sogefan s.p.a. e, nell'altro, direttamente contro la convenuta Gavardo Officine s.r.l.) analoghe domande di revocazione ex art. 67 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) relativamente a pagamenti effettuati dalla fallita nell'anno anteriore alla sua ammissione alla procedura di amministrazione controllata, cui era conseguito il fallimento - il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 41 della Costituzione, questione incidentale di legittimità costituzionale del citato art. 67 della Legge fallimentare, nella parte in cui tale norma, secondo la consolidata interpretazione della Corte di cassazione, fa decorrere il periodo di revocabilità degli atti compiuti dal fallito a ritroso dalla data di ammissione alla a.c. invece che da quella di dichiarazione del fallimento.

Siffatta esegesi - dalla quale lo stesso Tribunale ricorda di avere, con propria giurisprudenza, in precedenza, dissentito ma che la Corte di cassazione ha "irremovibilmente" riaffermato per cui può assumersi come "diritto vivente" - autorizzerebbe infatti il sospetto di violazione dei precetti costituzionali come sopra invocati, in quanto la norma così interpretata: a) tratterebbe irragionevolmente in modo eguale situazioni diseguali quali, appunto, lo stato di "insolvenza", che conduce al fallimento e la "temporanea difficoltà", che autorizza il tentativo di risanamento dell'impresa attraverso la procedura di a.c.; b) impedirebbe poi di fatto al convenuto in revocatoria di opporre utilmente la propria inscientia decoctionis, poichè la sovrapposizione, presuntiva e retroattiva, in caso di esito negativo della a.c., della condizione fallimentare a quella propria della procedura minore, avrebbe una automatica ricaduta sull'elemento soggettivo del percipiente, che verrebbe così a dipendere da una interversione normativa (a posteriori) del disvalore del fatto, anzichè da una percezione conoscitiva effettivamente diversa e più grave di quella originariamente connessa alla situazione di temporanea difficoltà; c) comprimerebbe, infine, la libertà di azione economica, per l'incertezza che ne conseguirebbe in ordine alla sorte dei negozi compiuti anzitempo dall'imprenditore, alterando prematuramente e dannosamente i rapporti di questo con i suoi interlocutori.

2. - Nel giudizio innanzi alla Corte ha depositato tardivamente memoria la difesa del Fallimento.

3. - È altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura dello Stato che ha eccepito, in linea preliminare, l'inammissibilità della questione, per il suo carattere sostanzialmente interpretativo e di elusione della funzione nomofilattica della Corte di cassazione; ed, in subordine, ne ha contestato, comunque, per ogni verso, la fondatezza.

All'uopo - nell'aderire alla esegesi consolidata della norma denunciata - ha sottolineato l'Avvocatura come le critiche a questa rivolta dalla contraria giurisprudenza e dottrina abbiano sempre prescisso da implicazioni di illegittimità ed ha sostenuto che anzi proprio l'opposta lettura dell'art. 67 della Legge fallimentare, adombrata dal Tribunale a quo, <<potrebbe porre dei dubbi di costituzionalità della norma per disparità di trattamento dei creditori, ed in particolare di quelli assistiti da un diritto di prelazione, i quali non possono dissentire dall'ammissione dell'imprenditore al beneficio>>.

Considerato in diritto

1. - Nel fissare il limite temporale (biennale-annuale) per l'esercizio dell'azione revocatoria in relazione a determinati atti compiuti dal fallito nel c.d. periodo sospetto e suscettibili, per ciò, di ledere la par condicio creditorum, l'art. 67 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sopra impugnato, individua nella "dichiarazione di fallimento" il momento iniziale per il computo, a ritroso, del periodo suddetto.

La norma - riferita all'ipotesi, in sè, del fallimento - non contempla anche la più articolata (ma fattualmente non infrequente) variante procedimentale del fallimento consecutivo a precedente amministrazione controllata dell'impresa e quindi non specifica se, in tale evenienza, il dies a quo dei termini in questione sia identicamente rappresentato dalla dichiarazione di fallimento ovvero vada a coincidere con la data stessa di ammissione alla procedura minore.

1.1. - Le due soluzioni interpretative sono state come è noto, con varietà di argomentazioni, prospettate entrambe in dottrina e giurisprudenza.

La Corte di cassazione ha da tempo, peraltro, fermamente, e senza oscillazione alcuna, aderito alla tesi della retrodatazione del termine di esercizio della revocatoria in caso di consecuzione di procedure.

E, ai fini di tale opzione interpretativa, ha dato preminente rilievo alla ritenuta sostanziale affinità, sia strutturale che funzionale, ed alla conseguente complementarità, delle due menzionate procedure: tra l'altro anche osservando che la tutela degli interessi dei creditori verrebbe irrimediabilmente elusa se si negasse il principio della consecuzione, in quanto non sarebbe mai possibile esperire azioni revocatorie nel successivo falli mento, attesa la durata biennale della amministrazione controllata.

A questo indirizzo non si è invece uniformata una parte, minoritaria, dei giudici di merito (oltre che della dottrina) i quali, alle argomentazioni del Giudice della nomofilachia, hanno opposto la mancanza di base testuale del principio della consecuzione delle procedure, la non identità di ratio e degli obiettivi rispettivi, e soprattutto la asserita concettuale diversità della "temporanea difficoltà", che giustifica l'amministrazione controllata, rispetto alla "insolvenza", che conduce al fallimento, contestando l'assimilabilità della prima alla seconda situazione agli effetti della pretesa esegesi estensiva della norma in esame.

Peraltro, nel rimeditare anche recentissima mente il proprio orientamento alla luce di queste critiche, la Corte di cassazione ha continuato a ribadirlo, a sua volta replicando che proprio le rilevate carenze normative in tema di consecuzione di procedure postulano la necessità di far capo ai principi generali della legge fallimentare per una ricostruzione sistematica della materia; e ancora argomentando che <<insolvenza>> e <<temporanea difficoltà>> sono nozioni che divergono solo per l'aspetto quantitativo, posto che anche la <<temporanea difficoltà>> è qualitativamente <<insolvenza>> (in quanto coincidente con la incapacità dell'impresa di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni) e da essa si discosta solo perchè inerente ad una crisi prognosticata come reversibile; e, comunque, che una volta subentrato il fallimento, ne risulterebbe con ciò dimostrata, ora per allora, la non reversibilità della crisi.

2. - Da questa consolidata e ferma esegesi dell'art. 67 della Legge fallimentare, da parte della Corte regolatrice, prende ora le mosse il Tribunale rimettente, prospettandone il contrasto con gli artt. 3, 24 e 41 della Costituzione, per quanto la norma, così interpretata, rispettivamente: a) <<tratta in modo eguale situazioni diseguali>>; b) <<non consente di fatto al convenuto in revocatoria di eccepire la propria inscientia decoctionis>>; c) <<implica una limitazione della libertà di azione economica>>.

2.1. - Preliminarmente riuniti, per l'identità della norma censurata, i giudizi relativi alle due ordinanze di rinvio, va respinta in limine l'eccezione di inammissibilità di entrambe le impugnative, formulata dall'Avvocatura, poichè ciò che - come più volte puntualizzato - non può richiedersi, attraverso il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, è una sorta di "revisione in grado ulteriore dell'interpretazione offerta dalla Cassazione" (sentenze nn. 271 del 1991, 456 del 1989; ordinanza n. 410 del 1994), "attribuendo a questa Corte un ruolo di giudice della impugnazione che non le compete" (ordinanza n. 44 del 1994); mentre quando - come nella specie - il giudice a quo assuma tale interpretazione in termini di <<diritto vivente>>, allora è <<consentito richiedere l'intervento di questa Corte affinchè controlli la compatibilità dell'indirizzo consolidato con i principi costituzionali>> (sentenza n. 456 del 1989 cit.). Il che è quanto appunto ora sollecita il giudice a quo.

3. - Nel merito la questione è sotto ogni profilo infondata.

3.1. - Non sussiste, in primo luogo, l'ipotizzata violazione del precetto dell'eguaglianza.

L'equiparazione delle due vicende procedurali (del fallimento e dell'amministrazione controllata sfociata nel fallimento), sottesa all'interpretazione estensiva dell'art. 67 della Legge fallimentare che qui si censura, è, come si è detto, alternativamente argomentata - nella giurisprudenza do minante che così individua la "norma applicata" dedotta come oggetto del richiesto scrutinio di costituzionalità - in ragione ora della ritenuta definitività anche della insolvenza che è alla base della procedura minore, come comprovata, ex post, dalla sopravvenienza del fallimento (implicante l'erroneità della più favorevole prognosi formulata ex ante), ora, invece, sulla base della sostanziale identità dei due fenomeni, da un lato, della "temporanea difficoltà" di cui all'art. 187 della Legge fallimentare e, dall'altro, della "insolvenza" di cui all'art. 5 stessa legge, tra loro varianti solo per un connotato di gravità.

Ai fini dello scrutinio di costituzionalità non occorre peraltro esprimere una opzione tra tali due linee interpretative, essendo sufficiente rilevare che - anche alla stregua della seconda impostazione - le situazioni comparate presentano comunque un innegabile nucleo fondamentale comune.

Su una tale identità di fondo dei due fenomeni - che trova, tra l'altro, testuali riscontri nelle norme (artt. 188, 173, 192 della Legge fallimentare) che disciplinano lo sbocco automatico dell'a.c. nel fallimento - finisce, del resto, con il convenire lo stesso Tribunale a quo nel punto in cui risolve la pretesa diversità <<ontologica>> del presupposto delle due procedure nella <<dicotomia insolvenza sanabile/insanabile>>, dove ciò che varia è la prognosi, mentre identica nella sua essenza è la patologia dell'impresa che ne è alla base.

E proprio l'esistenza di tale decisivo denominatore comune delle situazioni in comparazione ne rende non irragionevole l'equiparazione agli effetti indicati; dal che l'inconsistenza del dubbio di violazione dell'art. 3 della Costituzione.

3.2. - Del pari va esclusa la violazione dell'art. 24 della Costituzione.

Al riguardo il Tribunale, anche se in modo non compiutamente esplicito ma del tutto univoco, ricollega la paventata limitazione del diritto di difesa ad una asserita presunzione assoluta di (iniziale) insolvenza conseguente alla (successiva) declaratoria di fallimento, presunzione che impedirebbe al percipiente di provare la propria inscientia decoctionis a fronte di elementi che il Tribunale e gli organi della procedura avevano (in precedenza, al momento della ammissione alla amministrazione controllata) valutato come prova della sussistenza di una semplice temporanea difficoltà di adempiere.

Ma di tale prospettazione va corretta, perchè erronea, la premessa in quanto la riferita presunzione riguarda soltanto il profilo oggettivo del presupposto della revocatoria, cioè la sussistenza dello stato di insolvenza durante il c.d. "periodo sospetto". Invece, quanto al profilo soggettivo, la norma, della cui legittimità si dubita, è dalla Corte di cassazione stessa applicata (cfr. Cass. 2579/72; 1938/72, 10353/93) nel senso di ritenere necessario che sia fornita al giudice di merito la certezza della consapevolezza o della non consapevolezza - secondo la diversa collocazione del relativo onere probatorio ex art. 67, primo e secondo comma - in cui il creditore versava circa <<lo stato di insolvenza>>, inteso come <<la situazione di irreversibile dissesto>> del debitore poi fallito al momento dell'atto oggetto di revocatoria, senza che alcun elemento presuntivo, in una o in altra direzione, possa legittimamente ricollegarsi alla prognosi espressa dal tribunale nel decreto di ammissione alla procedura concorsuale minore, dovendosi invece fare capo agli elementi di valutazione, conosciuti o conoscibili, a disposizione personalmente del creditore beneficiario dell'atto revocando nel momento in cui - si ripete - questo è stato posto in essere.

Con il che rimane superato ogni dubbio sul compiuto dispiegarsi, in materia, del diritto di difesa del convenuto in revocatoria.

3.3. - Infondato è, infine, anche il profilo di adombrata violazione dell'art. 41 della Costituzione.

Invero - escluso, per le ragioni prima esposte, che sia irragionevole fare retroagire alla data di apertura della a.c., ai fini del computo dei termini revocatori, gli effetti della dichiarazione di fallimento - la lamentata incidenza negativa sull'efficienza del mercato, che per la ipotizzata compressione della libertà di scelta dei consociati deriverebbe dalla presenza nell'ordinamento della regola giuridica denunziata, rientra comunque nel bilanciamento - non irragionevolmente operato dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità - con la utilità sociale correlata alla esigenza di un sano e corretto funzionamento del mercato e con la parità di trattamento tra tutti i creditori in presenza della crisi dell'impresa debitrice.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 67 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 41 della Costituzione dal Tribunale di Milano, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 06/04/95.