Sentenza n. 68 del 1995

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SENTENZA N. 68

 

ANNO 1995

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

 

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

 

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

-        Avv. Mauro FERRI

 

-        Prof. Luigi MENGONI

 

-        Prof. Enzo CHELI

 

-        Dott. Renato GRANATA

 

-        Prof. Giuliano VASSALLI

 

-        Prof. Francesco GUIZZI

 

-        Prof. Cesare MIRABELLI

 

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-        Avv. Massimo VARI

 

-        Dott. Cesare RUPERTO

 

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n. 2 ordinanze emesse il 15 aprile e il 13 luglio 1994 dal Tribunale di sorveglianza di Roma nei procedimenti relativi alle istanze proposte da Baddar Alaa Eddine, iscritte ai nn. 541 e 542 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visti gli atti di costituzione di Baddar Alaa Eddine nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;

 

uditi l'avv. Alberto Pisani per Baddar Alaa Eddine e l'Avvocato dello Stato Nicola Bruni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Il Tribunale di sorveglianza di Roma, nell'ambito di una procedura di reclamo ex art. 30-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), avverso il decreto con il quale il Magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile, per difetto del presupposto della collaborazione con la giustizia, la domanda di permesso premio presentata da Baddar Alaa Eddine, detenuto condannato alla pena di anni tredici di reclusione per il delitto di cui all'art. 75 della legge n. 685 del 1975, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, della citata legge n. 354 del 1975, come sostituito dall'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui prevede, relativamente ai condannati per determinati reati, che il beneficio suddetto possa essere concesso solo a coloro che abbiano prestato una condotta di collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall'art. 58- ter dell'ordinamento penitenziario (R.O. n. 541 del 1994).

 

L'organo rimettente sottolinea essere stata accertata l'assenza di collegamenti attuali dell'istante con la criminalità organizzata, e che, tenuto conto del positivo percorso rieducativo seguìto durante l'espiazione della pena, nonchè dell'entità della pena da espiare, non sussisterebbero ostacoli, al di fuori di quello derivante dal la norma sottoposta a censura, alla concessione del beneficio.

 

Precisato che l'istituto del permesso premio integra una concreta modalità del trattamento penitenziario, necessariamente individualizzato ex art. 13 dell'ordinamento penitenziario, il giudice a quo osserva che la norma impugnata possa ritenersi confliggente, in primo luogo, con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, in quanto l'uguaglianza dinanzi alla pena significa innanzi tutto proporzione della pena rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze che ne conseguono, e il trattamento penitenziario deve, per espresso dettato normativo, essere improntato ai criteri di proporzionalità ed individualizzazione nel corso di tutta l'esecuzione della pena.

 

Considerato poi che "l'irretroattività della legge penale sancita dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione si estende a tutte le norme che si riferiscono al quadro sanzionatorio", e che al momento dell'entrata in vigore della normativa in questione l'istante vantava tutti i requisiti di legge perchè fosse valutata nel merito la concedibilità del beneficio richiesto, può altresì ritenersi configurata, secondo il rimettente, la violazione del suddetto precetto costituzionale.

 

Quanto all'ammissibilità della questione, il giudice a quo osserva che la natura giurisdizionale del procedimento di reclamo in esame è avvalorata ora da "un significativo mutamento di indirizzo" nella giurisprudenza della Corte costituzionale: ciò deriverebbe sia dalla sent. n. 306 del 1993, con la quale è stata disposta la restituzione degli atti per jus superveniens di numerose analoghe questioni sollevate nell'ambito di procedure di reclamo avverso declaratorie di inammissibilità di domande di permessi premio, sia dalla motivazione della sent. n. 53 del 1993, che ha affermato, come derivante dalla direttiva ex art. 2 n. 96 della legge- delega 16 febbraio 1987, n. 81, il principio di giurisdizionalizzazione di tutti i provvedimenti, emessi nella fase della esecuzione, concernenti le pene, tra i quali rientrerebbero senza dubbio quelli relativi ai permessi premio.

 

2. Si è costituito in giudizio Baddar Alaa Eddine, rappresentato e difeso dall'Avv. Alberto Pisani, che ha insistito per l'accoglimento della questione.

 

Osserva la parte privata in una memoria illustrativa, in primo luogo, che l'ammissibilità della questione, fondantesi sulle pronunce cui ha fatto riferimento l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza, alle quali va aggiunta anche la sent. n. 349 del 1993, non è contraddetta dalle precedenti decisioni della Corte con le quali si era affermata la inammissibilità della questione della inoppugnabilità della decisione del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo avverso il provvedimento di diniego di un permesso premio, in quanto nel caso di specie il "giudice competente si duole al contrario proprio di non potere esprimere la propria valutazione, avente natura indiscutibilmente giurisdizionale, sull'istanza di permesso avanzata dal condannato".

 

In punto di rilevanza, si ribadisce che, al momento dell'entrata in vigore della nuova normativa, l'interessato aveva già maturato i termini per beneficiare di permessi premio, e che era stata d'altra parte indiscutibilmente acquisita la prova dell'assenza dei collegamenti attuali del medesimo con la criminalità organizzata Nel merito, si sottolinea che il condannato, pur essendo disponibile a una condotta collaborativa, si trova nella impossibilità di fornire un contributo rilevante ai termini dell'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, posto che i fatti e le responsabilità inerenti al sodalizio criminoso per il quale si era proceduto erano stati compiuta mente accertati.

 

Dopo aver ripreso e ulteriormente sviluppato le censure mosse dall'ordinanza del Tribunale rimettente alla norma impugnata, la difesa della parte privata sottolinea che dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 1994 si ricava che l'irragionevole discriminazione con essa di chiarata ha ad oggetto solo la posizione di colui che, pur non avendo potuto legalmente beneficiare dell'attenuante di cui all'art. 114 cod. pen., risulti comunque aver avuto una limitata partecipazione al fatto criminoso. A parere della parte privata, tale situazione non può non essere parificata a quella di chi, come nel caso in esame, "si trovi nell'impossibilità di fornire una qualsivoglia collaborazione per essere stati ormai, fatti e responsabilità, definitivamente accertati".

 

3. Con altra ordinanza (R.O. n. 542 del 1994) lo stesso Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in termini del tutto analoghi a quelli del precedente atto introduttivo, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, in sede di esame di domanda di liberazione condizionale proposta dal medesimo soggetto.

 

4. Anche in questo giudizio si è costituito il Baddar Alaa Eddine, rappresentato e difeso dall'Avv. Alberto Pisani, concludendo per l'accoglimento della questione.

 

Nel riportarsi a quanto dedotto relativamente alla questione di cui all'ordinanza R.O. n. 541 del 1994, in una memoria illustrativa si puntualizza che nessun rilievo può essere dato all'aspetto del livello di partecipazione del soggetto nel sodalizio criminoso, vertendosi in una situazione in cui la collaborazione risulta obiettivamente impossibile per il pregresso documentato accertamento di fatti e responsabilità.

 

Con specifico riferimento all'istituto della liberazione condizionale, si osserva poi che dalla natura sostanziale e non processuale del beneficio, e dal dato giurisprudenziale secondo cui la gravità del reato e la capacità a delinquere palesatasi con esso non possono influenzare negativamente il giudizio sulla concedibilità della liberazione condizionale medesima, essendo rilevante esclusivamente il comportamento successivo alla commissione del reato, appare ancora più stridente il contrasto della norma impugnata con i principii costituzionale indicati.

 

5. È intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione di cui all'ordinanza R.O. n. 541 del 1994 e per la manifesta infondatezza di quella di cui all'ordinanza R.O. n. 542 del 1994.

 

L'Avvocatura si è a tal fine riportata ad altri atti di intervento depositati in precedenti giudizi.

 

La difesa dello Stato ha successivamente depositato memoria a sostegno delle già rassegnate conclusioni.

 

In tale atto si rileva, anzitutto, l'impossibilità per la Corte di delibare le deduzioni svolte dalla parte privata nella memoria illustrativa (estensione dei principi enunciati nella sentenza n. 357 del 1994 anche a chi si trovi nella impossibilità di collaborare essendo stati i fatti e le responsabilità definitivamente accertati) in quanto incentrate su profili diversi da quelli affrontati nella ordinanza di rimessione.

 

D'altra parte, osserva ancora l'Avvocatura, l'entità della pena inflitta nel caso di specie impedisce l'applicazione del medesimo trattamento che la sentenza n. 357 del 1994 ha stabilito per coloro che hanno avuto una partecipazione marginale ai fatti.

 

Nel merito delle questioni, la difesa dello Stato, passate in rassegna le evoluzioni normative ed osservato come la più recente disciplina costituisca il "naturale sviluppo della linea di fermezza iniziata con il d.l. 152 del 1991" ha rilevato che le esigenze di prevenzione generale poste in risalto nella sentenza n. 306 del 1993 giustificano il regime retroattivo della disciplina di rigore oggetto di impugnativa.

 

Porre la collaborazione a presupposto per la concessione dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario, anche se i rea ti sono stati commessi in epoca antecedente alla entrata in vigore della norma censurata, "è un modo - sostiene l'Avvocatura - per agevolare la collaborazione stessa e perciò è uno strumento di politica penale che non può non essere rimesso alla prudente volontà del legislatore". A ciò va aggiunto, conclude l'Avvocatura, che l'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario non può considerarsi nè una norma penale agli effetti dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, nè una norma che incide sulla pena, "ma una norma che regola modalità di esecuzione della pena in presenza di certi comportamenti", cosicchè non può profilarsi un problema di irretroattività.

 

Considerato in diritto

 

1. Le ordinanze sottopongono alla Corte questioni fra loro intimamente connesse: i relativi giudizi vanno pertanto riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

 

2. Con due ordinanze di analogo contenuto pronunciate rispettivamente il 15 aprile ed il 13 luglio 1994 in procedimenti riguardanti, il primo, un reclamo proposto in tema di permesso premio a norma dell'art. 30-bis dell'ordinamento penitenziario, e il secondo l'esame della domanda di liberazione condizionale proposta dal medesimo condannato, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui prevede che nei confronti dei condannati per determinati reati i benefici previsti dall'ordinamento penitenziario e la liberazione condizionale (quest'ultima in virtù del richiamo enunciato dall'art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203) possano essere concessi solo a coloro che abbiano prestato una con dotta di collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario.

 

Rileva anzitutto il giudice a quo in punto di fatto che nei confronti del condannato può ritenersi accertata l'assenza di collegamenti attuali con il crimine organizzato, così come a risultati ampiamente positivi ha condotto il percorso rieducativo scaturito dalla fattiva partecipazione del condannato medesimo al trattamento intramurario:

 

un trattamento, soggiunge il rimettente, del quale gli istituti del permesso premio e della liberazione condizionale - oggetto dei procedimenti a quibus - costituiscono concrete modalità volte ad assecondare il reinserimento sociale. Ancorare, dunque, pregiudizialmente la concedibilità di tali benefici nei confronti dei condannati per taluni delitti all'esclusivo presupposto della condotta collaborativa, determina, secondo il giudice a quo, una irragionevole preclusione idonea ad eludere la funzione rieducativa della pena quale più volte delineata dalla giurisprudenza di questa Corte, non potendosi intravedere una correlazione necessaria tra scelta collaborativa ed evoluzione comportamentale del soggetto nel corso della espiazione della condanna. Sarebbero quindi violati, ad avviso del giudice rimettente, gli artt. 3 e 27 della Costituzione, in quanto l'uguaglianza dinanzi alla pena significa innanzi tutto proporzione della pena rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze che ne conseguono, e il trattamento penitenziario deve essere improntato, per espresso dettato normativo, ai criteri di proporzionalità ed individualizzazione nel corso di tutta l'esecuzione della pena.

 

La norma censurata si porrebbe poi in contrasto con il principio di irretroattività della legge penale sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, trattandosi di principio applicabile a tutte le norme che si riferiscono al quadro sanzionatorio, fra le quali, dunque, vanno annoverate anche quelle che disciplinano il trattamento penitenziario, in quanto incidenti sulla quantità e qualità in concreto della pena inflitta. Nei casi di specie, conclude il rimettente, le modifiche apportate dalla normativa del 1992 hanno sostanzialmente determinato una nuova valutazione del comportamento tenuto dal condannato sulla base di parametri estranei al processo rieducativo o comunque non necessariamente a questo correlati, modificando in tal modo nei suoi aspetti fondamentali l'entità della pena inflitta sotto forma delle relative modalità esecutive.

 

3. Nello sviluppare le considerazioni svolte dal giudice a quo, la difesa della parte privata ha posto in particolare risalto la circostanza che, essendo stati nel caso di specie compiutamente accertati i fatti e le responsabilità, il condannato si trova nella oggettiva impossibilità di prestare la condotta collaborativa prevista dall'art. 58- ter dell'ordinamento penitenziario; sicchè, osserva la difesa, una simile ipotesi non può che essere parificata a quella già esaminata da questa Corte nella sentenza n. 357 del 1994, con la quale è stata affermata l'applicabilità dei benefici penitenziari anche nel caso in cui non possa essere fornita utile collaborazione per la limitata partecipazione al fatto criminoso.

 

Circa l'ammissibilità della questione sollevata nel corso del procedimento promosso a norma dell'art. 30-bis dell'ordinamento penitenziario, peraltro neppure contestata dall'Avvocatura Generale dello Stato, la difesa del condannato ha ribadito le considerazioni svolte dal giudice a quo sottolineando come, alla luce del più recente orientamento di questa Corte (sentenze nn. 53 e 349 del 1993), debba oramai ritenersi pacificamente riconosciuta la natura giurisdizionale del procedimento in questione.

 

4. Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. Basterà, infatti, anche un sommario esame dei lavori parlamentari che si svilupparono in sede di conversione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, con il quale la norma - già enunciata nei precedenti decreti nn. 5 e 76 del 1991, entrambi decaduti - fu per la prima volta iscritta fra le disposizioni che dettano i principii direttivi in tema di trattamento penitenziario, e porre a raffronto i risultati di quel dibattito con l'attività parlamentare svoltasi per la conversione in legge del successivo decreto n. 306 del 1992, per avvedersi agevolmente di come, al fondo di scelte sempre più regressive rispetto alla linea già tracciata dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, stesse l'avvertita esigenza di adeguare l'intero sistema penitenziario agli ormai intollerabili livelli di pericolosità sociale raggiunti dal triste fenomeno della criminalità organizzata.

 

Ma se unitaria può ritenersi la ragione ispiratrice che sostenne tanto la primitiva stesura quanto la successiva modifica della norma oggetto di impugnativa, sono proprio i "passaggi" che la stessa ha subito a mostrare come alla identità degli obiettivi perseguiti abbiano poi finito per corrispondere "strategie" fra loro non poco differenti.

 

L'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, nel testo introdotto dall'art. 1 del decreto-legge n. 152 del 1991, prevedeva, infatti, due distinte "fasce" di condannati a seconda della più o meno diretta riconducibilità dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata od eversiva, e stabiliva che l'ammissione a taluni benefici previsti dallo stesso ordinamento penitenziario potesse essere disposta, per i condannati della prima categoria, soltanto se fossero stati acquisiti "elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva" e per quelli della seconda solo ove non risultassero "elementi tali da far ritenere la sussistenza" di tali collegamenti. Accanto a ciò, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l'ammissione al lavoro all'esterno e per la concessione dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale, che i condannati di cui innanzi si è detto avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell'ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia secondo la nuova previsione dettata dall'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario che lo stesso decreto-legge n. 152 del 1991 aveva introdotto nel corpo della legge n. 354 del 1975.

 

Il trattamento di maggior rigore, quindi, veniva realizzato su due piani fra loro complementari: da un lato, infatti, si stabiliva, quale presupposto generale per l'applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle "fasce" di condannati) l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall'altro, si postulava, attraverso l'introduzione o l'innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l'ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l'effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell'area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell'intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa.

 

Ben diverso è lo scenario scaturito dalle modifiche apportate all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 ad opera dell'art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992. Un primo dato è già offerto dalla rassegna dei delitti per i quali trova applicazione la nuova disciplina. Fra le fattispecie di reato che l'originario testo iscriveva nella prima "fa scia" di condannati, scompare, infatti, il riferimento ai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, rendendo così subito evidente come lo spirito della novella, attraverso la "degradazione" delle fattispecie di tipo eversivo rispetto a quelle riconducibili alla criminalità organizzata, fosse teso ad incentrare proprio su quest'ultimo fenomeno il regime di maggior rigore che si intendeva delineare. Nei confronti dei condannati della prima "fascia", poi, viene stabilito che l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia, fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente irrilevante e sempre che sussistano elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

 

Il mutamento di prospettiva è, dunque, evidente. Pur restando infatti sullo sfondo, quale generale presupposto per la concessione dei benefici, la verificata assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 ha obliterato fino a dissolverli i parametri probatori alla cui stregua condurre un siffatto accertamento, per assegnare invece un risalto esclusivo ad una condotta - quella collaborativa - che si assume come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l'intervenuta rescissione di quei collegamenti.

 

Si passa, pertanto, da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l'inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione).

 

Da ciò consegue, quindi, che, essendo la funzione rieducativa della pena valore insopprimibile che permea l'intero trattamento penitenziario, in tanto è possibile subordinare ad una determinata condotta l'applicazione di istituti che di quel trattamento sono parte integrante, in quanto la condotta che si individua come presupposto normativo risulti oggettivamente esigibile, giacchè, altrimenti, residuerebbe nel sistema null'altro che una preclusione assoluta, del tutto priva di bilanciamento proprio sul piano dei valori costituzionali coinvolti.

 

5. Più volte chiamata a pronunciarsi sull'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, questa Corte ha avuto modo di affrontare tematiche assai prossime a quelle che formano oggetto del presente giudizio. Con la sentenza n. 306 del 1993, infatti, vennero anzitutto poste in risalto, in linea generale, le "serie perplessità" cui dava luogo - secondo l'originario testo che compariva nel decreto-legge n. 306 del 1992, solo in parte temperato nella conversione in legge - la vanificazione dei programmi e dei percorsi rieducativi che sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto, "particolarmente nei confronti di soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e, comunque, per i soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali sia adeguatamente dimostrata". Ma, soprattutto, si sottolineò come alla ipotesi della collaborazione oggettivamente irrilevante introdotta dalla legge di conversione potesse "agevolmente assimilarsi, per identità di ratio, quella in cui un'utile collaborazione non sia possibile perchè fatti e responsabilità sono già stati completamente acclarati o perchè la posizione marginale nell'organizzazione non consente di conoscere fatti e compartecipi pertinenti al livello superiore".

 

Con la sentenza n. 357 del 1994, invece, questa Corte, nell'affrontare la questione della preclusione ai benefici penitenziari riguardante i condannati che, per la limitata partecipazione al fatto criminoso, non sono in grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia, ha affermato l'irragionevolezza di una previsione che determinava effetti discriminatori nei confronti del condannato che "per il suo limitato patrimonio di conoscenze di fatti o persone" non fosse in grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, ribadendosi, nella circostanza, come alla collaborazione oggettivamente irrilevante dovesse essere interpretativamente equiparata la collaborazione impossibile, derivante, tra l'altro, dalla circostanza che fatti e responsabilità erano già stati completamente acclarati. A simili conclusioni la Corte è pervenuta essenzialmente sulla base della considerazione che il requisito della collaborazione è richiesto dalla disciplina in esame "quale dimostrazione del distacco del condannato dal mondo della criminalità organizzata", sicchè, ove un utile contributo non possa essere offerto a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso, non possono, per ciò solo, scaturirne effetti pregiudizievoli sul piano della ammissione ai benefici penitenziari.

 

Ancorchè successiva alle ordinanze di rimessione, la pronuncia da ultimo ricordata appare quindi intimamente connessa ai profili che il giudice a quo deduce, cosicchè nell'esame e nello sviluppo di questi non potrà prescindersi dai risulta ti cui questa Corte è da ultimo pervenuta.

 

6. Già nella sentenza n. 306 del 1993 e, come si è detto anche nella sentenza n. 357 del 1994, questa Corte ha dunque avuto modo di evidenziare, sia pure in un più generale contesto, l'equiparazione che è possibile tracciare sul piano della identità di ratio tra la collaborazione oggettivamente irrilevante e l'ipotesi di collaborazione impossibile perchè "fatti e responsabilità sono già stati completamente acclarati", operando, tuttavia, all'interno di uno sviluppo ermeneutico dell'art. 4-bis che faceva comunque salva la necessità che sussistessero "i requisiti legali" che la stessa norma presuppone (assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, risarcimento del danno ovvero applicazione delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 114 o 116, secondo comma, c.p.).

 

L'ulteriore passaggio, quindi, non può che essere quello di condurre alle naturali conseguenze i principi già enunciati nella richiamata sentenza n. 357 del 1994. Una volta affermata, infatti, la necessità di consentire l'applicazione dei benefici penitenziari al condannato che, per il suo limitato patrimonio di conoscenze di fatti o persone non sia in grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia, e ciò anche a prescindere dai casi di applicazione degli artt. 62 n. 6, 114 e 116, secondo comma, c.p., è doveroso pervenire alle medesime conclusioni, proprio per l'identità di ratio di cui innanzi si è detto, anche nel caso in cui la collaborazione sia impossibile perchè i fatti e le responsabilità risultano ormai integralmente accertati nella sentenza irrevocabile. Collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile, dunque, finiscono per saldarsi all'interno di un quadro unitario di collaborazione oggettivamente inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento preclusivo previsto dalla norma proprio perchè privato, in simili casi, della funzione stessa che il legislatore ha inteso imprimergli.

 

Introdurre, quindi, come presupposto per la applicazione di istituti funzionali alla rieducazione del condannato un comportamento che obiettivamente non può essere prestato perchè nulla aggiungerebbe a quanto è stato già accertato con la sentenza irrevocabile, equivale evidentemente ad escludere arbitrariamente una serie importante di opportunità trattamentali, con chiara frustrazione del precetto sancito dall'art. 27 della Costituzione e senza alcuna "contropartita" sul piano delle esigenze di prevenzione generale sulle quali pure questa Corte non ha mancato di soffermarsi nelle pronunce più volte richiamate. È evidente, infatti, che le persone condannate prima dell'entrata in vigore della norma oggetto di impugnativa, in tanto possono essere indotte a serbare una condotta collaborativa, in quanto residui in concreto uno spazio per collaborare e offrire, per questa via, un tangibile segno della propria dissociazione dal crimine organizzato. Se invece tale spazio manchi, come accade nell'ipotesi devoluta all'esame di questa Corte, gli effetti della norma sono esattamente opposti agli obiettivi che con essa si è inteso perseguire, giacchè il condannato viene ad essere posto in una condizione di sostanziale indifferenza rispetto alla scelta se recidere o meno i collegamenti con il mondo del crimine.

 

Conseguenze, quelle appena accennate, che ancor più si appalesano in stridente antinomia con il sistema e con lo stesso principio di uguaglianza ove si consideri che le medesime finiscono in concreto per scaturire da un profilo del tutto estrinseco ed occasionale, quale è quello rappresentato dalla maggiore o minore ampiezza ed incisività degli accertamenti compiuti e dei risultati conseguiti nel corso del procedimento dal quale è derivata la con danna.

 

La norma va dunque dichiarata costituzionalmente illegittima in parte qua per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, ferma restando, peraltro, la necessità che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

 

La declaratoria di incostituzionalità della norma per violazione degli indicati parametri esime la Corte dal prendere in esame l'ulteriore censura avanzata con riferimento all'art. 25 della Costituzione.

 

Caducata, poi, la preclusione normativa prevista dall'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, automatici ne risultano gli effetti anche per ciò che concerne l'istituto della liberazione condizionale, considerato che tanto il giudice a quo che la giurisprudenza di legittimità interpretano come formale il rinvio al medesimo art. 4-bis enunciato dall'art. 2 del già citato decreto-legge n. 152 del 1991 (v., in proposito, la sentenza n. 39 del 1994).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi;

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, secondo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 15, primo comma, lettera a), del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano essere concessi anche nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata;

 

b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui non prevede che i condannati per i delitti indicati nel comma 1 dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possano essere ammessi alla liberazione condizionale anche nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/02/95.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 01/03/95.