Sentenza n. 52 del 1995

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SENTENZA N. 52

 

ANNO 1995

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

 

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

 

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

-        Avv. Mauro FERRI

 

-        Prof. Luigi MENGONI

 

-        Prof. Enzo CHELI

 

-        Dott. Renato GRANATA

 

-        Prof. Giuliano VASSALLI

 

-        Prof. Francesco GUIZZI

 

-        Prof. Cesare MIRABELLI

 

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-        Avv. Massimo VARI

 

-        Dott. Cesare RUPERTO

 

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del codice di procedura penale e dell'art. 3, comma 1, lettera a), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), promosso con ordinanza emessa il 15 marzo 1994 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia nel procedimento penale a carico di Ginocchietti Claudio ed altri, iscritta al n. 320 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 1995 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nell'ambito di un procedimento a carico di cinque imputati di violenza carnale concretatasi in tre episodi commessi nell'arco di circa un mese in unicità di disegno criminoso, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia, premesso che due degli imputati erano stati gi sottoposti a procedimento penale avanti al Tribunale dei minorenni relativamente al primo episodio, verificatosi quando essi non avevano ancora raggiunto i diciotto anni, e che ora i medesimi dovevano essere giudicati, quali maggiorenni, relativamente agli altri due episodi, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di costituzionalità dell'art. 14, comma 2, cod. proc. pen. e dell'art. 3, comma 1, lettera a), della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, "nella parte in cui non prevedono che, nel caso previsto dall'art. 12, lett. b), cod. proc. pen., la connessione operi tra procedimenti per i reati commessi quando l'imputato era minorenne e quando l'imputato era maggiorenne".

 

Il giudice remittente osserva che il comma 2 dell'art. 14 cod. proc. pen., in ossequio alla citata direttiva della legge-delega, prevede, appunto, la non operatività della connessione tra procedimenti per reati commessi dallo stesso imputato quando era minore e quando era maggiore degli anni diciotto. Tale disposizione, tuttavia, contrasterebbe con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) nonché con il diritto di difesa (art. 24 Cost.).

 

Sotto il primo profilo, si rileva che se si parte dalla considerazione che il processo a carico di imputati che abbiano commesso i fatti quando essi erano infradiciottenni ha finalità di tutela dei diritti del minore, di reinserimento e di recupero, e che la specificità delle norme processuali e sostanziali applicabili ai minorenni ha imposto la creazione di un giudice ad hoc e l'applicazione di istituti centrati sulle particolari condizioni psicologiche del minore, "non si vede quale ragionevolezza possa consentire che in relazione a quel medesimo soggetto, le cui esigenze di tutela e le cui condizioni psicologiche naturalmente non cambiano a secondo della sede processuale, si applichino poi le norme ordinarie per fatti commessi da maggiorenni".

 

Tale considerazione, si precisa, riguarda naturalmente non i casi di connessione meramente soggettiva ma quello di connessione derivante da continuazione ex art. 12, comma 1, lettera b), ultima ipotesi, cod. proc. pen., il solo ad assumere rilevanza nel presente procedimento: il disegno criminoso unitario che lega i fatti commessi prima e dopo il compimento dei diciotto anni è maturato nel caso in esame quando il soggetto era minorenne, sicché la previsione dell'art. 14, comma 2, appare del tutto irragionevole, in quanto disancorata dal dato fattuale e dalle effettive esigenze di tutela del soggetto.

 

Da ci consegue che tutto il complesso degli strumenti processuali e sostanziali previsti per il minorenne viene di fatto vanificato per il contemporaneo assoggettamento dell'imputato a un procedimento penale condotto secondo il rito ordinario, e ci in palese dissonanza con le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile enunciate dall'Assemblea generale dell'O.N.U. nel 1985 (c.d. "Regole di Pechino"), tese ad evitare i pregiudizi che possono derivare al minore dal contatto con l'apparato della giustizia e dall'ingresso nel circuito penale.

 

Le norme impugnate, inoltre, contrasterebbero con l'art. 24 Cost., per il pregiudizio al diritto di difesa dell'imputato "cui viene negata una unitaria valutazione dei fatti".

 

Precisa da ultimo il remittente che, tenuto anche conto della sentenza della Corte costituzionale n. 22 (recte, n. 222) del 1983, "la soluzione normativa che si prospetta come praticabile non è quella dell'attrazione presso il giudice ordinario dei procedimenti per reati commessi quando l'imputato era minorenne, ma quella esattamente contraria".

 

2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

 

Nell'atto di intervento si osserva che la sommaria esposizione dei fatti del procedimento, risultante dall'ordinanza, non consente di verificare la sussistenza nella fattispecie dell'unitarietà del disegno criminoso, dal che consegue l'impossibilità per la Corte costituzionale di controllare la rilevanza della questione.

 

Nel merito, si nega che l'art. 14, comma 2, cod. proc. pen. contrasti con l'art. 3 della Costituzione, considerato che al soggetto minore è assicurata l'applicabilità della particolare disciplina sul processo minorile, essendo ragionevole che al maggiorenne, pur se imputato di reati inquadrabili nell'ambito dell'unitarietà di disegno criminoso insieme ad altri fatti commessi da minorenne, sia applicata l'ordinaria disciplina: tale unitarietà di disegno criminoso, infatti, sarebbe "interrotta" proprio dal raggiungimento della maggiore età.

Né, secondo la difesa del Governo, può essere ravvisato alcun contrasto con l'art. 24 della Costituzione, atteso che l'imputato, una volta divenuto maggiorenne, "potrà difendersi con tutti quegli strumenti che l'assetto normativo mette a disposizione di qualsiasi soggetto che abbia raggiunto i 18 anni di età".

 

Considerato in diritto

 

1.- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia dubita del contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. dell'art. 14, comma 2, cod. proc. pen. e dell'art. 3, comma 1, lettera a), della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, nella parte in cui non prevedono che, nel caso di continuazione di reati (art. 81, secondo comma, cod. pen.), contemplato dall'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la connessione operi fra procedimenti per reati commessi quando l'imputato era minorenne e procedimenti per reati commessi quando il medesimo era maggiorenne, con devoluzione alla competenza del Tribunale per i minorenni dei procedimenti in tal modo connessi.

 

Secondo il giudice remittente la concomitante competenza del Tribunale per i minorenni e del Tribunale ordinario per i reati in continuazione, non riducibile nell'ambito di un simultaneus processus innanzi al primo di tali organi proprio per effetto delle disposizioni impugnate, può ritenersi contrastare, in primo luogo, con l'art. 3 Cost., sotto il profilo sia del principio di uguaglianza sia del principio di ragionevolezza, in quanto, trattandosi di fatti commessi in unitarietà di disegno criminoso, tutto il complesso degli strumenti processuali e sostanziali previsti per il minorenne verrebbe a essere di fatto vanificato per il contemporaneo assoggettamento dell'imputato a un procedimento penale condotto secondo il rito ordinario.

 

Sarebbe inoltre leso l'art. 24 Cost., per il pregiudizio al diritto di difesa dell'imputato, cui verrebbe "negata una unitaria valutazione dei fatti".

 

2.- Va preliminarmente rigettata l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato.

 

Il giudice a quo assume che tra i vari episodi di violenza carnale commessi nell'arco di circa un mese in danno della medesima persona sia ravvisabile il vincolo della continuazione. E, non rientrando nei poteri della Corte sindacare una simile valutazione, la questione deve ritenersi rilevante.

 

3.- Nel merito la questione non è fondata.

 

In virtù della previsione legale che collega il raggiungimento della maggiore et al compimento dei diciotto anni, deve presumersi che, nella realizzazione di ogni fatto-reato, il soggetto agente versi in una dimensione psicologica che è quella propria dello status (minorenne o maggiorenne) che la legge, ratione aetatis, gli riconosce, sicché non è irragionevole n lesivo del principio di uguaglianza o del diritto di difesa che, delle condotte realizzate con la maturità del maggiorenne, egli risponda penalmente secondo le norme sostanziali e processuali proprie degli adulti.

 

Tale conclusione non è messa in crisi qualora i vari fatti-reato siano stati realizzati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Anche se si accoglie la concezione pi rigorosa secondo la quale perché sussista il reato continuato occorre che i vari fatti devono essere stati tutti previsti, programmati e deliberati in via preliminare dall'autore come elementi costitutivi di un piano unitario, ci non toglie che ogni fatto facente parte del programma criminoso deve essere assistito dal momento volitivo, che si pone autonomamente, di volta in volta, nella realizzazione concreta dei singoli episodi.

 

D'altra parte non è in via di principio indifferente che il soggetto, per una parte degli episodi, sia assoggettato agli istituti minorili, in quanto il trattamento penale complessivo ben può essere influenzato dagli istituti di favore (ad esempio, irrilevanza del fatto, messa alla prova, perdono giudiziale, diminuente ex art. 98 cod.pen.) che caratterizzano il sistema penale minorile. In altri termini, non può dirsi nemmeno del tutto rispondente al vero l'affermazione del giudice a quo secondo cui questi istituti sarebbero completamente "vanificati" dalla contemporanea applicazione degli istituti processuali e sostanziali previsti per gli adulti.

 

A ciò va aggiunto che la separazione delle procedure non impedisce, ovviamente, che, sussistendo i presupposti della continuazione di reati, si faccia applicazione del criterio del cumulo giuridico delle pene ex art. 81 cod. pen., eventualmente da parte del giudice della esecuzione, a norma dell'art. 671 cod. proc. pen..

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del codice di procedura penale e dell'art. 3, comma 1, lettera a), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 febbraio 1995.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Ugo SPAGNOLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 20 febbraio 1995.