Ordinanza n.490 del 1994

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ORDINANZA N. 490

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 4 maggio 1994 dal Tribunale di Monza sull'istanza proposta dalla s.p.a. Mariovilla nei confronti della s.d.f. G.A.M. Luce, iscritta al n. 488 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1994;

 

2) ordinanza emessa il 26 maggio 1994 dal Tribunale di Rimini sull'istanza proposta dalla Banca Popolare Valconca di Morciano nei confronti della s.a.s. Carnevali Evio e C., iscritta al n. 534 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

 

Ritenuto che nel corso del procedimento instaurato per la dichiarazione di fallimento della società di fatto G.A.M. Luce di Sandri Andrea e La Rosa Antonino, il Tribunale di Monza, con ordinanza in data 4 maggio 1994, ha sollevato, in relazione all'art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone che < in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali>;

 

che, ad avviso del Tribunale rimettente, la società debitrice, non iscritta nell'Albo delle imprese artigiane, svolgeva attività di produzione e vendita di lampade con l'esclusivo lavoro dei due soci ed era alimentata da introiti particolarmente modesti, sì che potrebbe essere ritenuta < piccola impresa> se non vi ostasse il disposto dell'ultima parte dell'art. 1 del citato Regio decreto n. 267;

 

che, di conseguenza, il Tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma anzidetta per violazione dell'articolo 3, primo comma, della Costituzione, nonostante una precedente negativa pronuncia di questa Corte (sent. n.54 del 1991);

 

che il concetto di piccolo imprenditore, secondo l'interpretazione corrente, si riferirebbe esclusivamente alle imprese individuali e non a quelle costituite in forma societaria, anche quando, per limiti dimensionali ed attività esercitata, esse non differiscono dalle prime, sì che ne di scenderebbe una palese disparità di trattamento non solo tra imprenditori individuali e piccole società, ma, in questo stesso ambito, tra le società di persone a seconda che rivestano la qualifica formale di artigiane o commerciali;

 

che tale ultima incongruenza sarebbe stata favorita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n.368 del 1991, avrebbe affermato l'esclusione delle società artigiane dal fallimento e l'assoggettabilità di tutte quelle imprese societarie che - per limiti dimensionali e per l'assenza di speculazione e di profitto - non risultino piccoli imprenditori;

 

che l'irrazionale disparità di trattamento si apprezza ulteriormente in considerazione del fatto che la legge 8 agosto 1985, n.443 (legge quadro per l'artigianato), secondo una diffusa interpretazione della giurisprudenza, richiede - per la qualificazione di società artigiana - l'iscrizione nell'Albo delle imprese istituito presso la Camera di commercio, onde due società, svolgenti le medesime attività economiche senza intento speculativo, sia per la modestia dei mezzi sia per la prevalenza del lavoro sul capitale, sarebbero diversamente trattate a seconda che abbiano o meno richiesto l'iscrizione nel predetto Albo;

 

che, pur avendo questa Corte respinto analoga questione di costituzionalità con le sentenze nn. 395, 374 e 11 del 1993 (tutte con preciso richiamo alla sentenza n. 54 del 1991), il tribunale rimettente ha creduto di doverla riproporre in ordine allo specifico profilo della differenziazione dei trattamenti conseguibili sulla base dell'iscrizione (o meno) della società personale nell'Albo previsto dalla legge;

 

che, con altra ordinanza, emessa nel procedimento per la dichiarazione di fallimento della società in accomandita semplice Carnevali Evio e C., il Tribunale di Rimini ha sollevato analoga questione di costituzionalità relativa all'art. 1, secondo comma, del Regio decreto n. 267 del 1942;

 

che, anche in questo caso, la società debitrice avrebbe tutte le caratteristiche per essere qualificata come piccolo imprenditore se non vi ostasse la disposizione impugnata;

 

che, ad avviso del giudice a quo, all'attuale stadio della legislazione la presunzione di speculazione e profitto, caratteristica delle società commerciali, non dovrebbe più ritenersi elemento essenziale delle società di capitale, come mostrerebbe l'esempio delle società sportive;

 

che ne conseguirebbe l'irrazionalità, nel mutato contesto legislativo, della presunzione assoluta della finalità lucrativa stabilita per tutte le società nell'ultimo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, tuttora in vigore, in quanto essa impedirebbe all'impresa societaria di fornire al giudice la prova circa le proprie piccole dimensioni (e, quindi, la prova dell'assenza dello scopo di lucro);

 

che altrettanto irragionevole sarebbe - rispetto alle società commerciali di persone - il differente trattamento riservato alle imprese artigiane a struttura societaria, per le quali non vi sarebbero invece ostacoli all'accertamento delle caratteristiche di piccola impresa, ai sensi dell'art. 2083 codice civile (censure di incostituzionalità in relazione ai parametri di cui agli art. 3 e 24 della Costituzione);

 

che, per entrambi i giudizi, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.

 

Considerato che, con argomenti già valutati da questa Corte (sent.n. 266 del 1994), con le due ordinanze in esame viene impugnata l'identica disposizione rappresentata dall'art. 1, secondo comma, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui stabilisce che < in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali>;

 

che l'unica sostanziale nuova prospettazione è costituita dal preteso diverso trattamento delle società < di piccole dimensioni> a seconda che abbiano (o meno) richiesto l'iscrizione nell'Albo delle imprese artigiane;

 

che in ordine all'assoggettabilità (o meno) al fallimento della società artigiana devesi prendere ulteriormente atto - come già rilevato nella citata sentenza n. 266 - dell'errato presupposto d'uno stabile orientamento giurisprudenziale;

 

che, pertanto, previa la riunione dei giudizi, la questione va dichiarata manifestamente infondata.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in relazione all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Monza e, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Rimini, con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/12/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/12/94.