Sentenza n. 465 del 1994

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SENTENZA N. 465

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, del decreto legge 22 dicembre 1981 n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito con modificazioni nella legge 26 febbraio 1982 n. 54, promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 16 dicembre 1993 dal Pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra Italo Rotta e s.p.a. Seat Italia iscritta al n. 72 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1994;

 

2) ordinanza emessa il 26 marzo 1994 dal Tribunale di Sassari nel procedimento civile vertente tra Angela Pinna e ditta E.Cesaraccio iscritta al n. 305 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 23 novembre 1994 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio vertente tra Rotta Italo e la Seat Italia s.p.a. il Pretore di Milano con ordinanza emessa il 16 dicembre 1993 ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 decreto-legge 22 dicembre 1981 n.791 (Disposizioni in materia previdenziale) convertito in legge 26 febbraio 1982 n. 54, nella parte in cui non consente a chi inizia l'attività lavorativa pochi mesi prima (meno di 6) del raggiungimento dell'età pensionabile, di esercitare l'opzione a continuare il rapporto di lavoro di cui all'art. 6 del citato decreto-legge n.791/1981.

 

Tale norma, infatti, con lo stabilire che l'esercizio della facoltà di opzione deve essere comunicato al datore di lavoro almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione a causa del trattamento ingiustificatamente discriminatorio operato nei riguardi dei lavoratori che si trovano nella suddetta situazione.

 

2. - Nel giudizio avanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

 

Ha rilevato la difesa erariale che non sembra contrastare con il principio di ragionevolezza l'aver previsto un termine perentorio per l'esercizio da parte del lavoratore della facoltà di optare per la prosecuzione del rapporto di lavoro, tanto più che la ratio della norma è anche quella di consentire una "programmazione" del turn-over da parte del datore di lavoro.

 

Sotto tale profilo, ha osservato l'Avvocatura dello Stato, l'esercizio della opzione corrisponderebbe ad una esigenza di certezza nello svolgimento e nella risoluzione del rapporto di lavoro.

 

3. - Analoga questione è stata sollevata dal tribunale di Sassari con ordinanza emessa il 26 marzo 1994, nel corso di un giudizio vertente tra Prima Angela e la ditta E. Cesareccio, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento ad essa intimato nonostante che la lavoratrice avesse tempestivamente comunicato la volontà di avvalersi del diritto di opzione ex art. 6 decreto-legge 22 dicembre 1981, n.791 (Disposizioni in materia previdenziale) convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54.

 

Il giudice a quo lamenta che la mancata estensione ai lavoratori che abbiano esercitato l'opzione della tutela reale di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, vanificherebbe in concreto la possibilità di maturare la massima anzianità contributiva e si porrebbe perciò in contrasto con l'art. 3 della Costituzione sia nel caso in cui la disposizione sia interpretata nel modo più letterale, escludendosi comunque - anche per le imprese che ne abbiano i requisiti dimensionali - la possibilità di emettere l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro; sia nel caso in cui la norma venga interpretata nel senso della applicabilità della tutela reintegratoria solo ove l'impresa abbia i requisiti dimensionali prescritti.

 

Nella prima interpretazione, rileva il giudice a quo, la disparità di trattamento consisterebbe nel fatto che il raggiungimento della massima anzianità contributiva viene rimesso l'orientamento contingente del datore di lavoro; nella seconda, invece, il principio di eguaglianza sarebbe compromesso in quanto la possibilità di continuare a prestare l'attività lavorativa per raggiungere una maggiore anzianità contributiva dipenderebbe, a parità di mansioni e retribuzioni, dalle dimensioni occupazionali dell'impresa.

 

4. - Anche in tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione.

 

Ha rilevato la difesa erariale che con riguardo alla questione di legittimità costituzionale sollevata sotto il profilo della "ritenuta" applicabilità della tutela reintegratoria solo nel caso della sussistenza dei prescritti requisiti dimensionali dell'impresa, questa difetterebbe di rilevanza nel giudizio a quo dal momento che l'impresa occupa meno di 15 dipendenti; in ordine al profilo "ammissibile", ha osservato l'Avvocatura generale dello Stato, che la questione potrebbe risolversi con una sentenza interpretativa di rigetto tenuto conto delle argomentazioni svolte dalla Corte di cassazione nellasentenza n. 11311 del 23 novembre 1990.

 

Considerato in diritto

 

1. - Data l'analogia delle questioni i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

 

2. - Il Pretore di Milano dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, del decreto legge 22 dicembre 1981 n.791, convertito con modificazioni nella legge 26 febbraio 1982 n.54, nella parte in cui, nel prevedere che l'esercizio della facoltà di opzione a proseguire il rapporto di lavoro debba essere esercitato nel termine di sei mesi prima del raggiungimento dell'età pensionabile, non consente a chi inizia l'attività lavorativa successivamente alla suddetta data di usufruire del previsto beneficio.

 

Osserva il giudice a quo che tale disposizione opererebbe un trattamento ingiustificatamente discriminatorio nei riguardi dei lavoratori che si trovano nella sopra descritta situazione.

 

3. - La questione va dichiarata inammissibile.

 

Dalla motivazione dell'ordinanza di rimessione e dagli atti di causa risulta infatti che nel caso di specie il lavoratore non ha in concreto esercitato l'opzione; pertanto, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo sentenza n. 362 del 1994) viene meno il presupposto essenziale per la rilevanza della questione, atteso che solo a fronte di un esercizio, anche se tardivo, della facoltà di opzione, può affrontarsi la questione della ragionevolezza del termine previsto.

 

4. - La questione sollevata dal Tribunale di Sassari ha ad oggetto lo stesso art. 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981 n.791, convertito con modificazioni nella legge 26 febbraio 1982, n. 54, nella parte in cui non estende ai lavoratori che abbiano esercitato l'opzione a continuare a prestare l'attività lavorativa, la tutela reintegratoria stabilita dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300.

 

A parere del remittente tale mancata estensione vanificherebbe in concreto la possibilità di usufruire del beneficio previsto e si porrebbe perciò in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la prosecuzione dell'attività lavorativa per raggiungere una maggiore anzianità contributiva verrebbe a dipendere, a parità di mansioni e retribuzioni, dalle dimensioni occupazionali dell'impresa.

 

5. - La questione non è fondata nei termini che saranno di seguito precisati.

 

Va premesso che la norma impugnata consente al lavoratore di continuare a prestare la propria opera oltre la scadenza del rapporto al fine di incrementare la propria anzianità contributiva sempre che (circostanza questa non ricorrente nel corso di specie) non sia stato già raggiunto l'ammontare massimo del trattamento pensionistico. Da ciò consegue - come costantemente affermato dalla Corte di cassazione e da ultimo anche dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 225 del 1994 e 309 del 1992) - che a seguito dell'esercizio della facoltà di opzione di cui all'impugnato art. 6, quarto comma, del decreto- legge n. 791 del 1981, il rapporto di lavoro rimane assoggettato, quanto alle garanzie di stabilità, alla medesima disciplina ad esso applicabile, ma al datore di lavoro non è più consentito di collocare a riposo il dipendente per raggiunti limiti di età; invero, il rifiuto del datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto, malgrado l'esercizio della facoltà in questione configura un atto radicalmente nullo per contrarietà ad una norma imperativa, con conseguente obbligo di riassunzione del lavoratore.

 

Ne deriva che, pur se, come rilevato dal giudice a quo, l'art. 6 del decreto-legge n. 791 del 1981, -diversamente da quanto previsto dall'art. 4 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 sulla parità di trattamento tra uomini e donne nel rapporto di lavoro- , nel prevedere la normativa applicabile al rapporto di lavoro a seguito dell'esercizio della facoltà di opzione, si limita a richiamare la legge 15 luglio 1966 n. 604 senza far alcun riferimento alle successive modifiche ed integrazioni, in ogni caso dovrà ritenersi preclusa la facoltà del datore di lavoro di intimare il licenziamento per raggiunti limiti di età.

 

6. - Così interpretata la disposizione, non appaiono ravvisabili i vizi di incostituzionalità dedotti, tanto più che anche la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato in caso analogo la nullità assoluta del licenziamento "ad nutum" di una lavoratrice ultracinquantacinquenne in possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia, con il conseguente permanere degli originari obblighi contrattuali compreso l'obbligo del datore di lavoro di far lavorare la dipendente e di corrisponderle le retribuzioni.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto legge 22 dicembre 1981 n.791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito con modificazioni nella legge 26 febbraio 1982 n. 54, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Milano con l'ordinanza di cui in epigrafe;

 

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, del decreto legge 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito con modificazioni nella legge 26 febbraio 1982 n. 54, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Sassari con l'ordinanza di cui in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/12/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/12/94.