Sentenza n. 414 del 1994

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SENTENZA N. 414

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 228 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 3 marzo 1994 dal Tribunale di Casale Monferrato nel procedimento penale a carico di Gatti Antonio, iscritta al n. 284 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 ottobre 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza emessa il 3 marzo 1994, il Tribunale di Casale Monferrato ha sollevato, nel corso di un giudizio penale avente ad oggetto una imputazione di bancarotta fraudolenta ex art. 216, comma secondo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), questione di legittimità costituzionale dell'art. 228 del citato regio decreto, che prevede il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

2.- Il rimettente rileva preliminarmente che, in base all'esame degli atti del giudizio (che si svolge con il rito abbreviato), la condotta penalmente rilevante ascritta al curatore di un fallimento di impresa individuale dovrebbe essere qualificata non già secondo il titolo dell'imputazione originaria di bancarotta bensì, più esattamente, come reato di interesse privato del curatore, ex art. 228 impugnato. Questa diversa qualificazione, aggiunge, è consentita nell'ambito del giudizio abbreviato, nel rispetto dell'art. 521, comma 1, del codice di procedura penale.

3.- Il Tribunale osserva poi che con la legge 26 aprile 1990, n. 86, è stata abrogata la fattispecie incriminatrice comune dell'interesse privato in atti di ufficio di cui all'art. 324 del codice penale, strutturata in termini identici a quelli descritti nella norma impugnata;

si verifica quindi, ad avviso del giudice a quo, la persistente punibilità del curatore fallimentare per una fattispecie di reato cui non sono più soggetti gli altri pubblici ufficiali.

Questa situazione, prosegue il rimettente, determina una disparità di trattamento non giustificata, e perciò lesiva dell'art. 3 della Costituzione, che non può neppure ritenersi "... colmata dal rinvio contenuto nella norma (impugnata) ...all'art. 323 del codice penale, ove venga letto nella nuova formulazione" conseguente alla riforma apportata con la legge n. 86 del 1990, "... e ciò indipendentemente dalle ragioni per cui nell'art. 228 della legge fallimentare è previsto un diverso regime sanzionatorio".

4.- É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per una declaratoria di non fondatezza della questione;

l'Avvocatura richiama a tal fine la giurisprudenza costituzionale che riconduce all'ambito del legittimo esercizio della discrezionalità legislativa le ipotesi di diversificazione della disciplina di certe fattispecie che, pur simili ad altre, presentino rispetto a queste ultime elementi di diversità, come si verifica nel caso in esame, stante la specificità del settore fallimentare e della figura del curatore del fallimento.

Considerato in diritto

1.- Il giudice rimettente dubita, in riferimento all'art.3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 228 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n.267) che prevede la pena della reclusione da due a sei anni e la multa non inferiore a lire quattrocentomila per il "curatore che prende interesse privato in qualsiasi atto del fallimento direttamente o per interposta persona o con atti simulati".

Si osserva nell'ordinanza di rimessione che "in virtù della legge n. 26 aprile 1990, n. 86 è stata espunta dal nostro ordinamento la fattispecie normativa di cui all'art. 324 c.p. (interesse privato in atti di ufficio), norma strutturata in maniera identica all'art. 228 della legge fallimentare". In base a quest'ultima norma "il curatore fallimentare continuerebbe ad essere sottoposto ad una fattispecie cui non sono oramai più soggetti.. gli altri pubblici ufficiali, determinandosi così una disparità di trattamento che non può ritenersi colmata dal rinvio", contenuto nel citato art. 228, "all'art. 323 cod.pen., ove venga letto nella nuova formulazione successiva all'entrata in vigore della legge n. 86/90".

2.- La questione non è fondata.

Va innanzitutto precisato che l'art. 228 della legge fallimentare, recante il titolo "interesse privato del curatore negli atti del fallimento", nel mentre ricollega al curatore stesso i reati imputabili in generale ai pubblici ufficiali, facendo a taluni di essi esplicito richiamo con la clausola di sussidiarietà espressa nella formula "salvo che al fatto non siano applicabili gli artt. 315, 317, 318, 319, 321, 322 e 323 del codice penale", configura in modo autonomo, sia pure simile nel contenuto all'abrogato art. 324 del codice penale, la fattispecie dell'interesse privato riferita al curatore fallimentare, comminando, fra l'altro, una pena detentiva maggiore, nel minimo e nel massimo, rispetto a quella dell'analogo reato già previsto dall'abrogato art. 324 del codice penale per il pubblico ufficiale.

L'incriminazione in modo autonomo del suddetto reato se commesso dal curatore fallimentare, pur recante il medesimo titolo di quello ora abrogato nel codice penale, evidenzia l'intento del legislatore di attribuire una specialità - e un connotato di maggiore gravità, espresso nel trattamento sanzionatorio - al reato di interesse privato riferito al curatore, rispetto alla previsione incriminatrice del codice penale già prevista per il pubblico ufficiale; figura, quest'ultima, cui, anche sotto altri profili, il curatore è assimilato.

Detta specialità costituisce indubbio indice di disomogeneità fra l'abrogata fattispecie dell'art. 324 del codice penale e quella prevista per il curatore dalla legge fallimentare. Una disomogeneità che ha indotto evidentemente lo stesso giudice rimettente ad escludere - per il fatto stesso di sollevare la questione, con ciò supponendo la perdurante vigenza della norma impugnata - l'implicita abrogazione anche dell'art. 228 della legge fallimentare, quale conseguenza dell'abrogazione dell'art. 324 del codice penale, mostrando così di non aderire alla opinione espressa da qualche autore.

In presenza di situazioni normative fra loro non omogenee, stante l'autonomia e la specialità dell'art. 228 del r.d. n.267 del 1942 rispetto all'abrogato art. 324 del codice penale invocato come tertium comparationis, non trova fondamento la tesi di una ingiustificata disparità di trattamento che si sarebbe venuta a determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 86 del 1990, fra il curatore fallimentare ed il pubblico ufficiale rispetto alla situazione precedente: da un lato, già in origine le fattispecie incriminatrici dell'interesse privato erano, nei due casi, rispettivamente autonome e diversificate nel segno della maggiore severità per la prima; dall'altro, non si è determinata una indiscriminata abolitio criminis delle condotte del pubblico ufficiale già qualificabili come fatti di interesse privato in atti di ufficio, bensì si è verificata la riconduzione di quelle condotte a nuove fattispecie (artt. 323 e 326) del codice penale - secondo un fenomeno di successione di incriminazioni enucleato, in termini consolidati, dalla giurisprudenza e già sottolineato da questa Corte (ord. n. 6 del 1992) - per cui perde rilievo l'asserzione, da cui muove il giudice a quo, della impunità di cui godrebbero i pubblici ufficiali per le richiamate condotte, sebbene assimilabili a quelle del curatore.

La dichiarazione di infondatezza della questione non può peraltro esimere la Corte del richiamare l'attenzione del legislatore sull'esigenza di coordinamento del vigente art.228 della legge fallimentare con le modifiche introdotte per i reati commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ad alcuni dei quali detto articolo peraltro, come si è detto, rinvia presupponendo situazioni normative oggi abrogate o sostituite con altre previsioni incriminatrici ad opera della legge n. 86 del 1990. Un profilo, questo, che assume particolare rilievo per quel che concerne la riserva, operata dal citato art. 228, di applicazione dell'art. 323 del codice penale, sostituito con una fattispecie che, come si è detto, comprende, mutatis mutandis, ipotesi corrispondenti a quelle incriminate dalla norma della legge fallimentare oggetto del presente giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 228 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Casale Monferrato, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/11/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 07/12/94.