Sentenza n.392 del 1994

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SENTENZA N. 392

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA Presidente

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438 e dell'art. 6, primo comma, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103 (Disposizioni urgenti in materia previdenziale), convertito, con modificazioni, nella legge 1° giugno 1991, n. 166, promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1993 dal Pretore di Brescia nel procedimento civile vertente tra Zeni Angela e l'Inps, iscritta al n. 788 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di costituzione di Zeni Angela e dell'Inps, nonchè l'atto di intervento del Presi dente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 25 ottobre 1994 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

udito l'avv. Carlo De Angelis per l'Inps.

Ritenuto in fatto

 

1. - Il Pretore di Brescia, nel corso del pro cedimento civile promosso da Zeni Angela nei con fronti dell'Inps per il riconoscimento dell'integrazione al trattamento minimo della pensione indiretta sino al 30 settembre 1983 e conseguente "cristallizzazione" dello stesso per il periodo successivo, con ordinanza del 13 maggio 1993 (R.O. n. 788 del 1993), ha sollevato, in riferimento all'art. 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 14 novembre 1992, n. 432 - rectius, dell'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n.438 - nella parte in cui prevede un termine decadenziale che inciderebbe sul diritto alle prestazioni pensionistiche.

Osserva il giudice remittente che la disposizione de qua, travolgendo la norma di interpretazione autentica dell'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n.639 di cui all'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, che ha limitato la sanzione decadenziale ai soli ratei pregressi delle prestazioni previdenziali, violerebbe il principio costituzionale di imprescrittibilità del diritto alla pensione in sè considerato. Di qui il contrasto con l'art. 38 della Costituzione.

Il giudice a quo rileva che, in caso di accoglimento della questione sollevata, troverebbe nuovamente applicazione il citato art. 6, primo comma, del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166. Ma anche tale norma sarebbe illegittima per contrasto con gli artt. 38 e 3 della Costituzione.

Il remittente si fa carico della sentenza della Corte n. 246 del 1992, che ha respinto le analoghe censure sollevate nei confronti della norma, sul rilievo della sola estinzione, a seguito di decorrenza del termine decennale di decadenza, dei singoli ratei, e non del diritto alla pensione.

Ma proprio tale conclusione della Corte non sarebbe condivisibile, in quanto fondata sulla negazione della estinzione del diritto alla pensione, mentre nella fattispecie oggetto del giudizio a quo la norma in questione avrebbe determinato proprio tale effetto.

L'ordinanza muove dalla considerazione che la norma dispone la estinzione per decadenza del diritto ai ratei "pregressi" e non ai "singoli" ratei delle prestazioni previdenziali, cui, invece, nella stessa disposizione si fa riferimento per indicare che dall'insorgenza del relativo diritto decorrono i termini decadenziali in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo. Pertanto, nella fattispecie, venendo meno la possibilità di attribuzione, per effetto del decorso del termine di de cadenza decennale, dell'integrazione al trattamento minimo per il rateo di pensione afferente alla data del 30 settembre 1983, verrebbe ad estinguersi concretamente e totalmente ogni possibilità di integrazione, nonchè di cristallizzazione di detto trattamento per il periodo successivo al 30 settembre 1983. In proposito, nell'ordinanza si richiama l'art.6, settimo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, che prevede testualmente che l'importo erogato alla data di cessazione del diritto alla integrazione viene conservato sino al suo superamento, ciò che comporterebbe, stante l'utilizzazione del termine "erogato", la possibilità di conservazione dell'integrazione al trattamento minimo solo nel caso in cui sussista concreto pagamento della prestazione relativa al rateo precedente la data di cessazione del diritto.

In definitiva, la norma censurata, nella parte in cui afferma che la decadenza determina l'estinzione del diritto ai "ratei pregressi" (cioé precedenti la data di presentazione della domanda giudiziale), e non ai "singoli" ratei delle prestazioni previdenziali, negando sostanzialmente, per le ragioni anzidette, il diritto alla pensione a chi si trovi nella situazione descritta, violerebbe l'art.38 della Costituzione; diversificando irrazionalmente nel trattamento giuridico le identiche situazioni di diritto sostanziale dei titolari di trattamenti pensionistici dell'Inps, recherebbe vulnus all'art. 3 della Costituzione.

2. - Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la ricorrente Zeni Angela concludendo per la inammissibilità per irrilevanza delle questioni sollevate, e, in subordine, per l'accoglimento delle stesse.

Quanto all'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, la irrilevanza nel giudizio a quo deriverebbe dalla circostanza che, trattandosi di procedimento già instaurato prima della emanazione della norma, si sarebbe dovuta applicare la norma transitoria di cui al terzo comma dello stesso articolo 4, che espressamente esclude tali ipotesi dalla nuova disciplina decadenziale.

Inammissibile sarebbe, sempre per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991. Nella fattispecie sottoposta all'esame del giudice a quo non si verificherebbe quel travolgimento del diritto alla pensione, censurato dal remittente. Infatti, la decadenza, proprio per la interpretazione della norma fornita dalla Corte con la sentenza n. 246 del 1992, avrebbe un effetto limitato ai ratei pregressi, mentre sarebbero salvi i ratei precedenti nell'ambito del decennio anteriore all'azione, adeguati al minimo, e quindi la cristallizzazione di quanto percepito anche per i periodi successivi.

Solo per l'ipotesi in cui non si acceda a tale tesi, la difesa riserva la richiesta di illegittimità costituzionale.

3. - Si è costituito, altresì, l'Istituto nazionale della previdenza sociale, che ha richiesto una pronuncia di manifesta infondatezza ritenendo che la tesi del Pretore sarebbe del tutto dissimile da quella sostenuta dalla Corte e dal diritto vivente.

4. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o la infondatezza della questione.

5. - Nell'imminenza dell'udienza, le parti costituite hanno depositato memorie.

La ricorrente ha, in particolare, osservato che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992 è già stata affrontata dalla Corte con la sentenza n. 20 del 1994.

Quanto alla denuncia dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, viene ribadita nella memoria la inesattezza della interpretazione del giudice a quo, secondo cui la decadenza determinerebbe l'abbattimento di tutti i ratei precedenti, con la conseguente perdita della cristallizzazione, non spettante a chi non fosse in godimento del minimo all'entrata in vigore del d.l. n. 463 del 1983.

Al riguardo, si rileva che il sistema di computo dei termini di decadenza indicato nell'ultima parte del primo comma dell'art. 6 in caso di mancato ricorso, fornisce anche il canone di individuazione dei ratei stessi che vengono fatti salvi dalla decadenza. Se, infatti, il termine decorre per singoli ratei, l'esperimento dell'azione in una data determinata andrà a coprire il decennio precedente facendo salvo il diritto ai ratei in esso ricompresi ed estinguendo quello relativo ai ratei ancora precedenti. Solo in via subordinata, qualora non sia accolta, con tale linea interpretativa, la tesi della infondatezza della questione, la Zeni richiede la pronuncia d'illegittimità costituzionale.

6. - Nella memoria dell'Inps si osserva che i ratei pregressi, sui quali opera la decadenza secondo la norma di cui all'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, sono quelli maturati anteriormente alla domanda giudiziale, e che la decadenza determina, oltre alla estinzione del diritto a percepire quei ratei, anche l'inammissibilità della relativa domanda giudiziale.

Questo, si osserva, non incide sul diritto alla pensione, in quanto non esclude il diritto ai ratei successivi alla proposizione della domanda giudiziale.

D'altra parte, l'espressione usata dal legislatore per indicare la decorrenza del termine decadenziale nel caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, cioé la "insorgenza del diritto ai singoli ratei", non potrebbe che essere intesa nel senso del fatto generatore della prestazione previdenziale, e cioé del provvedimento di liquidazione, ponendosi il pagamento dei singoli ratei di pensione come esecuzione di una prestazione periodica, oggetto di una obbligazione di durata.

Se la norma fosse interpretata nel senso che in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, il termine decorre dal pagamento del singolo rateo, sì da prevedere per ogni rateo di pensione un termine di dieci anni per adire l'autorità giudiziaria, si creerebbe una manifesta disparità di trattamento tra coloro che hanno proposto ricorso amministrativo, per i quali il termine di decadenza decorre dalla data di comunicazione dell'esito del ricorso, e coloro che, non avendo proposto ricorso, godrebbero del termine su ogni singolo rateo, potendo così procrastinare indefinitamente l'eventuale ricorso all'autorità giudiziaria.

7. - Anche l'Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria con la quale insiste per la inammissibilità o la infondatezza delle questioni.

Rileva al riguardo che, quanto all'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, il Pretore non ne ha valutato l'applicabilità nel caso di specie, non tenendo conto del terzo comma dello stesso articolo, che dispone l'esclusione della nuova disciplina per i procedimenti instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, ancora in corso alla medesima data. Nel merito, l'Avvocatura richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 1994.

Anche con riferimento alla denuncia dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, si osserva che nella ordinanza di rimessione non è valutata la rilevanza della questione nel giudizio a quo. Nel merito, una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali conduce, secondo l'Avvocatura, ad escludere, dovendosi comunque far salva la imprescrittibilità del diritto alla pensione, che nel caso in cui si sia interrotta la continuità della erogazione di essa, non si conserverebbe neppure il diritto ai ratei successivi.

Considerato in diritto

 

1. - Il Pretore di Brescia dubita anzitutto della legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nella parte in cui, sostituendo il secondo e il terzo comma dell'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, riduce da decennale a triennale il termine di decadenza dall'azione giudiziaria per le controversie in materia di trattamenti pensionistici.

Esso avrebbe "travolto" la norma di interpretazione autentica di detto art. 47, di cui all'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166, che aveva limitato la sanzione decadenziale ai soli ratei pregressi delle prestazioni previdenziali salvaguardando il principio costituzionale di imprescrittibilità del diritto alla pensione per sè considerato.

L'attuale dizione della norma impugnata non consentirebbe la limitazione della operatività della decadenza ai soli ratei pregressi e comporterebbe, pertanto, l'estinzione del diritto alla prestazione.

Di qui il lamentato contrasto con l'art. 38 della Costituzione.

2. - In conformità alle eccezioni formulate dalla parte privata e dall'Avvocatura dello Stato, la questione deve essere dichiarata inammissibile. Il remittente ha, infatti, pretermesso ogni valutazione sull'applicabilità alla fattispecie sottoposta al suo esame dell'impugnato art. 4 in relazione al terzo comma dello stesso articolo, che esclude l'estensione della nuova disciplina ai procedimenti instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 384 del 1992 (19 settembre 1992) ancora in corso alla medesima data.

Al riguardo, questa Corte, con la sentenza n. 20 del 1994 - emessa, peraltro, in epoca successiva alla ordinanza di remissione di cui è causa - ha chiarito che va esclusa l'applicabilità del nuovo regime decadenziale quando, in relazione al ricorso amministrativo proposto anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, si siano già verificati i presupposti di decorrenza del termine previsto dalla legge precedente per la proposizione della domanda giudiziale e questo sia ancora pendente a quella data.

3. - Il Pretore di Brescia ha impugnato anche l'art. 6, primo comma, del d.l. 29 marzo 1991, n.103, convertito, con modificazioni, nella legge 1° giugno 1991, n. 166, in riferimento agli artt. 38 e 3 della Costituzione.

La norma censurata fornisce un'interpretazione autentica dell'art. 47, commi secondo e terzo, del d.P.R. n. 639 del 1970, stabilendo che i termini previsti da detto articolo sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale ed aggiungendo che "la decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilità della relativa domanda giudiziale.

In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto".

Secondo il remittente, detta norma garantirebbe un ossequio solo formale al principio costituzionale della imprescrittibilità del diritto alla pensione, determinando, in concreto, l'estinzione dello stesso diritto nei casi, come quello oggetto del giudizio a quo, di integrazione al trattamento minimo relativamente al cumulo di pensioni, in cui, non essendo stato erogato, per effetto del decorso del termine decadenziale, il rateo di pensione afferente al 30 settembre 1983 (data di cessazione del diritto per disposizione legislativa: art. 6, comma terzo, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638), ed essendo, per la stessa ragione, travolti anche tutti i ratei pregressi, verrebbe meno ogni possibilità di integrazione nonchè di "cristallizzazione" del detto trattamento per il periodo successivo.

Da ciò il remittente è indotto a sospettare il contrasto della norma in questione, oltre che con l'art. 38, anche con l'art. 3 della Costituzione per disparità di trattamento di identiche situazioni di diritto sostanziale di titolari di pensioni Inps.

Il quesito è stato posto in via subordinata all'accoglimento della prima questione, ritenendo il Pretore che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384 determinerebbe una reviviscenza dell'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103. Ma la rilevata inammissibilità della questione sol levata in via principale rende inammissibile, in tale prospettazione, anche la seconda (sentt. n. 208 del 1992, 408 del 1988).

Va, tuttavia, qui ribadito quanto già affermato da questa Corte nella citata sentenza n. 20 del 1994, secondo cui l'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991 si è integrato in una fattispecie normativa complessa, formata dalla legge interpretata e da quella interpretativa, mentre l'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992 ha modificato solo la prima di tali componenti, senza abrogare l'altra.

Una volta ammessa la perdurante vigenza della norma di cui all'art. 6 indipendentemente dalla caducazione di quella di cui all'art. 4, ben può essere esaminata in via autonoma la censura riferita alla prima.

3.2. - Anche relativamente ad essa è stata mossa dall'Avvocatura dello Stato eccezione di inammissibilità per carenza di individuazione degli elementi di rilevanza della questione.

L'eccezione merita accoglimento.

L'ordinanza si limita ad una generica indicazione del petitum e della data del ricorso, mentre non contiene la menzione della decorrenza del diritto vantato dalla ricorrente, nè dell'eventuale previo esperimento di ricorso amministrativo.

In tale situazione, mancano elementi idonei ad una ricostruzione della fattispecie che consenta una valutazione completa dell'applicabilità ad essa della normativa censurata.

Resta, in tal modo, assorbita la ulteriore eccezione di inammissibilità per irrilevanza sollevata dalla parte privata nell'atto di costituzione, sul presupposto della inidoneità della norma impugnata a produrre, nella fattispecie oggetto del giudizio principale, l'effetto, censurato dal giudice a quo, della estinzione del diritto alla prestazione previdenziale.

Non può, tuttavia, sottacersi, al riguardo, che, anche a voler ammettere, alla stregua dell'interpretazione del remittente, un effetto estintivo del diritto (nella specie, del diritto alla pensione), esso non sarebbe in alcun modo collegabile alla disciplina della decadenza, derivando direttamente dalla norma sostanziale che esclude dal 1° ottobre 1983, in caso di concorso di due pensioni, la conservazione della integrazione al trattamento minimo per entrambe, riservandola solo ad una di esse.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del decreto- legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento all'art. 38 della Costituzione, dal Pretore di Brescia con l'ordinanza in epigrafe;

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, del decreto- legge 29 marzo 1991, n. 103 (Disposizioni urgenti in materia previdenziale), convertito, con modificazioni, nella legge 1° giugno 1991, n. 166, sollevata, in riferimento agli artt. 38 e 3 della Costituzione, dal Pretore di Brescia con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/11/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Gabriele PESCATORE, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 Novembre 1994.