Sentenza n.385 del 1994

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SENTENZA N. 385

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA Presidente

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa l'8 gennaio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia- Romagna sul ricorso proposto da Preda Giuliano ed altro contro il Comune di Bologna, iscritta al n. 53 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. Preda Giuliano e Dardari Raniero, dipendenti di ruolo del Comune di Bologna, proponevano ricorso giurisdizionale per ottenere l'applicazione del disposto dell'art. 20 della legge 24 dicembre 1986, n. 958 (Norme sul servizio militare di leva e sulla ferma di leva prolungata). Con sentenza n. 148 del 1991 il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia- Romagna riconosceva ai ricorrenti il diritto alla ricostruzione della carriera, comprendendo il periodo di servizio militare svolto da entrambi, e condannava il Comune di Bologna al pagamento delle maggiori retribuzioni, in tal modo dovute, e al versamento dei relativi contributi previdenziali. La sentenza, ritualmente notificata, passava in giudicato e il Comune di Bologna riconosceva ai due dipendenti il periodo di servizio militare prestato.

2. Con ricorso del maggio 1992, Preda e Dardari adivano nuovamente il Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia- Romagna per l'ottemperanza del giudicato derivante dalla già citata sentenza n. 148 dello stesso Tribunale, che nel conoscere della controversia ha sollevato in relazione agli artt. 24, 25, 101, 102, 103, 104, primo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, della legge n. 412 del 1991.

3. Premesso che tale articolo costituisce norma interpretativa della disposizione di cui all'art. 20 della legge n. 958 del 1986, il giudice a quo ha osservato che l'inciso <comunque in godimento>, contenuto nel comma 3, non distinguerebbe tra il caso in cui i benefici siano stati accordati a seguito di un'errata interpretazione del suddetto art.20, da parte dell'amministrazione, e l'ipotesi in cui un tale riconoscimento sia invece intervenuto, come nella fattispecie in esame, per opera di una decisione giurisdizionale passata in giudicato.

Ad avviso del tribunale rimettente, la norma contenuta nella disposizione impugnata violerebbe i principi dell'intangibilità del giudicato, del diritto di difesa e della stessa funzione giurisdizionale, come deducibili dagli artt. 24, 25, 101, 102, 103, 104, primo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione. Nè il caso risulterebbe risolubile alla luce della decisione della Corte costituzionale n. 413 del 1988.

In quel caso, all'apparenza analogo, la Corte ritenne legittima la norma di cui all'art. 10, secondo comma, della legge n. 425 del 1984 che consentiva il riassorbimento, con la normale progressione economica e, se necessario, con detrazioni a carico dell'indennità di buonuscita, per quei magistrati che avevano conseguito trattamenti economici di maggior favore - rispetto al nuovo assetto retributivo stabilito dalla legge - in virtù di provvedimenti giudiziari passati in giudicato ancor prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina. La sentenza n.413 del 1988 e la successiva ordinanza n. 501 del 1991 avrebbero ben definito i limiti (e la tutela) del principio dell'intangibilità del giudicato, chiarendo che la possibilità di una interferenza del legislatore nella sfera giurisdizionale dev'essere relegata sul piano dell'assoluta eccezionalità e deve trovare la propria ragione giustificatrice in un <<intento costituzionalmente legittimo>> quale, nella specie, l'obiettivo di evitare il protrarsi di intollerabili effetti derivanti da pregresse disparità di trattamento. Solo in tal modo troverebbe giustificazione l'invasione della sfera giurisdizionale, quel vulnus al basilare principio del nostro ordinamento, cardine dello Stato di diritto, consistente nel principio della divisione dei poteri.

Nel caso in esame, non sarebbe dato scorgere alcuna superiore e generale finalità perequativa, tendente a eliminare evidenti e diffusi privilegi. Le ragioni dell'intervento legislativo, apparentemente interpretativo, sarebbero infatti da ricercare in una manovra correttiva di bilancio dovuta a una non calcolata previsione di spesa da parte del legislatore nell'approvare l'art. 20 della legge n.958 del 1986; ma tanto non potrebbe legittimare la vanificazione del fondamentale principio di salvaguardia del giudicato. In caso contrario, il potere legislativo avrebbe sempre una giustificazione per ingerirsi nell'esercizio della funzione giurisdizionale, sostenendo ragioni di politica della spesa pubblica, più o meno fondate, che non rientrano tra le finalità generali cui è informata la Costituzione e che pongono solo un limite all'esercizio del potere legislativo alla cui osservanza si può diversamente ovviare.

La norma, inoltre, svuoterebbe del tutto i giudicati precedenti, ponendosi oggettivamente in contrasto con le già citate decisioni nn.413 del 1988 e 501 del 1991. In ragione dell'art. 7, comma 3, della legge in esame, non residuerebbe invero ai ricorrenti alcun tipo di beneficio, neppure sotto forma di riassorbimento attraverso nuove e generali previsioni migliorative, come sarebbe invece avvenuto per la categoria dei magistrati. Lo svuotamento del contenuto del giudicato sarebbe, qui, del tutto ingiustificato, anche perchè la sentenza n. 455 del 1992 - nel respingere l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 7, comma 1, della stessa legge n.412 - ha testualmente affermato che: <non risultano lesi i giudicati formatisi precedentemente, nè sono vulnerate le attribuzioni giudiziarie, in quanto il legislatore ha agito su un piano diverso da quello del giudice>. Si tratterebbe perciò di ragioni che se sono sussistenti con riguardo alla norma contenuta nel comma 1, sarebbero carenti con riferimento a quella di cui al comma 3. Detta norma, infatti, non si limiterebbe a operare sul piano delle fonti, ma caducherebbe i rapporti precedenti, ancorchè <esauriti> e definiti con sentenze passate in giudicato. La norma in questione si porrebbe in contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 Cost. (v. sent. n. 155 del 1990) qualora venisse a ledere il giudicato già formato o fosse intenzionalmente diretta ad incidere sui giudizi in corso. Al contrario, le norme interpretative opererebbero <sul piano delle fonti> e non escluderebbero nè comprimerebbero <la tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche di cui il soggetto è titolare>.

La questione sarebbe pertanto rilevante per la parte in cui l'art. 7, comma 3, della legge n. 412 del 1991 non fa salvi i trattamenti in godimento a seguito di pronunce giurisdizionali passate in giudicato.

4. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza, osservando che - sulla base della sentenza della Corte n. 455 del 1992 - la norma impugnata avrebbe connotazione di norma interpretativa volta a eliminare i dubbi insorti circa le modalità di applicazione dell'art. 20 della già citata legge n.958 del 1986. La Corte ha infatti ritenuto conforme a Costituzione l'art. 7, comma 1, della legge n. 412 del 1991, che aveva precisato - riguardo al trattamento economico e di fine rapporto - la valutabilità, senza oneri per il dipendente, del servizio militare prestato a decorrere soltanto dalla data di entrata in vigore della legge n. 958 e non per il periodo anteriore a tale termine. come da alcune decisioni giurisprudenziali.

L'intervento legislativo si sarebbe reso necessario in ragione degli oneri finanziari che - stabiliti dall'art. 52 della legge n. 958 in ottanta miliardi annui - sarebbero lievitati a mille miliardi per la generalità dei pubblici dipendenti interessati. Il comma 3, dell'art. 7, della legge n. 412, adeguandosi alla razionalizzazione operata dal comma 1, avrebbe stabilito la cessazione dei maggiori trattamenti per coloro che - esclusi dalla portata temporale della norma - ne avrebbero <comunque> beneficiato, stabilendo altresì il recupero sui miglioramenti futuri. La norma avrebbe pertanto eliminato una palese e ingiustificata disparità di trattamento. Essa sarebbe conforme a Costituzione per aver evitato - assicurando la perequazione - il protrarsi di intollerabili effetti derivanti da pretese disparità; e sarebbe ragionevole anche con riguardo allo scopo perseguito dal legislatore di rendere compatibile il beneficio con la gravosa situazione di bilancio, in ossequio all'art. 81 della Costituzione.

Considerato in diritto

1. Viene all'esame della Corte, per la questione di costituzionalità dell'art. 7, comma 3, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), nella parte in cui non fa salvi i trattamenti in godimento (consistenti nella valutazione del periodo di servizio militare prestato anteriormente al 30 gennaio 1987 - data di entrata in vigore della legge n. 958 del 1986 - a fini retributivi e previdenziali, senza oneri per il dipendente) conseguenti a pronunce giurisdizionali passate in giudicato.

Anche se il giudice rimettente ha impugnato l'intero comma 3 dell'art. 7 citato non può non leggersi, al suo interno, l'esistenza di due parti, logicamente e sintatticamente distinguibili: una prima, che si limita a prevedere la cessazione della corresponsione dei <maggiori trattamenti comunque in godimento>; una seconda, che stabilisce il riassorbimento delle <somme già erogate> in conto dei futuri miglioramenti.

2. La questione è sorta in un giudizio per l'ottemperanza del giudicato, cui l'amministrazione comunale aveva in un primo tempo dato esecuzione e poi, in ossequio alla prima parte del comma 3 citato, revocando il provvedimento favorevole ai dipendenti in precedenza adottato. É allora di tutta evidenza la rilevanza soltanto della prima parte della disposizione impugnata: l'amministrazione, infatti, non ha disposto alcun riassorbimento delle somme in precedenza corrisposte, limitandosi alla revoca del provvedimento adottato per i due dipendenti.

La seconda parte della disposizione impugnata, riguardante un diverso tipo di provvedimenti non ancora adottati dall'amministrazione, non ha trovato sostanzialmente ingresso nel giudizio a quo e, di conseguenza, non può trovarlo nel giudizio instaurato per la risoluzione dell'incidente di costituzionalità.

Del resto il rimettente non si è affatto premurato di motivare in ordine alla rilevanza della norma così indicata.

Per tale aspetto la questione sollevata è, dunque, inammissibile.

3. É invece pienamente ammissibile la questione con riferimento alla sola prima parte della disposizione, quella riguardante la cessazione della corresponsione dei <maggiori trattamenti comunque in godimento>, poichè - come s'è detto - un tale provvedimento è stato adottato dalla civica amministrazione di Bologna e, proprio in ragione di esso, è stato instaurato il giudizio principale.

4. Nel merito, tuttavia, la questione è infondata.

Questa Corte ha di recente ribadito che - per i diritti di natura economica connessi al rapporto di pubblico impiego - non è dato desumere una particolare protezione contro l'eventualità di norme retroattive, salvo il limite del principio generale di ragionevolezza (sent. nn. 153 e 6 del 1994). E nella specie il legislatore, nello stabilire l'immediata cessazione dei <maggiori trattamenti comunque in godimento> (sia per interpretazione dell'amministrazione, sia per decisione del giudice), ha operato analogamente a quelle situazioni già ritenute legittime, con le sentenze di questa Corte sopra ricordate, prendendo atto di una situazione di fatto, creatasi nello spazio temporale intercorso fra l'entrata in vigore delle leggi nn. 958 del 1986 e 412 del 1991. Quest'ultima, con il comma 1, dell'art. 7, ha inteso fornire una interpretazione autentica di quell'altra ritenuta pienamente legittima con la sentenza n. 455 del 1992. Nè si può seriamente dubitare della rispondenza a ragionevolezza di questo ulteriore intervento, ex comma 3, pienamente compatibile con la natura interpretativa della disposizione introdotta dal comma 1 dell'art. 7 citato; e non si può far prevalere il <giudicato> sugli equilibri cui conduce il canone del bilanciamento dei valori costantemente applicato da questa Corte. Tale prevalenza provocherebbe, infatti, disparità di trattamento fra dipendenti che hanno svolto il servizio militare nello stesso periodo temporale e infrangerebbe l'armonia del criterio già utilizzato o il "fluire del tempo" che questa Corte giudica idoneo metro differenziatore delle situazioni soggettive (cfr. sent. n. 455 del 1992).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, prima parte, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) sollevata, in riferimento agli artt. 24, 25, 101, 102, 103, 104, primo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna con l'ordinanza in epigrafe;

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, seconda parte, della legge 30 dicembre 1991, n.412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) sollevata, in riferimento agli artt. 24, 25, 101, 102, 103, 104, primo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/11/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 10 Novembre 1994.