Sentenza n.344 del 1994

SENTENZA N. 344

 

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30, quarto e quinto comma, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1993 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Incerti Caselli Patrizia ed altri, iscritta al n. 49 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1994;

Visto l'atto di costituzione di Randazzo Rosa nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 1994 il Giudice relatore Enzo Cheli;

Udito l'avvocato Armando Costa per Randazzo Rosa e l'Avvocato dello Stato Antonino Freni per il Presidente del Consiglio dei Ministri;

Ritenuto in fatto

1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, sciogliendo la riserva formulata su una eccezione avanzata dal difensore della parte civile nel corso dell'udienza preliminare, con ordinanza del 26 ottobre 1993 (R.O. n. 49 del 1994), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, commi quarto e quinto, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione.

Il comma quarto dell'art. 30 disciplina la diffamazione commessa "attraverso trasmissioni consistenti nell'attribuzione di un fatto determinato" e punisce questa ipotesi - applicabile al concessionario e al delegato al controllo sulla trasmissione - con la pena prevista dall'art. 13 della legge sulla stampa (legge 8 febbraio 1948, n. 47). Il comma quinto dello stesso articolo detta regole processuali mediante rinvio all'art. 21 della citata legge sulla stampa e introduce, solo per la diffamazione mediante trasmissioni consistenti nell'attribuzione di un fatto determinato, una deroga al criterio generale che ispira la disciplina della competenza territoriale. La competenza viene, infatti, in questo caso, radicata presso il giudice del luogo dove risiede la parte offesa e non nel luogo dove il reato è stato consumato.

Il giudice a quo, nel motivare in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, osserva che il criterio adottato nella specie dal legislatore non rientra neppure tra quelli indicati come residuali dal codice di procedura penale, venendo, di conseguenza, a introdurre una deroga irragionevole al criterio generale, valevole solo per la diffamazione aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato commessa con il mezzo radiotelevisivo. Sempre ad avviso del giudice remittente, i lavori parlamentari non fornirebbero elementi utili a chiarire se tale deroga risponda ad un particolare favor per la parte offesa da tale delitto o sia frutto di una dimenticanza rispetto agli altri reati.

Viene, di conseguenza, prospettata la violazione dell'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento che la norma impugnata introdurrebbe rispetto a tutti gli altri reati commessi attraverso l'uso del mezzo radiotelevisivo, e, in particolare, rispetto alla diffamazione semplice.

Il giudice remittente osserva poi che l'autorità giudiziaria del locus commissi delicti non può conoscere del reato in tutte le ipotesi in cui l'evento non coincide con la residenza dell'offeso e questo verrebbe a determinare la violazione dell'art. 25 della Costituzione, in base al quale la disciplina della competenza andrebbe in qualche modo ancorata al luogo di consumazione del reato.

2. - Si è ritualmente costituita la parte offesa Randazzo Rosa, riportandosi all'ordinanza di rimessione.

Nell'atto di costituzione la parte privata - dopo aver richiamato i fatti che hanno dato luogo al giudizio a quo - sviluppa le censure relative sia all'art. 3 che all'art. 25 della Costituzione.

3. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità e, in via subordinata, per l'infondatezza della questione.

Quanto all'inammissibilità, l'Avvocatura rileva il difetto assoluto di motivazione dell'ordinanza circa la rilevanza della questione ai fini della risoluzione della fattispecie sottoposta all'esame del giudice a quo, difetto che non consentirebbe di comprendere neanche se, nell'ipotesi di accoglimento, detto giudice sia tenuto o meno a spogliarsi della controversia.

Nel merito, L'Avvocatura ritiene che la scelta discrezionalmente operata dal legislatore con la norma impugnata non sia censurabile, né sotto il profilo della razionalità né sotto quello dell'eguaglianza.

La difesa dello Stato si sofferma, in particolare, sulla ratio della disposizione, rinvenendola nell'esigenza di porre rimedio alla sproporzione di forze esistente tra chi, disponendo del mezzo televisivo, pone in essere condotte diffamatorie particolarmente gravi e lesive per il soggetto diffamato, e quest'ultimo, che ha, invece, come unico mezzo di reazione la presentazione della querela.

In questa situazione l'eventuale decisione favorevole resa dall'autorità giudiziaria vicina al luogo di residenza abituale del soggetto offeso potrebbe, pertanto, restituire a questi la reputazione lesa e colmare la sottolineata sproporzione.

Considerato in diritto

1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano dubita della legittimità costituzionale dell'art. 30, commi quarto e quinto, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), dove si individua con riferimento al luogo di residenza della persona offesa l'autorità giudiziaria territorialmente competente a conoscere dei reati di diffamazione consistenti nell'attribuzione di un fatto determinato, commessi attraverso trasmissioni radiofoniche e televisive.

La questione viene sollevata in relazione:

a) all'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri reati commessi attraverso l'uso del mezzo radiotelevisivo e, in particolare, rispetto alla diffamazione semplice;

b) all'art. 25 della Costituzione, dal momento che il principio del "giudice naturale" richiederebbe che la competenza territoriale sia in qualche modo ancorata al luogo di consumazione del reato.

2. - La questione è inammissibile.

Il giudice remittente - così come eccepito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - ha omesso completamente di motivare in ordine alla rilevanza della questione ai fini della risoluzione della concreta fattispecie sottoposta al suo esame, né ha esposto i fatti che hanno dato luogo al giudizio, così da poter identificare l'oggetto e i termini dello stesso.

Lo svolgimento dei motivi espressi nell'ordinanza di rimessione non consente, d'altro canto, di ricostruire con certezza i presupposti che renderebbero la questione pregiudiziale e rilevante rispetto al giudizio a quo, stante anche la contraddittorietà che è dato rilevare tra la motivazione ed il dispositivo della stessa ordinanza. Mentre da un lato, infatti, in alcuni passaggi della motivazione, l'ordinanza sembra orientata a richiedere una pronuncia diretta a estendere la particolare competenza territoriale prevista dal quinto comma dell'art. 30 quantomeno alla diffamazione semplice, dall'altro, il dispositivo della stessa ordinanza si limita, invece, a circoscrivere la domanda alla sola caducazione della norma impugnata, così da ricondurre anche l'ipotesi della diffamazione aggravata al regime ordinario della competenza.

L'impossibilità di valutare, ai fini del giudizio sulla rilevanza, la connessione tra i fatti dedotti nel processo a quo e la questione di costituzionalità sollevata conduce, dunque, ad affermare l'inammissibilità della stessa.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, commi quarto e quinto, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), sollevata, in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con l'ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 1994.

Il Presidente: CASAVOLA

Il redattore: CHELI

Il cancelliere: DI PAOLA

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1994.