Sentenza n.331 del 1994

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SENTENZA N. 331

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE Presidente

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 660, terzo comma, del codice di procedura penale, promossi con n. 3 ordinanze emesse il 1° dicembre ed il 6 ottobre 1993 (n. 2 ordinanze) dal Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Macerata nei procedimenti di conversione della pena pecunia ria nei confronti di Braconi Maurizio, Ercoli Giuseppe e Gregori Luigi, iscritte ai nn. 104, 105 e 106 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1994;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

1.- Nell'ambito di tre distinti procedimenti di conversione o rateizzazione di pena pecuniaria promossi a norma degli artt. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e 660 del codice di procedura penale, il Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Macerata, rilevato che la situazione di insolvenza era determinata in tutti e tre i casi dalla giuridica impossibilità per i condannati di effettuare il pagamento, derivante dalla loro condizione di falliti, e che le procedure fallimentari erano tuttora in corso, pur dopo il duplice differimento della conversione precedentemente disposto proprio in relazione alla suddetta situazione di temporanea insolvenza dei condannati, ha sollevato con simili ordinanze - una in data 1° dicembre 1993 (r.o. n. 104 del 1994) e due in data 6 ottobre 1993 (r.o. nn. 105 e 106 del 1994) - questione di legittimità costituzionale dell'art. 660, terzo comma, del codice di procedura penale, per violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Deduce il remittente che nel caso di condannato dichiarato fallito è pacifica la sussistenza, più che della insolvibilità, ossia di una situazione oggettiva, di una situazione di semplice insolvenza, vale a dire di transitoria e non insuperabile difficoltà di adempiere. La condizione di privazione dell'amministrazione e della disponibilità dei beni che la legge ricollega alla dichiarazione di fallimento se giustifica, a norma del secondo comma dell'art. 660 cod. proc. pen., la richiesta di conversione della pena pecuniaria (di cui non è possibile l'esazione) in libertà controllata, tuttavia rientra, per la sua natura contingente e temporanea, nei casi per i quali è possibile disporre il differimento della conversione.

Tale differimento, osserva ancora il giudice a quo, è però consentito per non più di due volte, ciascuna volta per un tempo non superiore ai sei mesi, come si ricava dalla lettera del terzo comma dell'art. 660, che prevede solo "un nuovo differimento" oltre al primo; sicchè, se, come nel caso di specie, la situazione di temporanea insolvenza perdura, il magistrato di sorveglianza deve necessariamente disporre la conversione della pena non eseguita.

Detta disciplina, a parere del remittente, si pone in inevitabile contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto fa dipendere la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, incidente sulla libertà personale, da una situazione incolpevole di insolvenza del condannato sottoposto a procedura fallimentare, che viene discriminato rispetto a chi sia ritornato nella disponibilità dei propri beni a seguito della chiusura del fallimento e abbia così la possibilità di pagare la pena pecuniaria, eventualmente anche in forma rateizzata.

2.- É intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, con identici atti, ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

Rileva l'Avvocatura che il remittente si basa su una non condivisibile interpretazione della norma impugnata, secondo la quale i differimenti della conversione non possono essere più di due. Al contrario, sia il tenore della disposizione, sia la sua ratio, quale desumibile anche dalla Relazione al progetto preliminare del codice, condurrebbero a ritenere, in conformità all'orientamento dottrinale sul punto, che non vi siano limiti alla reiterabilità dei differimenti.

Considerato in diritto

1.- Il Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Macerata dubita che l'art. 660, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la possibilità di differire ripetutamente la conversione della pena pecuniaria nei confronti dei condannati dichiarati falliti fintanto che non sia stata dichiarata chiusa la procedura fallimentare, contrasti con l'art. 3 della Costituzione, in quanto fa dipendere la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, incidente sulla libertà personale, da una situazione incolpevole di insolvenza del condannato sottoposto a procedura fallimentare, che viene discriminato rispetto a chi sia ritornato nella disponibilità dei propri beni a seguito della chiusura del fallimento e abbia così la possibilità di pagare la pena pecuniaria.

2.- Il giudice a quo muove dal presupposto che il potere di differimento della conversione della pena pecuniaria previsto dall'art. 660, terzo comma, cod. proc. pen. per i casi di (temporanea) insolvenza sia esercitabile dal Magistrato di sorveglianza per non più di due volte.

Tale interpretazione deve ritenersi erronea.

Già la lettera della disposizione impugnata convince della libera reiterabilità del differimento, nei casi ivi previsti, tra cui rientra certamente proprio quello della insolvenza derivante dallo stato di fallito.

Ed infatti, dopo un primo differimento per un tempo non superiore a sei mesi, la legge pone al magistrato l'alternativa tra disporne uno "nuovo" (non, quindi, un "secondo" differimento) e ordinare la conversione. Ma questa ultima via è possibile solo se lo stato di insolvenza non perdura, come è reso manifesto dall'avverbio "altrimenti" ivi impiegato. In altri termini, rivolgendo l'espressione normativa, non può essere ordinata la conversione, e va quindi disposto, ogni volta, un nuovo differimento, se lo stato di insolvenza perdura.

Questa interpretazione, avvalorata anche dalla dottrina che più specificamente ha affrontato il tema, trova piena conferma nei lavori preparatori del codice. Nella relazione al Progetto preliminare, ove, a titolo esemplificativo, si cita proprio il caso della temporanea insolvenza derivante dalla dichiarazione di fallimento, si pone in risalto il potere del magistrato di sorveglianza di differire l'esecuzione "fino a che lo stato di insolvenza (...) non venga a cessare"; e si aggiunge che si è preferito un meccanismo di (innumeri) differimenti per periodi concatenati di sei mesi anzichè quello di un differimento sine die, "ad evitare che la esecuzione resti sospesa a tempo indefinito". Dunque, per bocca del legislatore, si trova conferma della tesi interpretativa per la quale il differimento è sì a tempo definito (non superiore a sei mesi), ma reiterabile sin che lo stato di insolvenza non venga a risolversi o nella solvibilità ("nel qual caso si procederà alla esazione della somma dovuta") o nella insolvibilità ("nel qual caso si procederà a conversione").

Infine, anche la genesi della norma conduce a simile conclusione.

Con la sentenza n. 149 del 1971, questa Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 136, primo comma, del codice penale, nella parte in cui ammetteva, per i reati commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva. Con la sentenza n. 131 del 1979, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 136 del codice penale, la Corte sottolineava tra l'altro la non conformità al principio di uguaglianza di un sistema che collegava alla insolvibilità del condannato "indifferibilmente ed in modo automatico" la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva.

Ancora, con la sentenza n. 108 del 1987, con cui veniva sottoposto al vaglio di costituzionalità il nuovo regime introdotto con la legge n.689 del 1981, veniva tra l'altro affermato il principio che la conversione dovesse poter essere differita in presenza di situazioni di mera insolvenza.

Ora, il codice del 1988 ha inteso per l'appunto risolvere i problemi di costituzionalità affrontati nelle citate pronunce, attraverso un meccanismo di differibilità della conversione che, come ricorda ancora la citata Relazione, si incentra sulla distinzione tra insolvibilità e insolvenza, e sulla operatività dell'istituto della conversione solo nel primo caso.

3.- Una volta riconosciuta l'erroneità della premessa interpretativa da cui parte il giudice a quo, la questione dal medesimo sollevata deve essere dichiarata infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 660, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Macerata con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/07/94.

Gabriele PESCATORE, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 Luglio 1994.