Sentenza n.308 del 1994

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SENTENZA N. 308

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA Presidente

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 212, 147 e 146 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 16 dicembre 1992 dal Tribunale di Sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Ulargiu Ruggero, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 25 maggio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, chiamato a decidere sulla impugnazione proposta avverso un provvedimento del magistrato di sorveglianza con il quale, in considerazione dell'aggravamento della pericolosità sociale del soggetto, è stata sostituita la misura di sicurezza della libertà vigilata con quella detentiva della casa di lavoro nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata, ha osservato come la recente normativa introdotta per i portatori di tale malattia ha stabilito i casi di incompatibilità con il regime detentivo per gli imputati o i detenuti in espiazione di pena "nulla prevedendo, invece, per gli internati a seguito di misura di sicurezza detentiva". Considerato dunque, rileva il giudice a quo, che nell'ordinamento non è dato rinvenire alcuna norma che parifichi la condizione dell'internato a quella del detenuto in esecuzione della pena e che, pertanto, l'indicata lacuna non è colmabile in via interpretativa, stante la tipicità dei casi di sospensione, trasformazione e revoca delle misure di sicurezza, viene a generarsi, secondo il rimettente, una non giustificata disparità di trattamento tra internati e condannati che presentino la stessa patologia, tenuto conto, per un verso, della sostanziale identità del trattamento sanitario praticabile nei diversi istituti penitenziari e, sotto altro profilo, dell'omologo status custodiale che caratterizza tanto l'esecuzione della pena che l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive.

Compromessi sarebbero anche gli artt. 32 e 27 della Costituzione, in quanto, afferma il giudice a quo, la gerarchia di valori che sta al fondo della recente scelta legislativa, fa sì che anche la pretesa di eseguire le misure di sicurezza detentive debba essere subordinata alla tutela della salute e al senso di umanità che deve ispirare l'esecuzione delle misure stesse.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Ad avviso della difesa dello Stato non sussisterebbe, anzitutto, la prospettata violazione degli artt. 27 e 32 della Costituzione, giacchè la misura di sicurezza della casa di lavoro non contrasta con il senso di umanità che deve caratterizzare "la sanzione afflittiva da scontare", nè può dirsi confliggente con il diritto alla salute, attese le forme di assistenza generali e specifiche che possono essere praticate.

Quanto alla dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che le norme dettate in tema di malati di AIDS costituiscono una deroga alla disciplina generale, sicchè le stesse non possono essere assunte a parametro per la valutazione di situazioni analoghe. Accanto a ciò - sostiene la difesa dello Stato - occorre considerare, a giustificazione della difformità di disciplina, "l'ulteriore requisito della pericolosità sociale richiesto per l'applicazione della misura di sicurezza rispetto a quelli necessari per l'irrogazione della pena". Da ultimo, e contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo, l'Avvocatura ritiene che l'art.286-bis del codice di procedura penale, così come introdotto dall'art. 11 del decreto-legge 12 gennaio 1993, n. 3, all'epoca vigente, possa essere interpretato nel senso che la disposizione ivi enunciata non riguardi solo la custodia cautelare, ma "tutte le forme di limitazione della libertà personale, ivi compresa quindi anche quella relativa agli internati per effetto di applicazione di una misura di sicurezza".

Una interpretazione, questa, che - conclude l'Avvocatura - permetterebbe di ritenere dissolti i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal rimettente.

Considerato in diritto

1. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 212, 147 e 146 del codice penale nella parte in cui non prevedono la sospensione della misura di sicurezza detentiva nei confronti di soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria "o da gravi infermità che ne rendono incompatibile l'esecuzione". Tenuto conto, infatti, dei recenti interventi normativi che hanno stabilito il divieto di custodia cautelare in carcere ed il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena nei casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria, e considerata l'impossibilità di estendere in via interpretativa tale regime alla applicazione delle misure di sicurezza detentive, il giudice a quo ravvisa una "evidente" disparità di trattamento tra internati e condannati "colpiti in pari grado dalla stessa patologia", senza che il differente regime stabilito per le due situazioni poste a raffronto possa rinvenire adeguata giustificazione "nè in una sostanziale diversità di trattamento sanitario" praticato nei diversi istituti, "nè in una sostanziale diversità del momento custodiale".

Accanto alla violazione del principio di uguaglianza, il giudice a quo ravvisa, poi, altri due profili di illegittimità costituzionale. Partendo infatti dalla premessa che la pretesa punitiva resta subordinata alla tutela della salute e al senso di umanità, ove determinate patologie si pongano in termini di non compatibilità con la esecuzione della pena, la mancata estensione agli internati delle previsioni dettate per i condannati viene a compro mettere, da un lato, il fondamentale diritto dell'individuo alla tutela della salute e, dall'altro, il senso di umanità "che deve informare ogni forma di esecuzione restrittiva, prescindendo dall'esser sottoposto a pena o misura di sicurezza".

2. Questa Corte ha già avuto modo di affronta re i non pochi aspetti problematici scaturiti dalla normativa da ultimo introdotta ad opera del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n.222, con la quale è stato fra l'altro stabilito il divieto di applicare la misura della custodia cautelare in carcere e l'obbligo di disporre il rinvio della esecuzione della pena nei confronti delle persone malate di AIDS. Sui profili che hanno in particolare riguardato le modifiche apportate all'art. 146 del codice penale, disposizione, questa, che assume un rilievo assorbente in questa sede, avuto riguardo al petitum che il rimettente dimostra di perseguire in rapporto alla specificità del caso che forma oggetto del procedimento a quo, nella sentenza n.70 del 1994 sono state poste in risalto le ragioni, affatto peculiari, che hanno sostenuto la scelta normativa.

A fronte, infatti, dei connotati di estrema gravità che il triste fenomeno dei malati di AIDS già presenta in sè e per sè, questa Corte ha osservato come al fondo della nuova ipotesi di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena fosse rinvenibile una esigenza del tutto eccezionale, avendo il legislatore inteso porre rimedio a "situazioni di estrema drammaticità", quali sono quelle che scaturiscono dalla particolare rilevanza che il problema della infezione da HIV riveste all'interno della popolazione carceraria, "essendo il carcere un luogo in cui si trova concentrato un alto numero di soggetti a rischio" (XI Legislatura, Atto Senato, n.1240). Considerata, dunque, la finalità che la norma è chiamata a svolgere nel sistema, si è osservato come non sia tanto il bene della salute del singolo condannato a venire in discorso, quanto, piuttosto, la salvaguardia della sanità pubblica nel particolare consorzio carcerario, cosicchè, e di riflesso, l'incompatibilità normativa con la condizione di detenuto, che la novella ha introdotto per coloro che risultino portatori di quella specifica malattia, non si fonda "sulla presunzione ex lege che l'esecuzione della pena realizzi un trattamento contrario al senso di umanità, ma si proietta sul diverso versante della tutela di quanti potrebbero patire pregiudizio ove la pena venisse immediatamente eseguita".

Il nucleo delle recenti disposizioni che il giudice a quo evoca a modello, e sulla cui base fonda le dedotte censure di incostituzionalità per "omissione", viene quindi a coagularsi attorno ad un binomio costituito in via esclusiva dai due termini "carcere-malati di AIDS"; un binomio, questo, che il legislatore ha inteso scindere in forza di una opzione che, a sua volta, trae alimento da un presupposto di fatto non valutabile in astratto: vale a dire l'eccezionale situazione di pericolo per la salute pubblica nel contesto delle carceri dovuta a due fenomeni di "concentrazione" fra loro interagenti, quali sono, da un lato, l'alto numero di detenuti all'interno degli istituti e, dall'altro, la massiccia presenza, fra questi, di soggetti a rischio. É evidente, allora, che una disciplina che assume i connotati sostanziali di ius singulare non possa fungere da adeguato termine di raffronto per omologare ad essa situazioni che non presentino gli identici presupposti di fatto, perchè, così operando, la fattispecie omologata finirebbe ineluttabilmente per svolgere nel sistema una funzione diversa da quella propria della norma cui essa si sovrappone. Il che, se può ritenersi non incompatibile con la sfera della discrezionalità legislativa, fuoriesce con certezza dai poteri spettanti a questa Corte, posto che una eventuale pronuncia additiva che determinasse le conseguenze di cui si è detto non si limiterebbe ad adeguare l'ordinamento secundum Constitutionem, ma creerebbe un novum con effetti invasivi rispetto alle scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere.

Risultando, quindi, fra loro eterogenei i presupposti e le finalità che sostengono, da un lato, l'istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena nei confronti degli ammalati di AIDS e, dall'altro, l'identica disciplina che il rimettente mira ad estendere nei confronti degli internati che versino nella medesima situazione, il petitum perseguito dal giudice a quo finisce per ammettere una pluralità di soluzioni, tutte rispettose dei fondamentali valori coinvolti, ma nessuna delle quali costituzionalmente imposta. La tutela della salute collettiva che, come si è detto, costituisce il fulcro attorno al quale ruota il recente intervento normativo, si opacizza, infatti, nel ben diverso contesto in cui si realizza l'applicazione delle misure di sicurezza detentive, ove assume, invece, risalto esclusivo l'esigenza di salvaguardare appieno il bene della salute del singolo internato e, per esso e di riflesso, i principii di uguaglianza e di umanità del trattamento penitenziario.

Allo stesso modo, la necessità di assegnare il dovuto risalto alle esigenze di sicurezza collettiva, per le quali, anzi, questa Corte non ha mancato di formulare, nella richiamata sentenza, l'auspicio di un pronto intervento del legislatore, assumono un rilievo del tutto peculiare in sede di applicazione delle misure di sicurezza, postulando le stesse un perdurante giudizio di pericolosità che non può certo essere svilito nel quadro del doveroso bilanciamento dei valori che la problematica sollevata dal giudice a quo indubbiamente coinvolge.

Come già posto in risalto nella sentenza n. 70 del 1994, dunque, l'alternativa tra "immediata esecuzione" o sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute che siano ritenute con essa incompatibili, non comporta soluzioni a "rime obbligate", così come, sotto un diverso versante, neppure è a dirsi che il rinvio della esecuzione rappresenti lo strumento che, sempre e comunque, sia il solo idoneo a soddisfare le esigenze che vengono qui in discorso. Diverse essendo, quindi, le possibili opzioni che il legislatore è chiamato a individuare e prescegliere per soddisfare i vari e delicati profili di cui innanzi si è detto, non v'è spazio per ritenere alla stregua di scelta costituzionalmente obbligata la soluzione meramente additiva che il giudice a quo sollecita, con l'ovvia conseguenza di ritenere inammissibile il quesito di legittimità che il Tribunale rimettente ha inteso sollevare davanti a questa Corte.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 212, 147 e 146 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Sorveglianza di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 06/07/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 15 Luglio 1994.