Sentenza n. 218 del 1994

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SENTENZA N. 218

 

ANNO 1994

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo

 

Giudici

 

Prof. Gabriele

 

Prof. Antonio

 

Prof. Vincenzo

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano

 

Prof. Francesco

 

Prof. Cesare

 

Prof. Fernando

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, terzo e quinto comma, e 6 della legge 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS) promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1993 dal Pretore di Padova, nel procedimento civile vertente tra Patrizia Marchioro e l'Associazione Opera Immacolata Concezione (O.I.C.), iscritta al n. 403 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.

 

Ritenuto in fatto

 

 l. - Con ordinanza emessa il 15 maggio 1993 il Pretore di Padova ha sollevato, in riferimento all'art.32, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, terzo e quinto comma, e 6 della legge 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS). La questione è stata sollevata nel corso di un procedimento civile promosso dall'operatrice di assistenza Patrizia Marchioro nei confronti dell'Associazione Opera Immacolata Concezione (O.I.C.), diretto ad ottenere un provvedimento d'urgenza, in base all'art. 700 cod.proc. civ., che le consentisse di riprendere la normale attività lavorativa dopo essere stata cautelarmente sospesa dal servizio, ma non dalla retribuzione, per essersi rifiutata di sottoporsi ad esami sanitari, presso la Divisione malattie infettive dell'Ospedale di Padova, diretti ad accertare l'esistenza o meno di infezione da HIV.

 

L'art. 5 della legge n. 135 del 1990 stabilisce che nessuno può essere sottoposto, senza il proprio consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV, se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse (terzo comma), e che l'accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione in particolare, tra l'altro, per l'accesso a posti di lavoro o per il mantenimento di essi (quinto comma). L'art. 6 vieta ai datori di lavoro di svolgere indagini dirette ad accertare, nei dipendenti o per l'instaurazione di un rapporto di lavoro, l'esistenza di uno stato di sieropositività.

 

Il Pretore rileva che, nel caso sottoposto al suo esame, la richiesta di accertamenti sanitari era stata motivata da parte del datore di lavoro escludendo ogni finalità di discriminazione ma affermando la necessità, collegata all'assunzione delle relative responsabilità, di appurare se l'operatrice in questione fosse in possesso dell'integrità fisica richiesta per le delicate mansioni di assistenza svolte sulle persone di ricoverati non autosufficienti. Lo stesso giudice ritiene che le disposizioni legislative in questione, escludendo comunque la possibilità di analisi e di accertamenti sanitari su un eventuale stato di sieropositività senza il consenso dell'interessato, siano in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono la possibilità di prescinderne, limitatamente ai casi di specifiche attività lavorative che, per la loro particolare natura, presentino il serio rischio di trasmissione dell'infezione da HIV dall'operatore di assistenza all'assistito.

 

Il Pretore considera la legge n.135 del 1990 informata a principi di alto valore sociale ed all'apprezzabile esigenza di non discriminare o isolare, nemmeno sul lavoro, le persone sieropositive o affette da AIDS. Ma ritiene che la stessa legge presenti profili in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, non consentendo, per le attività che presentano rischio di trasmissione dell'infezione, di effettuare accertamenti sanitari, anche contro la volontà dell'interessato, con le dovute garanzie di riservatezza ed al fine di tutelare la salute come interesse della collettività e dei terzi.

 

Il Pretore motiva la rilevanza della questione affermando che, se le norme denunciate sono costituzionalmente illegittime, il ricorso proposto per ottenere la reintegrazione d'urgenza nell'attività lavorativa dovrebbe essere respinto.

 

2. - Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

 

L'Avvocatura ricorda che un'ingerenza nella sfera della salute dei singoli cittadini può essere consentita solo entro limiti circoscritti ed osserva che il legislatore, nel prevedere la necessità del consenso dell'interessato per l'accertamento dell'assenza di sieropositività, ha correttamente rispettato la libertà di autodeterminazione di costui. Nè vi sarebbe motivo di ritenere che l'inserimento del malato di AIDS nel tessuto sociale, per l'espletamento di un rapporto di lavoro, possa di per sè rappresentare un fattore di pericolosità tale da giustificare l'adozione di misure di prevenzione invasive della sfera di libertà del cittadino.

 

Considerato in diritto

 

 l. - La questione sottoposta all'esame della Corte concerne il programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS, dettato con la legge 5 giugno 1990, n. 135, che, nel disciplinare l'accertamento dell'infezione e le rilevazioni epidemiologiche, stabilisce che nessuno può essere sottoposto senza il suo consenso ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV, se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse (art. 5, terzo comma). La stessa disposizione esclude discriminazioni in caso di accertata infezione da HIV per l'accesso o il mantenimento di posti di lavoro (art. 5, quinto comma). Inoltre l'art. 6 vieta ai datori di lavoro di svolgere indagini dirette ad accertare l'esistenza di uno stato di sieropositività nei dipendenti o in persone prese in considerazione per l'instaurazione di un rapporto di lavoro.

 

Ad avviso del Pretore di Padova questa disciplina, pur essendo informata a principi di alto valore sociale ed all'apprezzabile esigenza di non discriminare o isolare, neppure sul lavoro, le persone sieropositive o affette da AIDS, sarebbe in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività, nella parte in cui non prevede, limitatamente alle attività che per la loro particolare natura presentano il serio rischio di trasmissione dell'infezione, la possibilità di accertamenti sanitari, con garanzie di riservatezza, anche contro la volontà degli interessati.

 

2.- Il giudice rimettente, indicando quale parametro del giudizio di legittimità costituzionale l'art. 32, primo comma, della Costituzione, invoca l'applicazione del principio di tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività.

 

In proposito la Corte ha più volte affermato che la salute è un bene primario, costituzionalmente protetto, il quale assurge a diritto fondamentale della persona, che impone piena ed esaustiva tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato (sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986).

 

La tutela della salute comprende la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale. Sotto il profilo dell'assistenza pubblica la tutela della salute si specifica nel diritto, basato su norme costituzionali di carattere programmatico, all'erogazione, nel contesto delle compatibilità generali non irragionevolmente valutate dal legislatore, di adeguate prestazioni di prevenzione e cura, dirette al mantenimento o al recupero dello stato di benessere (sentenza n. 455 del 1990).

 

La tutela della salute non si esaurisce tuttavia in queste situazioni attive di pretesa. Essa implica e comprende il dovere dell'individuo di non ledere nè porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari. Situazioni di questo tipo sono evidenti nel caso delle malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per impedire la trasmissione del morbo. L'interesse comune alla salute collettiva e l'esigenza della preventiva protezione dei terzi consentono in questo caso, e talvolta rendono obbligatori, accertamenti sanitari legislativamente previsti, diretti a stabilire se chi è chiamato a svolgere determinate attività, nelle quali sussiste un serio rischio di contagio, sia affetto da una malattia trasmissibile in occasione ed in ragione dell'esercizio delle attività stesse.

 

Salvaguardata in ogni caso la dignità della persona, che comprende anche il diritto alla riservatezza sul proprio stato di salute ed al mantenimento della vita lavorativa e di relazione compatibile con tale stato, l'art. 32 della Costituzione prevede un contemperamento del coesistente diritto alla salute di ciascun individuo; implica inoltre il bilanciamento di tale diritto con il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attività che comportino un serio rischio, non volontariamente assunto, di contagio. In tal caso le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse. Non si tratta quindi di controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti, costituendo un onere per poter svolgere una determinata attività, sia nel contenuto degli esami. Questi devono essere funzionalmente collegati alla verifica dell'idoneità all'espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad esse è, o intende essere, addetto.

 

Gli accertamenti che, comprendendo prelievi ed analisi, costituiscono "trattamenti sanitari" nel senso indicato dall'art. 32 della Costituzione, possono essere legittimamente richiesti solo in necessitata correlazione con l'esigenza di tutelare la salute dei terzi (o della collettività generale). Essi si giustificano, quindi, nell'ambito delle misure indispensabili per assicurare questa tutela e trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere sottoposta. In quest'ambito il rispetto della persona esige l'efficace protezione della riservatezza, necessaria anche per contrastare il rischio di emarginazione nella vita lavorativa e di relazione.

 

3. - In rapporto a questi principi la questione è fondata, come di seguito precisato.

 

Le disposizioni sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale sono contenute nella legge n. 135 del 1990, che ha inteso "dare una prima risposta seria e non frammentaria all'eccezionale situazione di emergenza sociale determinata dalla allarmante diffusione dell'infezione da HIV, patologia nuova e gravissima in espansione a livello non solo nazionale, ma mondiale" (sentenza n.37 del 1991).

 

Le caratteristiche di diffusività di tale malattia erano state già riconosciute, ai fini degli interventi previsti dalla legislazione sanitaria, con il decreto ministeriale 28 novembre 1986, che ha inserito la sindrome da immunodeficienza acquisita nell'elenco delle malattie diffusive ed infettive, che comportano l'adozione di provvedimenti sanitari e misure di protezione.

 

La stessa legge n. 135 del 1990 ha previsto, all'art. 7, norme di protezione dal contagio professionale nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private, dettate poi con il decreto ministeriale 28 settembre 1990, che ha stabilito precauzioni per il personale nei confronti della generalità delle persone assistite.

 

Con evidente riferimento al principio di doverosa tutela della salute dei terzi, il legislatore, nel dettare una disciplina di settore, ha riconosciuto l'esistenza di rischi di diffusione della malattia connessi allo svolgimento di determinate attività e, considerando tale pericolo non diversamente fronteggiabile, ha stabilito per il personale appartenente alle forze di polizia che "per la verifica dell'idoneità all'espletamento di servizi che comportano rischi per la sicurezza, l'incolumità e la salute dei terzi possono essere disposti, con il consenso dell'interessato, accertamenti dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV"; ha poi previsto, senza che possa essere adottato altro provvedimento nei confronti dell'interessato, la esclusione di chi abbia rifiutato di sottoporsi agli accertamenti dai servizi che presentano rischio per i terzi; servizi la cui determinazione è stata rimessa ad un successivo decreto ministeriale (art. 15 del decreto- legge 4 ottobre 1990, n. 276, convertito in legge, con modificazioni, con la legge 30 novembre 1990, n. 359).

 

Riconosciuta legislativamente l'esistenza di attività e servizi che comportano rischi per la salute dei terzi, derivanti dall'essere gli operatori addetti portatori di una malattia diffusiva quale l'AIDS, ne segue la necessità, a tutela del diritto alla salute, di accertare preventivamente l'assenza di sieropositività per verificare l'idoneità all'espletamento dei servizi che comportano questo rischio e che non possono essere solo quelli inerenti alle attività degli addetti alle forze di polizia. Lo stesso legislatore, nel settore della sanità e dell'assistenza, ha inteso disporre la protezione dal contagio professionale, avendo particolarmente di mira il rischio che gli addetti possono correre nell'esercizio dell'attività professionale; rischio per il quale operano in prevalenza le misure di protezione previste. L'ulteriore necessità che si manifesta è di tutelare la salute dei terzi in ogni settore nel quale esista per essi un serio rischio di contagio, trasmissibile da chi svolga un'attività loro diretta.

 

In particolare nell'assistenza e cura della persona, attività prese in considerazione nel giudizio che ha determinato l'insorgere della questione di legittimità costituzionale, sono necessari, come condizione per espletare mansioni che comportano rischi per la salute dei terzi, accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV del personale addetto, a tutela del diritto alla salute dei destinatari delle prestazioni. Nella parte in cui non prevede tale onere, l'art. 5, terzo e quinto comma, della legge n. 135 del 1990 è in contrasto con l'art. 32, primo comma, della Costituzione.

 

Ciò posto, rimane superata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 6 della stessa legge.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, terzo e quinto comma, della legge 5 giugno 1990, n.135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS), nella parte in cui non prevede accertamenti sani tari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV come condizione per l'espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Cesare MIRABELLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 02/06/1994.