Sentenza n. 208 del 1994

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SENTENZA N. 208

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 207, secondo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 1° aprile 1993 dal Pretore di Firenze - Sezione distaccata di Pontassieve nel procedimento penale a carico di Iaiunese Armando, iscritta al n. 350 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto in fatto

 

 1. Il Pretore di Firenze - Sezione distaccata di Pontassieve, premesso che nel corso del dibattimento il pubblico ministero ha richiesto la trasmissione degli atti al proprio ufficio per le valutazioni di competenza in ordine alla posizione di taluni testimoni nei confronti dei quali erano emersi sospetti di falsità, osserva che l'art.207, secondo comma, del codice di procedura penale, mentre stabilisce l'obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero, ove il giudice ravvisi indizi del reato previsto dall'art. 372 del codice penale, non prevede la possibilità di sospendere il procedimento onde consentire l'accertamento del reato di falsa testimonianza, cosicchè il giudice è "costretto" a fondare la propria decisione su dichiarazioni ritenute non veritiere.

 

Nel riportarsi alle considerazioni svolte dal Tribunale di Savona in analoga ordinanza rimessiva (R.O. 674 del 1991), il giudice a quo rileva come nella specie la restituzione atti disposta in quella occasione dalla Corte (ord. 108 del 1993) - fondata sulle modifiche nel frattempo subite dall'art. 500 del codice di procedura penale ad opera della sentenza n.24 (recte: 255) del 1992 e del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n.356 - non possa essere utilmente invocata, giacchè sulla rilevanza della questione non interferiscono le segnalate modifiche normative non sussistendo i presupposti per ritenere pienamente utilizzabili, ai fini della decisione, le dichiarazioni precedentemente rese dai testimoni sospettati di falsità.

 

Nel merito, il giudice a quo, dopo aver rilevato come fosse consona al principio del libero convincimento del giudice la disciplina dettata dall'art. 458 del codice abrogato, osserva che l'impossibilità di sospendere il dibattimento impedisce al giudice di porre a fondamento della propria decisione una serena ricostruzione dei fatti sulla base di prove ritenute attendibili, così compromettendosi il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge in quanto si finisce per imporre l'obbligo di definire il giudizio sulla base non di una prova, ma di un fatto penalmente illecito, quale è la falsa testimonianza.

 

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, la quale si è limitata a richiamare l'ordinanza di questa Corte n.108 del 1993.

 

Considerato in diritto

 

 1. Il Pretore di Firenze - Sezione distaccata di Pontassieve solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 207, secondo comma, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede la possibilità, ove il giudice ravvisi indizi del reato previsto dall'art. 372 del codice penale, di disporre la immediata trasmissione del verbale di udienza al pubblico ministero e di sospendere il dibattimento in attesa del giudizio sulla falsa testimonianza, ove ciò sia ritenuto necessario per la definizione del giudizio in corso. Al fondo della dedotta censura il giudice a quo pone il rilievo che la norma impugnata, omettendo di risolvere il problema della incidenza del reato di falsa testimonianza sul giudizio in corso analogamente a ciò che prevedeva l'art. 458 del codice di procedura penale del 1930, finisce per imporre al giudice di adottare la propria decisione sulla base della ricostruzione dei fatti forniti dal testimone che appare "falso", "senza alcuna possibilità di incidere su di essa". Da ciò, quindi, deriverebbe la violazione del principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, in quanto tale principio risulterebbe "travolto dall'obbligo per il giudicante di definire il giudizio sulla base non di una prova, ma di un fatto penalmente illecito (falsa testimonianza)".

 

2. La questione non è fondata. Il giudice a quo parte, infatti, dalla erronea premessa di ritenere che l'eventuale sospensione del dibattimento in attesa del giudizio sulla falsa testimonianza rappresenti, in sè e per sè, lo strumento costituzionalmente imposto per consentire al giudice del procedimento sospeso di pervenire ad una decisione svincolata dall'ipoteca di falsità che lo stesso giudice ritiene di ipotizzare, quasi che tra le due sedi processuali sia intravedibile un raccordo tale da rendere la decisione sulla falsa testimonianza immediatamente "utilizzabile" come prova del contrario nel procedimento, per così dire, pregiudicato. É lo stesso rimettente, d'altra parte, a rammentare come anche sotto la vigenza del codice abrogato la giurisprudenza fosse consolidata nel ritenere che tra il procedimento per il reato di falsa testimonianza e quello nel corso del quale il reato era stato in ipotesi commesso non sussistesse rapporto di pregiudizialità e che al giudicato sulla falsità non potesse comunque annettersi efficacia vincolante nel giudizio relativo al procedimento principale.

 

Se, dunque, nel precedente come nell'attuale sistema la delibazione sulla falsità delle dichiarazioni testimoniali deve comunque formare oggetto di apprezzamento incidenter tantum da parte del giudice chiamato a celebrare il dibattimento nel corso del quale la testimonianza è resa, e se, ancora, l'eventuale giudicato sulla falsità non può in ogni caso fare stato in quel procedimento, nessun tipo di compressione subisce l'invocato parametro, proprio perchè il giudice non è tenuto in alcun modo a decidere sulla base di prove da lui per avventura ritenute false, ma a provvedere in conformità alle regole di utilizzazione e valutazione probatoria che il codice di rito puntualmente traccia. Ritenuta dunque "inattendibile" una determinata ricostruzione dei fatti, il giudice non potrà che trarne le relative conclusioni, senza che queste possano in alcun modo ritenersi "assoggettate" ad una prospettazione contraria al vero.

 

Ciò che il rimettente sollecita è, quindi, una pronuncia volta a consentire null'altro che la riproduzione del potere sospensivo che l'abrogato codice prevedeva in caso di falsa testimonianza: un potere, questo, che peraltro il giudice a quo esalta sul limitato presupposto che lo stesso rappresenterebbe strumento idoneo a consentire, "proprio sotto il profilo, per così dire psicologico", la formazione di un corretto giudizio. Un profilo, dunque, metagiuridico, e come tale estraneo non soltanto al tessuto del sistema, ma, ciò che più conta, al parametro costituzionale di cui si assume la lesione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 207, secondo comma, del codice di procedura penale, dal Pretore di Firenze - Sezione distaccata di Pontassieve, con ordinanza in epigrafe.

 

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 02/06/1994.