Sentenza n. 109 del 1994

CONSULTA ONLINE

 

SENTENZA N. 109

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Gabriele PESCATORE

Giudici

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 281, comma 2 bis, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 12 giugno 1993 dal Tribunale di Lecco sulla richiesta di riesame proposta da De Marchi Piero, iscritta al n. 574 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Il Tribunale di Lecco, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di riesame avverso il provvedimento del 25 maggio 1993 con il quale il Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale aveva applicato a De Marchi Piero, indagato, tra l'altro, del delitto di maltrattamenti in danno della moglie e della figlia, la misura cautelare del divieto di dimora nel comune di Calco con divieto di espatrio, premesso che l'ordinanza impositiva del divieto di dimora era da ritenere legittimamente emessa, ha, con ordinanza del 12 giugno 1993, sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 13 e 16 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 281, comma 2 bis, del codice di procedura penale (introdotto dall'art. 9 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni), "nella parte in cui prevede l'automatica applicazione della misura del divieto di espatrio nel caso di provvedimenti che impongono il divieto di dimora".

Osserva il Tribunale che, nel caso di specie, la misura "aggiuntiva" si rivela, "oltre che gravemente pregiudizievole per l'indagato (attesa la sua attività lavorativa, che comporta la necessità, ampiamente documentata, di continui spostamenti all'estero)", anche del tutto "superflua" considerando le specifiche esigenze cautelari, da ritenere pienamente soddisfatte con l'applicazione del solo divieto di dimora: una misura che presuppone "il collegamento diretto fra un periculum (corrispondente ad una delle ipotesi previste dall'art. 274) e la presenza dell'imputato in una determinata località".

Di qui il contrasto con i canoni della proporzionalità e dell'adeguatezza, che sono alla base del sistema delle misure cautelari e che devono ritenersi applicativi dei principii enunciati dalla Costituzione a salvaguardia di libertà fondamentali. E ciò sia sotto il profilo della violazione dell'art. 13 sia sotto il profilo della violazione dell'art. 16 della Costituzione. Con in più, contrasto con il principio di eguaglianza per la in giustificata equiparazione ai casi in cui la limitazione del diritto di espatrio si rivela necessaria per "tutelare il superiore interesse pubblico" dei casi in cui il sacrificio diviene assolutamente superfluo.

L'automatismo insito nel precetto denunciato si rivela, poi, in talune ipotesi "addirittura assurdo", come quando viene imposta la misura del divieto di espatrio "nei confronti di persone ristrette in carcere, agli arresti domiciliari o gravate dall'obbligo di dimora, e che, quindi, non hanno la possibilità di circolare neppure all'interno del territorio nazionale".

2. Nel giudizio davanti a questa Corte non è intervenuta la parte privata nè ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

l. Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 13 e 16 della Costituzione, dell'art. 281, comma 2 bis, del codice di procedura penale, introdotto dall'art. 9 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni, nella parte in cui prevede l'automatica applicazione del divieto di espatrio nel caso in cui venga adottato un provvedimento che imponga il divieto di dimora.

Pure se, per ragioni connesse alla rilevanza, le censure risultano incentrate sull'assetto precettivo derivante dall'applicazione della misura del divieto di dimora, l'illegittimità prospettata coinvolge in effetti l'art. 281, comma 2 bis, nel suo integrale contenuto, denunciandosi "l'automatica applicazione della misura" "in ogni caso di provvedimento che dispone altra misura coercitiva". Inoltre, il carattere unitario della novazione normativa rende necessaria una verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata nella sua totalità, identica apparendo, in relazione a ciascuna delle misure cautelari rispetto alle quali il legislatore ha imposto la misura "aggiuntiva" in contestazione, la ratio alla base della prescrizione secondo cui "Con l'ordinanza che applica una delle misure coercitive previste dal presente capo, il giudice dispone in ogni caso il divieto di espatrio".

2. La questione è fondata.

Il divieto di espatrio, introdotto dal codice di procedura penale del 1988 nel quadro della "previsione di misure diverse di coercizione personale, fino alla custodia in carcere" (art. 2, n. 59, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81), rappresenta una delle risultanti della scelta pluralistica voluta dal legislatore in materia di misure cautelari. A tale regime fa da corollario il canone di adeguatezza espresso dall'art. 275 c.p.p., una norma che, nonostante le "novellazioni" introdotte dall'art. 5, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n.152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n.203, non pare aver perduto il suo diretto legame con il detto principio, destinato peraltro a confrontarsi, relativamente a taluni reati di eccezionale gravità - con riguardo ai quali è stata imposta la necessaria applicazione della custodia in carcere - con l'apprestamento di un assetto di adeguatezza parzialmente tipizzato, se e sempre che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistano esigenze cautelari.

Nella scala di afflittività derivante dall'applicazione degli ora ricordati principii, il divieto di espatrio, pur occupando il primo gradino, rappresenta una misura incidente nell'area della libertà personale, secondo una linea cui, peraltro, era già approdata la giurisprudenza della Corte di cassazione. Ed infatti quest'ultima, dopo un periodo di oscillazioni, è, da tempo, pressochè costante nel ritenere ricorribile, a norma dell'art. 111, primo comma, della Costituzione, il provvedimento con il quale l'autorità giudiziaria concede o nega il nulla-osta al rilascio del passaporto.

E questo "nulla-osta" è ora divenuto alla stregua del disposto dell'art. 281 del codice di procedura penale momento essenziale della misura del divieto di espatrio. Da ciò consegue l'assoggettamento del divieto di espatrio al regime delle misure coercitive anche per quel che concerne le condizioni per la sua applicabilità, sia con riguardo all'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, sia con riferimento alle esigenze cautelari, la cui mancata indicazione comporta la nullità dell'ordinanza impositiva a norma dell'art. 292, primo e secondo comma, del codice di procedura penale.

Relativamente alle esigenze cautelari il divieto di espatrio viene contrassegnato generalmente dal pericolo di fuga, risultando, di norma, inidoneo a fronteggiare le altre esigenze indicate nell'art. 274 del codice di procedura penale. Questa conclusione si ricava anche dalla interferenza tra la disciplina riguardante la misura in esame e la preesistente già ricordata disciplina sui passaporti e sugli altri documenti validi per l'espatrio, delle quali il legislatore ha prevenuto il sovrapporsi dettando, in sede di coordinamento, una norma (l'art. 215 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) con cui, appunto, si dispone l'abrogazione dell'art. 3, primo comma, lettera c, della legge 21 novembre 1967, n. 1185, che, da un lato, precludeva il conseguimento del passaporto per coloro contro i quali esistesse mandato o ordine di cattura e, dall'altro lato, lo subordinava al nulla-osta dell'autorità giudiziaria competente nei confronti delle persone assoggettate a procedimento penale per un reato relativamente al quale la legge consentisse l'emissione del mandato di cattura.

3. Dunque, il divieto di espatrio, anche in forza del progressivo attestarsi della interpretazione giurisprudenziale verso una linea di tendenza nel senso della giustiziabilità in via ordinaria dei provvedimenti in tema di nulla-osta per il passaporto, viene ricondotto nell'area delle misure in qualche modo incidenti sulla libertà personale (oltre che, ovviamente, sulla libertà di circolazione del cittadino).

E, pur rappresentando la misura coercitiva connotata dal minor tasso di afflittività, assume, nell'originario tessuto codicistico, un ruolo di assoluta autonomia rispetto alle altre misure. Il che - anche prima della emanazione del decreto-legge n. 306 del 1992 - non escludeva la possibilità di cumulo, alle condizioni previste (art. 276 del codice di procedura penale), con altre misure purchè ognuna delle misure disposte avesse una sua autonoma ragion d'essere e il cumulo risultasse intrinsecamente compatibile con ciascuna delle misure adottate.

4. L'art. 9, primo comma, del decreto- legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nel prescrivere che con l'ordinanza applicativa di una delle altre misure coercitive previste nel presente capo (e cioé, l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto e l'obbligo di dimora, gli arresti domiciliari, la custodia cautelare in carcere, la custodia cautelare in luogo di cura), il giudice dispone in ogni caso il divieto di espatrio, ha inteso "evitare che, per inerzia o dimenticanza, persone raggiunte da misure cautelari possano liberamente espatriare senza alcun controllo giudiziale" (così la Relazione al disegno di legge n. 328, comunicato alla Presidenza del Senato l'8 giugno 1992). Se questo è lo scopo che il legislatore ha inteso perseguire, una lettura della disposizione censurata in modo da interpretarla - conformemente al contesto normativo poggiante sui canoni di proporzionalità e di adeguatezza - nel senso che, nell'adottare una delle misure cautelari previste dal capo II del libro III, ad eccezione di quella prevista dall'art. 281, il giudice debba valutare la rispondenza alle esigenze di cui all'art. 274 del codice di procedura penale della applicazione "aggiuntiva" del divieto di espatrio, non si rivela percorribile. A ciò aggiungasi che l'approdo ad un simile procedimento ermeneutico appare sicuramente precluso dalla chiara conformazione lessicale della norma denunciata, da cui si desume la sottrazione al giudice di ogni momento di discrezionalità che consenta di verificare volta per volta le esigenze cautelari che rendono necessario adottare il detto divieto come misura accessoria.

5. L'art. 281, comma 2 bis, interpretato nei termini ora riferiti, contrasta, dunque, in primo luogo, con l'art. 3 della Costituzione, apparendo intrinsecamente irragionevole un precetto attraverso il quale si perviene a far gravare sull'indagato (o sull'imputato), cui sia stata applicata una qualsiasi delle misure cautelari previste nel capo II, il carico di un'ulteriore misura afflittiva che - proprio per l'automatismo derivante dal lessico utilizzato dalla "novella" - potrebbe rivelarsi, nel concreto, assolutamente non rispondente ai ricordati principii di proporzionalità e di adeguatezza.

Senza contare che rispetto a talune misure, di rettamente incidenti sullo status libertatis (come la custodia cautelare in carcere), il divieto di espatrio, anche perchè, almeno di norma, direttamente collegato alle esigenze cautelari di cui all'art. 274, lettera b, del codice di procedura penale, viene a risultare strumento assolutamente incongruo - se non pure incompatibile - proprio in vista delle esigenze astrattamente perseguite dall'art.28l. Ovviamente, tale divieto potrà essere disposto dal giudice all'atto della cessazione della misura cautelare più restrittiva. Così pure nulla impedisce al giudice di disporre il divieto stesso come misura aggiunta ad altre (quali l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, l'obbligo di dimora, gli stessi arresti domiciliari) quando particolari esigenze ciò consiglino.

6. Risultano lesi dalla disposizione della norma sottoposta a giudizio di costituzionalità anche gli ulteriori parametri invocati dal ricorrente. L'art. 13, secondo comma, della Costituzione, che postula come condizione per la legittimità dei provvedimenti giurisdizionali comunque operanti nell'area della libertà personale l'atto motivato dell'autorità giudiziaria, qui non richiesto in conseguenza della predeterminazione legislativa della misura quale necessaria conseguenza dell'adozione dei provvedimenti coercitivi contemplati nel capo secondo del libro quarto; l'art. 16 della Costituzione stessa, anch'esso qui correttamente chiamato in causa per le limitazioni alla libertà di circolazione comunque derivanti dall'automatica applicazione del divieto di espatrio per il cittadino, senza che all'obbligo imposto di non uscire dal territorio nazionale corrisponda un'esigenza concretamente apprezzabile dal giudice.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 281, comma 2 bis, del codice di procedura penale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31/03/94.