Sentenza n. 501 del 1993

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SENTENZA N. 501

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo e terzo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle Regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett.h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato il 20 marzo 1993, depositato in cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 1993.

 

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 14 dicembre 1993 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

 

uditi l'avv. Maurizio Steccanella per la Regione Lombardia e l'avv. dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ricorso regolarmente notificato e depositato la Regione Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art.2, primo comma, del d.P.R. (rectius: decreto legislativo) 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nella parte in cui stabilisce che il Presidente del Consiglio dei ministri "emana direttive" alle commissioni statali di controllo sugli atti amministrativi delle regioni; nonchè dello stesso art. 2, terzo comma, di detto decreto, nella parte in cui stabilisce che il comitato tecnico, istituito a mente del precedente secondo comma, "propone al Presidente del Consiglio dei ministri l'adozione delle direttive di cui al primo comma"; e tutto ciò per violazione degli artt.76, 118 e 125 della Costituzione.

 

Relativamente al primo parametro costituzionale, osserva innanzitutto la Regione ricorrente che la disposizione attributiva della delega al Governo relativamente alla norma impugnata è contenuta nella disciplina concernente specifica mente il pubblico impiego: dal che dovrebbe dedursi l'esclusione, secondo il ricorrente, della possibilità per il Governo di riformare in via generale l'istituto del controllo sugli atti amministrativi delle Regioni.

 

In secondo luogo, si sostiene che il decreto delegato avrebbe violato un limite della delega secondo cui, per garantire l'uniformità dei criteri di esercizio del controllo, il Governo avrebbe potuto procedere (soltanto) all'adeguamento della composizione degli organi di controllo, e non invece ad indirizzarne l'attività attraverso un coordinamento delle singole commissioni operato mediante la creazione di un apposito organo centrale non previsto nella legge delega. Infine, esorbitante rispetto alla delega risulterebbe sia la previsione della potestà di impartire direttive alle commissioni statali di controllo attribuita al Presidente del Consiglio dei ministri, che l'attribuzione della funzione di proposta circa il contenuto di tali direttive, riconosciuta al comitato tecnico.

 

Quanto alla presunta violazione dell'art. 125 della Costituzione e, "di riflesso, dell'art. 118, nonchè, sotto altro profilo, ancora dell'art. 76 della Costituzione", sottolinea la Regione ricorrente come il controllo sugli atti amministrativi delle Regioni sia unicamente un controllo di mera legittimità, da cui dovrebbe essere escluso, in forza della previsione contenuta nell'art. 1 dello stesso decreto legislativo impugnato, il vaglio del c.d. eccesso di potere. Sulla base di tale premessa, si osserva come sia difficile rinvenire la possibilità di individuare "criteri" che eccedano i generali canoni ermeneutici e le regole della interpretazione delle norme, ovvero determinare l'esatta portata dei "comuni indirizzi" previsti dal primo comma della disposizione impugnata.

 

Si rileva inoltre come la disposizione oggetto del presente giudizio, nell'attribuire al Presidente del Consiglio dei ministri la potestà di impartire direttive alle commissioni statali di controllo, e nello stabilire la spettanza al comitato tecnico (che è organo centrale dell'amministrazione dello Stato) del potere di formulare al Presidente del Consiglio dei ministri le proposte concernenti il contenuto delle anzidette direttive, introdurrebbe una "gerarchizzazione" dell'esercizio del controllo, "in quanto le direttive costituiscono un istituto tipico del rapporto gerarchico, o almeno di un rapporto di sovraordinazione funzionale". Tale modalità di esercizio del controllo, diventando "estrinsecazione gerarchizzata di amministrazione attiva", si porrebbe in contrasto con l'art. 125 e, conseguentemente, con l'art. 118 della Costituzione, in quanto violerebbe l'autonomia delle Regioni i cui atti possono, viceversa, soggiacere unicamente ad un controllo di legittimità che deve essere esercitato attraverso un "giudizio dell'organo a ciò deputato".

 

Quale ulteriore motivo di contrasto con l'art. 76 della Costituzione, rileva la Regione ricorrente che la legge di delega prevede una sorta di istituzionalizzazione del contraddittorio procedimentale, attraverso la "assicurazione della audizione dei rappresentanti dell'ente controllato": previsione non attuata, invece, del decreto legislativo impugnato.

 

Come ultimo profilo, viene denunciata l'irragionevole contraddittorietà di cui sarebbe espressione il decreto oggetto di ricorso: mentre infatti la legge delega si è proposta di "ridurre" l'ambito degli atti soggetti a controllo concentrando quest'ultimo profilo sugli "atti fondamentali della gestione", il decreto delegato avrebbe viceversa operato una burocratica gerarchizzazione della funzione.

 

2. Si è costituito davanti a questa Corte il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o, in subordine, per l'infondatezza della questione.

 

In primo luogo, osserva la difesa erariale che le disposizioni oggetto di ricorso non sono "invasive" di attribuzioni regionali, in quanto riguardano soltanto l'organizzazione "interna" di organi statali, per l'esercizio di una funzione esclusivamente statale.

 

Circa il motivo prospettato dalla ricorrente in merito alla presunta violazione della legge delega, essendo la disposizione delegante contenuta nella parte relativa al "pubblico impiego", l'Avvocatura dello Stato ne evidenzia la palese infondatezza, dovendosi escludere che la norma delegante avesse voluto ipotizzare due discipline di controllo sugli atti amministrativi regionali, l'una per il "pubblico impiego" e l'altra per le residue materie.

 

In ordine al secondo profilo, si osserva che "l'uniformità dei criteri di esercizio del controllo" non può che essere perseguita attraverso l'individuazione di una funzione (inevitabilmente "centrale") e quindi attraverso la previsione di una struttura ad essa servente.

 

Circa il potere del Presidente del Consiglio dei ministri di impartire direttive alla commissioni di controllo, osserva l'Avvocatura dello Stato che questa Corte ha già affermato che siffatte direttive sono possibili (ed anzi doverose specie quando rispondenti a valori costituzionalmente riconosciuti), e che del resto le commissioni di controllo sono organi periferici dello Stato e fanno capo alla Presidenza del consiglio.

 

Quanto al profilo relativo alla mancata previsione di una forma di consultazione delle amministrazioni controllate, rileva la difesa erariale che tale profilo dovrebbe condurre ad una pronuncia additiva, che però non pare consentita molteplici essendo le ipotizzabili modalità della auspicata "audizione".

 

3. In prossimità dell'udienza hanno presentato memorie sia l'Avvocatura generale dello Stato che la Regione ricorrente, nelle quali le parti ribadiscono quanto già ampiamente illustrato nelle memorie di costituzione.

 

4. Nel corso dell'udienza pubblica, le parti hanno fatto rilevare la sopravvenuta emanazione ed entrata in vigore del decreto legislativo 10 novembre 1993, n. 479, contenente norme correttive del decreto legislativo impugnato, concludendo, la Regione ricorrente, per il permanere dell'interesse ad una pronuncia di accoglimento, e l'Avvocatura dello Stato per la sopravvenuta inammissibilità della questione.

 

Considerato in diritto

 

1. La Regione Lombardia -per quanto abbia addotto una serie di censure al decreto n. 40 del 1993 nella motivazione del ricorso- conclude quest'ultimo limitando rigorosamente la sua richiesta alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo e terzo comma, del d.P.R. (rectius: decreto legislativo) 13 febbraio 1993, n.40 (Revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421); e precisamente del primo comma nella parte in cui stabilisce che il Presidente del Consiglio dei ministri "emana direttive" alle commissioni statali di controllo sugli atti amministrativi delle regioni; e del terzo comma nella parte in cui stabilisce che un apposito comitato tecnico, istituito ad opera del medesimo decreto, "propone al Presidente del Consiglio dei ministri l'adozione delle direttive di cui al primo comma", in riferimento agli artt. 76, 118 e 125 della Costituzione.

 

2. Prima di passare ad esaminare il merito di detta questione di costituzionalità, occorre valutare la portata delle innovazioni legislative introdotte mediante il decreto legislativo 10 novembre 1993, n. 479, contenente "Norme correttive del decreto legislativo 13 febbraio 1993, n.40, recante revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni", emanato in forza della delega contenuta nell'art. 2, primo comma, lettera h), e quinto comma della legge 23 ottobre 1992, n. 421.

 

L'art. 2, primo comma, di tale decreto stabilisce che all'art.2, primo comma, del decreto impugnato, le parole "emana direttive" sono sostituite dalle seguenti: "determina criteri procedurali"; mentre la disposizione contenuta nel terzo comma sostituisce alle parole "l'adozione delle direttive" (di cui al terzo comma dell'art. 2 del decreto n. 40 del 1993) le seguenti: "l'adozione dei criteri procedurali".

 

Atteso dunque che le disposizioni relativamente alle quali la Regione Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale sono state abrogate, senza che esse abbiano prodotto effetti nel periodo di vigenza, la suddetta questione deve dichiararsi inammissibile, essendo venuta meno la disposizione cui essa si riferiva (cfr. sentenza n. 372 del 1989).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.2, primo e terzo comma, del d.P.R. (rectius: decreto legislativo) 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 76, 118 e 125 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29/12/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 31/12/93.