Sentenza n. 478 del 1993

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SENTENZA N. 478

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 554, secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con n. 4 ordinanze emesse il 15 aprile 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Parma nei procedimenti penali relativi alle lesioni personali subite da Calzetti Nicola, Barbieri Bruno, Miodini Simonetta e Fassa Doriano, rispettivamente iscritte ai nn. 545, 546, 547 e 548 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 3 novembre 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con quattro ordinanze di identico contenuto, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Parma ha sollevato, in riferimento all'art.112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.554, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma, ad avviso del rimettente, non consente al giudice al quale sia stato richiesto di pronunciare decreto di archiviazione per mancanza di querela, di indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini ritenute necessarie in ordine a ipotesi di reato perseguibili d'ufficio che possano desumersi dagli atti e che concorrano con l'altra fattispecie presa in considerazione dal pubblico ministero nella richiesta di archiviazione, ove gli stessi risultino "rilevanti ai fini della corretta definizione del procedimento".

 

Osserva in proposito il giudice rimettente che l'art. 554, secondo comma, del codice di rito, quale risultante dalla sentenza costituzionale n. 445 del 1990, parrebbe dar credito alla tesi sostenuta dal pubblico ministero nei procedimenti a quibus, secondo la quale al giudice investito da una richiesta di archiviazione per una determinata ipotesi di reato sarebbe precluso qualsiasi potere di dare impulso alla iniziativa per l'esercizio dell'azione penale in ordine a reati diversi, ancorchè perseguibili d'ufficio. Ciò, si afferma, perchè, da un lato, l'intervento della Corte si è esaurito nel consentire il controllo, con le modalità indicate nella sentenza stessa, esclusivamente sull'archiviazione richiesta per infondatezza della notizia di reato, mentre, dall'altro, il caso dell'archiviazione per difetto di una condizione di procedibilità si riferisce evidentemente "solo al reato ipotizzato dal pubblico ministero e non ad altri ipotizzabili e concorrenti dei quali non si sia tenuto conto e rispetto ai quali nessuna indagine preliminare sia stata svolta".

 

Di conseguenza, se la sentenza n. 445 del 1990 non può essere estesa a ricomprendere anche l'ipotesi di richiesta di archiviazione per difetto di querela, risulterebbe eluso il controllo da parte del giudice sull'esercizio dell'azione penale e vulnerato, dunque, il principio sancito dall'art. 112 della Costituzione.

 

2. Nel primo dei quattro giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, concludendo "per l'inammissibilità o comunque per l'infondatezza della questione", con riserva di specifiche deduzioni peraltro non formulate.

 

Considerato in diritto

 

l. Le ordinanze di rimessione sottopongono all'esame della Corte la medesima questione; i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

 

2. Il giudice a quo solleva, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 554, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma non prevede che il giudice per le indagini preliminari presso la pretura circondariale, investito da una richiesta di archiviazione per mancanza di querela, possa indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini che ritenga necessarie "rispetto a fatti reato perseguibili di ufficio, desumibili dagli atti, concorrenti con l'altro preso in considerazione dalla pubblica accusa e rilevanti ai fini della corretta definizione del procedimento", fissando all'uopo il termine indispensabile per il relativo espletamento. La premessa interpretativa dalla quale muove il giudice rimettente riposa essenzialmente sulla ritenuta fondatezza della tesi esposta dal pubblico ministero nei procedimenti a quibus, secondo la quale al giudice spetterebbe esclusivamente, in sede di archiviazione, valutare la sussistenza o meno del reato ipotizzato "con mera possibilità di cangiare la formula" enunciata nella richiesta, mentre resterebbe escluso qualsiasi potere di dare impulso all'attività di indagine finalizzata all'esercizio dell'azione penale rispetto a reati diversi, anche se questi siano perseguibili d'ufficio e risultino dagli atti, giacchè in tale evenienza al giudice sarebbe riservato un compito di "mera segnalazione" nel quadro di un normale rapporto collaborativo tra gli uffici. Tesi, quella esposta, che il giudice a quo fa propria in considerazione del fatto che, da un lato, risulterebbe impossibile "estendere" al caso in esame la sentenza di questa Corte n. 445 del 1990 e che, dall'altro, ciascuna delle ipotesi di archiviazione enunciate dal codice "fa evidentemente riferimento solo al reato ipotizzato dal pubblico ministero" e non agli altri che eventualmente concorrano ed in ordine ai quali lo stesso pubblico ministero abbia omesso di svolgere qualsiasi attività di indagine.

 

3. L'assunto del giudice a quo si fonda su di una premessa che non può condividersi: quella di ritenere che la tipologia del "controllo" che il giudice è chiamato ad esercitare in sede di archiviazione e, quindi, la qualità e la quantità delle attribuzioni che l'ordinamento riserva al suo intervento, siano modellati in stretta aderenza alla specificità della richiesta che il pubblico ministero gli rivolge, quasi che la stessa integri una domanda a devoluzione rigorosamente circoscritta, che impedisce qualsiasi sconfinamento da quel particolare "tema" sul quale l'organo della giurisdizione viene ad essere investito e che il pubblico ministero sarebbe dunque libero di contrassegnare. Ma una corretta ricostruzione del sistema, quale si è venuto gradualmente a plasmare nella giurisprudenza di questa Corte, svela, però, l'infondatezza di un simile assunto. Al di là, infatti, di qualsiasi opzione dogmatica sulla natura del provvedi mento di archiviazione e del tentativo, tutto teorico, che può essere compiuto per ricondurre ad uno schema unitario la varietà dei rapporti tra pubblico ministero e giudice, resta il fatto che, in tanto può correttamente analizzarsi la specificità dei poteri che contraddistinguono l'intervento dell'organo giurisdizionale, in quanto risulti chiara la funzione che quell'intervento è chiamato a soddisfare nell'ordinamento. Ciò posto, divengono allora ineludibili i dicta che promanano dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di archiviazione: si è così affermato che il principio di legalità, "che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale". Il principio di obbligatorietà dell'azione penale esige, quindi, "che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, per ciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis. Ciò comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunità che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale facoltativa, consentendo all'organo dell'accusa di non agire anche in base a valutazioni estranee all'oggettiva infondatezza della notitia criminis, ma comporta, altresì, che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa". Il problema dell'archiviazione, dunque, "sta nell'evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell'inazione" (v. sentenza n. 88 del 1991).

 

Se tale è l'ampiezza del controllo che il giudice è chiamato ad esercitare in sede di archiviazione, così da soddisfare integralmente la funzione di legalità che l'istituto svolge nel quadro dei richiamati principi di rango costituzionale, se ne possono allora egevolmente ricavare due corollari, fra loro intimamente connessi.

 

Anzitutto, un siffatto potere di controllo non ammette differenze "qualitative" a seconda dei casi di archiviazione che il codice enumera, giacchè, contrariamente a quanto mostra di ritenere il rimettente, "è proprio la finalità che accomuna tutte le varie ipotesi di archiviazione" a giustificare l'estensione della disciplina prevista per l'ipotesi base (archiviazione per infondatezza della notizia di reato) anche alle restanti ipotesi, così da "far emergere una figura di giudice per le indagini preliminari in grado di indicare al pubblico ministero gli approfondimenti non ancora compiuti" (v. sentenza n. 409 del 1990), senza restare quindi vincolato ad un diverso epilogo a seconda della particolare "formula" che lo stesso pubblico ministero ha ritenuto di enunciare nella richiesta. Sotto altro profilo, poi, dovendosi il controllo del giudice volgere a verificare se, alla stregua del materiale raccolto nel corso delle indagini, sia conforme a legalità "l'inazione" del pubblico ministero, il sindacato non potrà che riguardare la integralità dei risultati dell'indagine, restando dunque esclusa qualsiasi possibilità di ritenere che un simile apprezzamento debba invece circoscriversi all'interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico ministero. Una volta formulata la richiesta di archiviazione, quindi, il thema decidendum che investe il giudice non si modella in funzione dell'ordinario dovere di pronunciarsi su di una specifica domanda, ma del ben più ampio potere di apprezzare se, in concreto, le risultanze dell'attività compiuta nel corso delle indagini preliminari siano o meno esaurienti ai fini della legittimità della "inazione" del pubblico ministero.

 

Ove si volesse pertanto invocare - come vorrebbe il giudice a quo - un qualche effetto devolutivo a seguito della richiesta, ciò sarebbe consentito solo nell'ipotesi in cui per oggetto di devoluzione si intendesse non la richiesta in quanto tale, ma la intera fase d'indagine che il pubblico ministero presuppone esaurita.

 

4. Risulta a questo punto evidente la non fondatezza delle censure che il giudice a quo solleva a margine della disposizione oggetto di impugnativa.

 

Qualora, infatti, accanto ad una notitia criminis per la quale difetta una condizione di procedibilità, il giudice ritenga di ravvisare in sede di archiviazione una diversa fattispecie procedibile ex officio in ordine alla quale il pubblico ministero abbia omesso di compiere le necessarie indagini, nulla si oppone, alla luce dei riferiti rilievi, a che il giudice stesso - se dagli atti non risulti che il pubblico ministero procede separatamente - inviti il pubblico ministero medesimo a svolgere le ulteriori indagini che ritenga necessarie sulla diversa "regiudicanda", fissando il termine indispensabile per il compimento di esse. Ove così non fosse, d'altra parte, non sarebbe "l'inazione" del pubblico ministero a formare oggetto del controllo di legalità da parte del giudice, ma unicamente quella particolare ipotesi di non esercizio dell'azione penale che la stessa parte pubblica affida alla verifica del giudice, delegandosi per questa via all'arbitrio dell'organo assoggettato al controllo il potere di ritagliare la quantità e la qualità dell'intervento dell'organo che quel controllo è istituzionalmente chiamato ad esercitare. Ma che una simile prospettiva non possa essere in alcun modo coltivata, lo si evince, con certezza, oltre che dalla ricostruzione del sistema dianzi delineata, anche da un ulteriore e conclusivo rilievo.

 

Posto, infatti, che ove il giudice avesse ritenuto sufficienti gli elementi raccolti in ordine alla diversa ipotesi di reato, il relativo epilogo sarebbe stato quello di disporre la formulazione della imputazione; è di tutta evidenza, allora, che al medesimo giudice competa anche il potere di invitare il pubblico ministero a svolgere ulteriori indagini nell'ipotesi in cui queste siano risultate carenti ai fini delle scelte sull'esercizio o meno della azione penale, proprio perchè i due poteri ("ordine" di formulare l'imputazione o invito a svolgere ulteriori indagini) si saldano specularmente all'interno della medesima funzione di controllo che il giudice svolge in sede di archiviazione: impedire, appunto, l'elusione del precetto che impone al pubblico ministero di esercitare l'azione penale, nei casi in cui il processo non appaia superfluo.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.554, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Parma con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/12/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/12/93.