Sentenza n. 474 del 1993

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SENTENZA N. 474

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE giudice

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Avv. Massimo VARI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 577 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio 1992 dalla Corte d'Appello di Milano nel procedimento penale a carico di Colonnelli Lauretta ed altri, iscritta al n. 5 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di costituzione di Colonnelli Lauretta nonchè l'atto di intervento di Kamenetzky Michele;

 

udito nell'udienza pubblica del 19 ottobre 1993 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

 

udito l'avvocato Dino Luigi Bonzano per Colonnelli Lauretta.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Nel corso del procedimento penale a carico di Colonnelli Lauretta e altri, la Corte d'appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.577 del codice di procedura penale (che consente alla persona offesa, costituitasi parte civile nei procedimenti per i reati di ingiuria e diffamazione, l'impugnativa delle sentenze dibattimentali non solo ai fini civilistici, ma anche agli < effetti penali>).

 

Secondo la Corte milanese la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, poichè l'eventuale incostituzionalità della disposizione impugnata comporterebbe l'inammissibilità dell'appello proposto dalla parte civile, almeno per la parte in cui esso tende a far conseguire la condanna degli imputati per il reato di diffamazione. E sarebbe non manifestamente infondata, poichè i reati di ingiuria e diffamazione sono stati privilegiati rispetto a tanti altri (anche più gravi) fino al punto da consentire, in caso di assoluzione, che la parte civile possa chiedere, in luogo del pubblico ministero che è il titolare dell'azione penale, la condanna della persona imputata. Tale disparità di trattamento sarebbe quindi del tutto ingiustificata e contraria ai principi di ragionevolezza e monopolio pubblico dell'azione penale.

 

2. Si è costituita, con memoria scritta a firma dei difensori e procuratori speciali, l'imputata Lauretta Colonnelli che ha chiesto l'accoglimento della questione di costituzionalità sollevata con l'ordinanza in epigrafe.

 

Ha osservato la parte privata che le disposizioni contenute nell'articolo 577 del codice di procedura penale erano già presenti nel codice abrogato, ove si attribuiva alla persona offesa, costituita parte civile nel procedimento penale, il potere d'impugnare sia le sentenze di condanna sia quelle di assoluzione, ma soltanto allo scopo di vedere affermata la responsabilità civile dell'imputato. Il mezzo di gravame, perciò, investiva l'esistenza del fatto-reato esclusivamente quale presupposto logico e giuridico della responsabilità civile dell'imputato, e dunque in via incidentale.

 

Introducendo la disposizione in esame, il legislatore ha inserito nel codice di procedura penale una norma del tutto nuova in virtù della quale < la persona offesa costituita parte civile può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di diffamazione>.

 

L'inciso < anche agli effetti penali>, ad avviso della parte privata, andrebbe inteso come potere di chiedere l'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, e conseguentemente l'irrogazione della pena, indicando in concreto pure la sua entità. Si tratterebbe quindi di questione delicata, e < non da poco>, come mostrerebbe la stessa relazione al codice, atteso che la nuova disposizione è stata introdotta < non senza contrasti al Senato nel corso dei lavori preparatori>.

 

Un primo contrasto emergerebbe in riferimento all'articolo 112 della Costituzione che ha stabilito i principi dell'officialità e dell'obbligatorietà dell'azione penale, e ha ispirato l'articolo 50 del nuovo codice di procedura penale, ove si conferisce il monopolio dell'azione penale al pubblico ministero sancendone, appunto, il carattere di obbligatorietà e officialità.

 

Se l'articolo 50 è norma < destinata a valere per l'intero arco del processo> - come chiarisce la relazione al codice - non si comprende in qual modo possa mantenersi in vita la pretesa punitiva dello Stato su iniziativa della parte privata (una inammissibile deroga al principio del monopolio dell'azione penale che non può non valere per tutto l'arco del processo).

 

Nè avrebbe pregio l'obiezione secondo cui l'azione penale, esercitata dal pubblico ministero, dovrebbe ritenersi conclusa con la sentenza di primo grado, lasciandosi allo stesso pubblico ministero, in via del tutto discrezionale, la previsione del mezzo di impugnazione. A tale obiezione si potrebbe rispondere che una cosa è la discrezionalità dell'azione penale e altra cosa è invece l'attribuzione della sua titolarità anche a un diverso e privato soggetto, così chiamato a partecipare della pretesa punitiva dello Stato oltre il primo grado del giudizio.

 

Infine, ha proseguito la parte privata, l'inconciliabilità fra l'art. 577 del codice di procedura penale e l'articolo 112 della Costituzione risulterebbe, altresì, da una serie di norme del codice di rito che rappresentano un corollario del principio costituzionale richiamato come, ad esempio:

 

- dall'art. 597 che - nel disciplinare i poteri del giudice dell'appello - si occuperebbe esclusivamente dell'impugnativa del pubblico ministero e di quella dell'imputato, senza fare alcun cenno all'appello della parte civile (nè potrebbe soccorrere il ricorso all'analogia, poichè si tratterebbe di estendere l'applicabilità di una norma processuale in malam partem);

 

- dall'art. 589, in relazione all'art. 577 dello stesso codice, poichè, mentre la prima norma prevede espressamente che il pubblico ministero possa rinunciare all'impugnazione, la seconda - nel caso di impugnazione della parte civile - verrebbe sempre a < trascinare> il pubblico ministero nell'iniziativa della parte privata, impedendogli di rinunciare all'impugnazione;

 

- dall'art. 591 che esige, a pena di inammissibilità del gravame, le conclusioni della parte civile appellante anche in ordine alla sanzione, quantificandone l'entità ed indicandone i criteri di determinazione e, così, esercitando il potere- dovere riconosciuto dall'ordinamento, in via esclusiva, al pubblico ministero.

 

3. Sarebbe poi del pari violato il parametro di cui all'articolo 3 della Costituzione e, in particolare, il principio di ragionevolezza.

 

Non vi sarebbe infatti alcuna giustificazione a che i reati di ingiuria e diffamazione siano privilegiati rispetto ad altri, anche più gravi, sino al punto da consentire alla parte civile una diversa estensione del mezzo di impugnazione delle sentenze di condanna e di proscioglimento dell'imputato e da discriminare gli imputati di questi reati che sono ora, essi soltanto, a vedere riformata in pejus una sentenza di primo grado in forza del gravame della sola parte privata.

 

Del resto, alla parte civile costituita nel procedimento penale sarebbe sempre garantita la tutela dei propri interessi civili con la possibilità di impugnare qualunque sentenza penale che sia presupposto della responsabilità civile dell'imputato, sia pure con il limite che il gravame investa l'accertamento del fatto-reato solo incidenter tantum. Nè le motivazioni poste a base della innovazione legislativa (consistenti nell'idoneità dei reati in questione a colpire il patrimonio morale della persona offesa e, quindi, nella necessità di una sua più energica tutela) possono razionalmente giustificare tale disparità di trattamento, che sarebbe ai limiti dell'arbitrarietà.

 

4. Con vari scritti e due memorie, tardivi in quanto non rispettosi del termine stabilito dagli artt. 25 della l. 11 marzo 1953, n. 87 e 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, Michele Kamenetzky ha chiesto d'intervenire e, in subordine, ha sollecitato la riunione a questo giudizio di un altro (nel quale è imputato) promosso, con riferimento alla medesima questione di costituzionalità, dalla stessa Corte d'Appello di Milano, con ordinanza emessa in data 25 febbraio 1993.

 

Considerato in diritto

 

l. Viene all'esame della Corte la questione di legittimità costituzionale della norma, contenuta nell'art.577 del codice di procedura penale, che consente alla persona offesa dai reati di ingiuria e diffamazione di costituirsi parte civile e di proporre l'impugnazione anche agli effetti penali contro le sentenze di condanna e di proscioglimento dell'imputato. Detta impugnazione sarebbe lesiva degli artt.3 e 112 della Costituzione, determinando una disparità di trattamento fra le persone offese e gli imputati di questo tipo di reati rispetto agli imputati di reati aventi pari o maggiore gravità con evidente violazione del principio di officialità, obbligatorietà e monopolio pubblico dell'azione penale attribuita dalla Costituzione al pubblico ministero.

 

2. L'intervento proposto da Michele Kamenetzky è inammissibile, perchè tardivo e perchè lo stesso non è parte nel presente giudizio. L'istanza di riunione, proposta in subordine, va disattesa, giacchè tale potere non è correlato ad alcun diritto delle parti (e dell'interventore), trattandosi di una facoltà meramente discrezionale esercita bile dalla Corte.

 

3. La questione è infondata.

 

Dal punto di vista logico va innanzitutto respinta la censura secondo cui la previsione d'una peculiare forma d'impugnativa della sentenza di primo grado, concessa alla persona offesa dal reato di ingiuria o diffamazione, costituirebbe una violazione dell'art. 112 della Costituzione, ove si afferma che il < pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale>.

 

Come questa Corte ha già avuto modo di chiari re, la previsione costituzionale richiamata non stabilisce affatto il principio del monopolio pubblico dell'azione penale, ma soltanto quello dell'obbligatorietà: tale è il principio fissato dall'art. 112 (v. in particolare la sent. n. 61 del 1967). L'obbligo imposto al pubblico ministero di esercitare l'azione penale < non vuole escludere, come risulta anche dai lavori preparatori, che ad altri soggetti possa essere conferito analogo potere>. L'azione penale, dunque, può essere legittimamente attribuita anche a soggetti diversi dal pubblico ministero, purchè < con ciò non si venga a vanificare l'obbligo del pubblico ministero medesimo di esercitarla> (sent. n. 84 del 1979). Nè la sentenza n. 177 del 1971 (che, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale, volle sottrarre il potere d'impugnazione del pubblico ministero a un suo possibile esercizio arbitrario) ha rimesso in discussione il rapporto tra l'azione penale del pubblico ministero ed eventuali analoghi poteri attribuiti ad altre figure soggettive, essendosi occupata soltanto del rapporto intercorrente tra l'azione esercitata dal pubblico ministero e le sue conseguenti decisioni da far valere in sede d'impugnazione.

 

A prescindere, comunque, dalla natura giuridica del potere attribuito alla persona offesa dal reato di ingiuria o diffamazione che - costituita parte civile - intenda impugnare la decisione presa dal giudice del dibattimento; e a prescindere pure dalla circostanza che si tratti d'una forma di azione penale sussidiaria o concorrente, ovvero più semplicemente di un potere d'impugnazione estraneo al concetto di azione penale in senso tecnico, resta il dato di una denuncia d'incostituzionalità incentrata, almeno per questa parte, su di un parametro chiaramente inadeguato.

 

Non vi è, infatti, chi contesti la possibilità, per il pubblico ministero, di impugnare anch'egli gli esiti dibattimentali non conformi alle sue requisitorie. Nè sono rilevanti, in questa sede, i problemi interpretativi sollevati nella memoria della parte costituita che riguardano il coordinamento tra le determinazioni della parte civile, per ipotesi, di segno opposto a quelle del pubblico ministero. Ma tali questioni vanno lasciate all'attività dell'interprete.

 

4. L'art. 577 del codice di procedura penale fissa una scelta pluralistica del legislatore sol tanto per le impugnazioni successive al dibattimento di primo grado. Questa scelta non consente di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere (esclusione non in contrasto con la Costituzione: si veda la sentenza n. 381 del 1992) nè di interferire nel promovimento dell'azione penale più di quanto sia consentito a tutte le altre persone offese dal reato.

 

Si tratta dunque di una scelta legislativa creatrice di una ipotesi eccezionale che il giudice a quo chiede sia cancellata in ossequio al principio di ragionevolezza, di cui questa Corte ha più volte fatto applicazione.

 

La censura va respinta.

 

La scelta tendente a garantire la persona offesa da sempre più frequenti inconvenienti, riscontrabili in processi che coinvolgono direttamente il patrimonio morale della persona, non esorbita dai limiti della ragionevolezza. I processi per ingiuria e diffamazione hanno una loro singolarità che è nel sistema e nella realtà, come appare evidente da una serie di casi in cui inopinatamente compaiono in sentenza affermazioni che il dispositivo, letto in udienza, non lasciava in alcun modo immaginare o presumere (singolarità che in altri Paesi è risolta nel senso che dà luogo a una disciplina completamente diversa e autonoma).

 

É vero, infatti, che il pubblico ministero rappresenta tutti gli interessi offesi dal reato, ma li difende su un piano oggettivo e generale che può, talvolta, astrarre dalla situazione soggettiva che contraddistingue i reati inerenti alla delicatissima sfera dell'onore e della reputazione.

 

L'apprezzamento del soggetto passivo del reato di ingiuria e diffamazione assume perciò un rilievo a cui non è irragionevole precludere un'autonoma difesa, potendo in singoli casi risultare inadeguata la tutela che spetta al pubblico ministero.

 

La persona offesa, attraverso l'impugnazione, può ottenere che i fatti e le valutazioni riportati in sentenza siano meglio ponderati, nuovamente verificati e controllati. E che tale verifica successiva sia richiesta proprio quando è la vittima del reato di ingiuria e diffamazione a subirne i pregiudizievoli effetti, è scelta non arbitraria, stante la realtà di quegli inconvenienti.

 

Che poi tale soluzione legislativa sia stata ristretta ai soli casi dei reati in esame e non pure allargata agli altri che sono stati anche analiticamente menzionati dalla parte costituita è fatto che, se accresce la tutela della persona offesa dai reati di ingiuria e diffamazione, non diminuisce quella già storicamente accordata alla persona offesa ed alla parte civile nel vecchio codice di procedura penale, ed ora ulteriormente rafforzata con il nuovo.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.577 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 112 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/12/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/12/93.