Sentenza n. 473 del 1993

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SENTENZA N. 473

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 62 e 185, primo comma, n. 1, del codice di procedura penale del 1930, promosso con ordinanza emessa il 15-20 gennaio 1993 dalla Corte d'appello di Firenze nel procedimento penale a carico di Marini Roberto, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti l'atto di costituzione di Marini Roberto nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 19 ottobre 1993 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

udito l'avvocato Agostino Viviani per Marini Roberto.

Ritenuto in fatto

l.- In sede di appello avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Grosseto aveva condannato Marini Roberto per il delitto di cui all'art. 521 cod. pen., la Corte d'appello di Firenze rilevava che di detta sentenza era estensore - e quindi componente del relativo collegio giudicante - il coniuge del Pretore di Grosseto che in precedenza, giudicando il Marini per il reato di cui all'art. 530 cod. pen., aveva dichiarato la propria incompetenza ravvisando, appunto, il più grave reato di cui all'art. 521 cod. pen.. Su tale premessa, la predetta Corte, con ordinanza del 23 gennaio 1993, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale: a) dell'art. 62 del codice di procedura penale del 1930, con riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che non possono esercitare nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse giudici che siano tra loro in rapporto di coniugio; b) dell'art. 185, primo comma, n. 1, codice di procedura penale del 1930, con riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede come nullità le incompatibilità stabilite dall'art. 62 dello stesso codice.

Premesso che l'espressione "funzioni anche separate o diverse" contenuta nell'impugnato art. 62 (così come nel corrispondente art. 35 del codice del 1988) è talmente ampia e omnicomprensiva, che in essa rientra il compimento di ogni atto proprio della funzione del giudice, e quindi anche gli atti non aventi attitudine a definire il procedimento e che non decidono il merito della causa, e che la mancata previsione in detta norma - accanto ai rapporti di parentela o affinità fino al secondo grado - del (più stretto) rapporto di coniugio si spiega con la circostanza che le donne ebbero accesso in magistratura solo per effetto della successiva legge 9 febbraio 1963, n. 66, la Corte rimettente nega che all'inclusione di detto rapporto tra le cause di incompatibilità possa pervenirsi adottando un'interpretazione evolutiva, ostando a ciò la consolidata giurisprudenza circa la tassatività dei casi di incompatibilità e la natura di stretta interpretazione delle relative norme.

La disposizione, perciò, violerebbe: a) l'art. 3 Cost., per l'irragionevolezza della differenziazione tra i rapporti di affinità in primo o secondo grado ed il rapporto di coniugio, meritevole di più accentuata tutela; b) l'art. 101 Cost., perchè le reciproche influenze determinate dal rapporto coniugale comporterebbero un condizionamento idoneo ad incidere sull'indipendenza di giudizio e quindi sulla soggezione del giudice "soltanto alla legge".

La Corte rimettente rileva, inoltre, che secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, la violazione delle disposizioni in tema di incompatibilità, essendo queste meramente processuali e non di ordinamento giudiziario, non può farsi rientrare tra i difetti attinenti alla nomina ed alle altre condizioni di capacità del giudice stabilite dalle leggi d'ordinamento giudiziario, per le quali l'art. 185, n.1, cod. proc. pen. del 1930 commina la nullità assoluta; e che, perciò, essa può essere fatta valere solo come motivo di ricusazione, nelle forme e nei termini prescritti per la ricusazione (art. 66): termini che nella specie non sarebbero stati rispettati.

In proposito, la Corte non ritiene di accedere alla soluzione adottata in un'isolata pronuncia della Corte di cassazione (sez. I, 2 ottobre 1986, Alleruzzo) che, per il caso di incompatibilità determinata da rapporto di coniugio, ha ritenuto l'inesistenza giuridica del provvedimento. Condivide, però, la motivazione adottata in detta decisione, e cioé che da tale rapporto derivi un difetto di legittimazione (sostanziale) a giudicare, per il possibile prevalere dell'interesse personale, affettivo, sull'interesse superiore della giustizia, e dunque per la "situazione di compromissione delle componenti di obiettività (terzietà) da parte di chi deve esercitare il potere di "jus dicere""; e sottolinea che le incompatibilità in questione, diversamente dalla maggior parte delle circostanze che comportano astensione e ricusazione, sono di carattere oggettivo, così da non richiedere alcun apprezzamento di merito, com'è invece per l'"interesse personale", per l'"inimicizia grave", etc..

Sarebbe perciò inaccettabile che siffatta situazione di incompatibilità possa operare solo se rilevata dal singolo magistrato o casualmente conosciuta dall'interessato: ed il fatto che il citato art. 185, n. 1 non la preveda come difetto attinente alle condizioni di capacità del giudice, e quindi come causa di nullità assoluta, lo porrebbe in conflitto con l'art.101, secondo comma, Cost., in quanto "tali condizioni hanno significato effettivo solo in quanto rendano il giudice capace di svolgere la sua funzione al riparo da qualsiasi possibilità di compromissione della sua terzietà" ed esigono che il giudice "non solo sia ma anche appaia imparziale".

La Corte rimettente, richiama anche, al riguardo, l'art. 25, primo comma, Cost. ed il principio di buona amministrazione, ma tali censure non sono ripetute nel dispositivo.

2.- Si è costituita la parte privata Marini Roberto, rappresentato e difeso dall'avv. A. Viviani, aderendo integralmente alle motivazioni e conclusioni contenute nell'ordinanza.

3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, eccepisce innanzitutto l'irrilevanza della questione concernente l'art.62, dato che le cause d'incompatibilità possono essere fatte valere solo come motivo di ricusazione e questa, in quanto già effettuabile in primo grado, non è più proponibile in fase di appello.

La questione sull'art. 185, n. 1, prospettata per superare tale ostacolo, sarebbe poi infondata, dato che le cause di incapacità sono diverse, e più gravi, delle cause d'incompatibilità, sicchè la diversità di disciplina dovrebbe ritenersi ragionevole.

Sul rilievo, poi, che l'ipotesi del rapporto di coniugio non poteva realizzarsi al momento dell'emanazione del codice del 1930, l'Avvocatura sostiene che essa potrebbe includersi tra le cause d'incompatibilità in via interpretativa, come del resto ritenuto dalla Corte di cassazione (sez. VI, 9 ottobre 1985, Martignetti); e rileva - quanto alla pretesa violazione dell'art. 101 Cost. - che la disciplina dei diritti e doveri inerenti al rapporto di coniugio non autorizza a considerarlo "come idoneo in diritto a consentire una "soggezione" del coniuge-giudice a regole di condotta diverse dalla legge".

Considerato in diritto

l.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Firenze dubita:

a)che l'art. 62 cod. proc. pen. del 1930, nella parte in cui non prevede che non possono esercitare nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse giudici che siano tra loro in rapporto di coniugio, violi:

- l'art. 3 Cost., essendo irragionevole la differenziazione di tale rapporto rispetto a quelli di affinità di primo o secondo grado;

- con l'art. 101, secondo comma, Cost., perchè le reciproche influenze determinate dal rapporto coniugale comporterebbero un condizionamento idoneo ad incidere sull'indipendenza di giudizio;

b) che l'art. 185, primo comma, n. 1 del cod. proc. pen. del 1930, nella parte in cui non prevede le incompatibilità ex art. 62 come cause di nullità assoluta, contrasti con l'art.101, secondo comma, Cost. dato che esse incidono sull'indipendenza di giudizio e dovrebbero perciò includersi tra le condizioni di capacità del giudice.

2.- Premesso che la rilevanza della questione sub a) trova fondamento nella prospettazione di quella sub b), la Corte non ritiene di poter disattendere - come vorrebbe l'Avvocatura dello Stato - l'assunto del giudice a quo secondo cui all'inclusione del rapporto di coniugio tra le cause d'incompatibilità di cui all'impugnato art. 62 non può pervenirsi in via interpretativa. É ben vero, infatti, che trattasi di lacuna sopravvenuta, dato che anteriormente alla legge 9 febbraio 1963, n. 66 le donne non avevano accesso in magistratura; ma non può negarsi che nuoccia alla certezza delle regole processuali il ritenere che il rapporto di coniugio sia implicitamente ricompreso, sulla base dell'eadem ratio, tra quelli che tale norma considera, dato che è opinione comune che le norme sull'incompatibilità e sulla ricusazione, in quanto limitative dell'idoneità al giudizio del giudice, sono di stretta interpretazione.

Ciò premesso, la questione sub a) deve ritenersi fondata.

L'art. 62, infatti, mira a salvaguardare l'imparzialità del giudice dai condizionamenti che possono derivargli dalla partecipazione allo stesso procedimento, con funzioni anche separate o diverse, da soggetti a lui legati da stretti rapporti di parentela o affinità. É evidente che condizionamenti anche maggiori possano scaturire dal (più stretto) rapporto coniugale: sicchè la differenziazione è indubbiamente irragionevole.

L'art. 62 del codice di procedura penale del 1930 va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che non possano esercitare nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse giudici che sono tra loro in rapporto di coniugio.

3.- La questione sub b), che investe l'art. 185, primo comma, n. 1 di detto codice è, invece, infondata.

Dall'invocato principio costituzionale di soggezione del giudice soltanto alla legge non discende, infatti, che l'osservanza delle prescrizioni atte a garantirne l'imparzialità, ed in particolare di quelle sulle cause d'incompatibilità, debba essere assicurata con lo strumento della nullità assoluta. Il legislatore può invero ritenere più appropriati, anche per evitare il protrarsi di situazioni di incertezza, gli strumenti dell'astensione e della ricusazione del giudice che versi in situazione di incompatibilità, semprechè ponga la parte interessata in condizione di dedurla.

L'incompatibilità, d'altra parte, inficia l'idoneità al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali solo in relazione ad uno specifico procedimento, e perciò può essere ragionevolmente differenziata da quelle situazioni - considerate dalla norma impugnata - che ostano in via generale alla capacità di esercizio di tali funzioni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 62 del codice di procedura penale del 1930, nella parte in cui non prevede che nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 185, primo comma, numero 1 del predetto codice, in riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, sollevata dalla Corte d'appello di Firenze con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/12/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 30/12/93.