Sentenza n. 403 del 1993

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SENTENZA N. 403

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Prof. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 50, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nel testo modificato dall'art. 14 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promosso con ordinanza emessa il 5 gennaio 1993 dal Tribunale di Sorveglianza di Torino nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Rossi Mario, iscritta al n. 121 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visto l'atto di costituzione di Rossi Mario nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 ottobre 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;

uditi l'Avv. G. Cesare Allegra e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

l. Con ordinanza dell'11 ottobre 1989 il Tribunale di sorveglianza di Milano concedeva a Rossi Mario il beneficio della semilibertà relativamente ai fatti giudicati con sentenze 18 marzo 1974 della Corte di assise di appello di Genova e 14 dicembre 1982 della Corte di assise di appello di Cagliari che lo avevano condannato, rispettivamente, alle pene dell'ergastolo e di anni due e mesi sei di reclusione; inizio pena, 26 marzo 1971, data dell'arresto.

Dopo il suo trasferimento alla casa circondariale di Novara, istituto designato per la semilibertà, veniva notificato al Rossi un nuovo ordine di carcerazione della Procura Generale presso la Corte di appello di Cagliari dovendo egli espiare anni ventidue di reclusione con riferimento a fatti commessi durante l'esecuzione della pena. Attivata la procedura per l'estensione della semilibertà anche riguardo a tali condanne, la Procura Generale di Cagliari, richiesta di procedere al cumulo delle pene, lo determinava nell'ergastolo con isolamento diurno per due mesi, sempre con decorrenza dal 26 marzo 197l.

Con ordinanza dell'8 febbraio 1991 il Tribunale di sorveglianza di Torino dichiarava l'inammissibilità della domanda di estensione. La pronuncia veniva però annullata senza rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza del 17 giugno 1991, a seguito di gravame dell'interessato.

Il Magistrato di sorveglianza di Novara autorizzava, in via provvisoria, la prosecuzione della semilibertà anche relativamente alle pene di cui al provvedimento di cumulo della Procura Generale di Cagliari.

Senonchè, il 9 marzo 1992, quest'ultimo ufficio, premesso che i reati in ordine ai quali era stato operato il cumulo erano stati commessi dal Rossi durante la detenzione e che, di conseguenza, l'inizio di esecuzione della pena unificata doveva essere stabilito alla data del 31 marzo 1982 - anzichè a quella, prima erroneamente determinata, del 26 marzo 1971 - disponeva che la decorrenza della detta pena venisse in tali termini corretta.

Con decreto del 17 aprile 1992, il Magistrato di sorveglianza di Novara ordinava, quindi, la sospensione provvisoria della semilibertà non essendo stati ancora espiati i venti anni di reclusione richiesti dalla legge per l'ammissione all'invocato beneficio.

Adita quale giudice dell'esecuzione, la Corte di assise di appello di Cagliari disponeva modificarsi la data di decorrenza, che veniva così definitivamente fissata in quella del 26 marzo 197l.

Conseguentemente il Magistrato di sorveglianza di Novara ordinava, ancora una volta, la prosecuzione provvisoria della semilibertà.

2. Ripreso il procedimento dopo la sospensione provocata dall'incidente di esecuzione, il Tribuna le di sorveglianza di Torino ha, con ordinanza del 5 gennaio 1993, sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 50 della legge 26 luglio 1975, n.354, nel testo modificato dall'art. 14 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui per i condannati all'ergastolo subordina l'ammissione al beneficio della semilibertà all'espiazione di venti anni di reclusione anche nel caso di ulteriori condanne per reati commessi nel corso dell'esecuzione.

Premesso che all'interessato, già condannato all'ergastolo, erano state inflitte pene detentive per un totale di ventidue anni di reclusione relativamente a reati commessi nel corso dell'esecuzione della pena perpetua, e che, alla stregua del "combinato disposto" degli artt. 72 e 80 c.p., nell'ipotesi di concorso tra pena dell'ergastolo e pene detentive temporanee deve essere applicata la pena dell'ergastolo con isolamento diurno da due a diciotto mesi, così lasciando inalterata la durata della pena per l'ergastolano che richiede l'ammissione al beneficio della semilibertà pur in presenza di ulteriori condanne inflitte in corso di esecuzione, il giudice a quo ravvisa una ingiustificata identità di trattamento ai fini dell'ammissione alla misura alternativa di due situazioni profondamente diverse tanto sul piano soggettivo (sotto il profilo della prevenzione speciale) quanto sul piano oggettivo (sotto il profilo della tutela della collettività): quella del condannato all'ergastolo che delinque in carcere e quella del condannato all'ergastolo che durante l'esecuzione della pena mantiene una condotta irreprensibile;

un'identità, invece, non riscontrabile relativamente ai condannati a pena temporanea, nei confronti dei quali il legislatore ha condizionato l'accesso alla semilibertà, non ad un termine fisso, ma commisurato all'entità della pena effettivamente inflitta.

Infatti, dal precetto dell'art. 72 del codice penale, richiamato dall'art.80 dello stesso codice, risulta che con la "sanzione suppletiva" dell'isolamento diurno il legislatore ha voluto differenziare la posizione di chi commette un solo reato per il quale è irrogata la pena dell'ergastolo e quella di chi commette prima o dopo la condanna ulteriori reati. Una differenziazione del tutto irrilevante, invece, ai fini della semilibertà con conseguente irrazionale parificazione di due situazioni disomogenee, di fatto prescindendosi, sulla base della norma di cui è stata contestata la legittimità, dalla circostanza che "i più reati commessi in carcere dall'ergastolano non hanno alcuna incidenza di ordine negativo rispetto alla condizione fissata" per "accedere alla semilibertà (il periodo di anni 20 di reclusione)".

Nè potrebbe ragionevolmente farsi appello, per ritenere la legittimità del precetto in questione, ai già richiamati artt. 72 e 80 del codice penale ed alla conseguente previsione di un trattamento più grave in caso di cumulo dell'ergastolo con al tre pene perchè la normativa ora ricordata è rigorosamente ancorata al regime del concorso dei reati e delle pene.

Farne scaturire riverberi ai fini della decorrenza del periodo minimo per usufruire della semilibertà rappresenta una scelta legislativa irrazionale;

al contrario di quanto previsto con riferimento al cumulo di pene temporanee direttamente incidente sul dies a quo è possibile accedere alla misura alternativa.

3. L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 13, prima serie speciale, del 4 marzo 1993.

4. Si è costituito il Rossi, con memoria depositata dal suo difensore avv.G. Cesare Allegra, chiedendo il rigetto della proposta questione.

Viene dedotto, in primo luogo, che il rapporto di specie deve ritenersi "esaurito" e, quindi, sottratto agli effetti di un'eventuale pronuncia d'illegittimità, risultando la posizione del Rossi ormai definita con la sentenza della Corte di cassazione 17 giugno 1991 che, annullando senza rinvio la pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Torino, gli aveva "riconosciuto il diritto di fruire del beneficio della semilibertà, già accordata dal Tribunale di sorveglianza di Milano".

Sotto un analogo profilo, si contesta, poi, l'esistenza di un giudizio davanti ad un'autorità giurisdizionale e, quindi, la condizione richiesta dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per promuovere un giudizio di legittimità; si tratterebbe, cioè, di un procedimento apparente, instaurato solo perchè la Procura Generale di Cagliari aveva del tutto impropriamente rievocato un problema ormai definitivamente risolto dalla ricordata pronuncia della Cassazione.

Con riferimento al merito, si contesta al giudice a quo di avere arbitrariamente equiparato due situazioni nettamente diversificate: quella della persona condannata a pena perpetua e quella della persona condannata a pena temporanea.

5. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Secondo l'Avvocatura, l'addotta violazione del principio di eguaglianza sarebbe del tutto insussistente, comportando la commissione di reati nel corso di esecuzione della pena dell'ergastolo, a norma dell'art. 50, quarto comma, della legge n. 354 del 1975, <un giudizio sfavorevole sui "progressi compiuti" e sul "graduale reinserimento"> ai fini dell'ammissione del detenuto al regime della semilibertà. Con la conseguenza, che l'avere commesso delitti in corso di esecuzione potrà precludere o ritardare per il condannato l'accesso al beneficio in esame.

Considerato in diritto

l. Il giudice a quo dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità dell'art. 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo modificato dall'art. 14 della legge 10 ottobre 1986, n.663, nella parte in cui per i condannati all'ergastolo subordina l'ammissione al beneficio della semilibertà all'espiazione della pena di anni venti di reclusione anche nel caso in cui il condannato abbia riportato ulteriori condanne per reati commessi nel corso dell'esecuzione. Il principio di eguaglianza risulterebbe vulnerato sotto un duplice profilo.

Per l'irragionevole identità di trattamento fra i condannati all'ergastolo che durante l'esecuzione della pena mantengano una condotta irreprensibile e i condannati all'ergastolo che, sempre durante l'esecuzione della pena, continuino a delinquere, entrambi legittimati ad essere ammessi al regime della semilibertà dopo l'espiazione di almeno venti anni di pena. Per l'irragionevole disparità di trattamento tra condannati a pena perpetua e condannati a pena temporanea che delinquano durante l'esecuzione, avendo il legislatore, ai fini dell'accesso al detto beneficio, stabilito per gli uni un periodo di detenzione predeterminato ed immodificabile (appunto, l'espiazione di almeno venti anni di pena), per gli altri, invece, un periodo commisurato all'entità della pena effettivamente inflitta, perchè alla pena irrogata "per il nuovo reato viene sommata quella residua alla data di commissione del nuovo delitto, procedendosi a nuovo cumulo".

2. Il difensore del Rossi si duole preliminarmente, sotto un duplice, ma complementare, ordine di profili, della irritualità della stessa introduzione del giudizio incidentale. Pure se con la detta eccezione ne viene richiesto il rigetto, le censure contestano, in effetti, l'ammissibilità della questione: sia perchè il rapporto esecutivo era da ritenere esaurito a seguito della sentenza della Corte di cassazione del 17 giugno 1991 che, annullando senza rinvio la pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Torino con la quale - stante la sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà - era stata dichiarata la cessazione della misura alternativa concessa dal Tribunale di sorveglianza di Milano;

sia per l'assenza di una delle condizioni richieste dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per promuovere il giudizio di legittimità costituzionale, l'esistenza, cioè, di un vero e proprio procedimento davanti ad un'autorità giurisdizionale, risultando il procedimento a quo instaurato solo perchè la Procura generale presso la Corte di appello di Cagliari aveva, del tutto impropriamente, rievocato, con la nuova operazione di cumulo, una problematica ormai definitivamente risolta dalla Corte di cassazione, in tal modo provocando l'intervento della Corte di assise di appello, che aveva rettificato, in sede di incidente di esecuzione, il detto provvedimento quanto alla decorrenza della pena dell'ergastolo, e la successiva pronuncia del tribunale di sorveglianza.

3. Le eccezioni suddette non possono essere accolte.

Quanto alla legittimazione da parte del giudice a quo a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma che a seguito del giudizio della Corte di cassazione egli sarebbe tenuto ad applicare, appare insuperabile il rilievo che il procedimento a quo deriva dall'operazione di cumulo effettuata, con provvedimento del 9 marzo 1992, dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Cagliari che aveva determinato nel 31 marzo 1982 la data di decorrenza della pena unificata "essendo stati commessi fino al marzo 1982 gli ultimi reati per i quali il Rossi è stato condannato alla pena della reclusione". Il novum rappresentato da detto provvedimento - distinto dalla decisione del Tribunale di sorveglianza chiamato a decidere in ordine alla prosecuzione della semilibertà - ha, quindi, reciso, almeno sul piano formale, ogni legame rispetto alla pronuncia di annullamento della Corte di cassazione, essendo il detto Tribunale tenuto a pronunciarsi, sulla base della nuova operazione di cumulo, circa il permanere del concesso beneficio che, oltre tutto, era stato sospeso dal magistrato di sorveglianza competente con decreto del 17 aprile 1992 emesso a norma dell'art. 51-bis della legge n. 354 del 1975.

L'assoluta autonomia del processo a quo trova poi riscontro nell'esame delle cadenze che concludono la procedura complessiva.

Proposto incidente di esecuzione da parte dell'interessato, il provvedimento da considerare presupposto della pronuncia del Tribunale di sorveglianza va, infatti, individuato nell'ordinanza 23 giugno 1992 con la quale la Corte di assise di appello di Cagliari disponeva rettificarsi il precedente provvedimento di cumulo fissando la data del 26 marzo 1971 quale decorrenza della esecuzione della pena unica dell'ergastolo e, quindi, dell'effettivo inizio della detenzione, provvedimento a cui aveva sùbito fatto seguito un nuovo intervento del Magistrato di Sorveglianza di Novara che aveva ordinato la prosecuzione provvisoria della misura.

Solo successivamente all'ultima ordinanza della Corte cagliaritana, il rimettente ha sollevato la questione di legittimità ora all'esame della Corte. E ciò proprio sul presupposto che il decisum del giudice dell'esecuzione - da ritenere condizione vincolante, ex art. 50, quinto comma, della legge n. 354 del 1975, quanto alle condizioni temporali per la concessione della semilibertà - e la precedente pronuncia della Corte di cassazione avrebbero precluso ogni altra soluzione in merito alla decorrenza del termine per poter conseguire il beneficio.

La diversificazione tra i vari provvedimenti sopra ricordati fa ritenere priva di fondamento anche la seconda eccezione della difesa del Rossi, peraltro intimamente connessa a quella ora presa in esame.

La lamentata introduzione di una sorta di lis ficta e la conseguente dedotta violazione dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, scaturiscono, infatti, da una non corretta identificazione del provvedimento del Tribunale di sorveglianza con il provvedimento della Corte di assise di appello in sede di cumulo. Infatti, solo sull'uno e non anche sull'altro si era pronunciata la Corte di cassazione, donde la legittimità del giudizio successivamente instaurato dal giudice a quo, peraltro direttamente derivante dall'incidente di esecuzione proposto dalla parte privata.

4. L'Avvocatura Generale dello Stato, nel suo atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha concluso per l'inipotizzabilità di qualsivoglia violazione del principio di eguaglianza; e ciò perchè la commissione di reati nel corso dell'esecuzione della pena dell'ergastolo comporta comunque, alla stregua del precetto dell'art. 50, quarto comma, della legge n. 354 del 1975, un giudizio sfavorevole sui progressi compiuti e sul graduale reinserimento del detenuto al regime della semilibertà; con la conseguenza che l'avere commesso delitti nel corso dell'esecuzione della pena perpetua potrebbe precludere o ritardare per il condannato l'accesso al beneficio.

Il rilievo non appare decisivo per la soluzione della questione di legittimità ora sottoposta all'esame della Corte. La concessione della misura prevista dall'art. 50 della legge n. 354 del 1975 può risultare certamente condizionata, nella formulazione del giudizio in ordine alla evoluzione positiva del trattamento penitenziario - un presupposto da ritenere indefettibile e, quindi, da enuclearsi in termini di assoluta certezza - dal titolo e dalla gravità del reato in ordine al quale è intervenuta condanna e che non possono non rappresentare l'incipit di ogni verifica riguardante l'attuale personalità del condannato, quindi, per accertarne anche i progressi e la idoneità al reinserimento. Ma, secondo il pressochè costante indirizzo giurisprudenziale, una simile verifica assume, nell'integrale contesto valutativo, un ruolo secondario ed indiretto, destinato ad essere comunque sovrastato dal concreto giudizio quanto ai progressi compiuti nel trattamento personalizzato e quanto all'idoneità del lavoro da intraprendere. Tale linea interpretativa, se riduce la valenza del fattore gravità (salvo per gli aspetti che saranno fra poco precisati) quando ci si trovi di fronte ad una pluralità di condanne da cumulare alla pena della reclusione appare assolutamente inidoneo ad estendersi ai casi in cui il computo della pena complessiva debba effettuarsi in presenza di una condanna all'ergastolo.

Ciò pare confermato dal disposto dell'art. 51-bis della legge n. 354 del 1975, quale inserito dall'art. 15 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, che, in relazione alla sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà, introduce una particolare procedura al fine di verificare la sussistenza delle condizioni per il protrarsi (anche) del beneficio della semilibertà. Una disposizione riferibile (per il suo espresso richiamo "ai primi tre commi dell'articolo 50") esclusivamente al condannato a pena temporanea perchè solo nei confronti di quest'ultimo può effettuarsi quell'accertamento che, considerato il periodo di pena già espiato in semilibertà e la quantità di pena da espiare in forza dei nuovi titoli di detenzione, consente di disporre nel senso della prosecuzione o della sospensione del beneficio. Il tutto a prescindere dalle concrete vicende che hanno preceduto il processo a quo nel quale i reiterati interventi del magistrato di sorveglianza hanno finito per introdursi come momenti vincolati dai contrastanti provvedimenti di cumulo funzionali proprio alle determinazioni circa i benefici penitenziari, restando la misura della pena da espiare comunque ancorata al precetto dell'art. 72 del codice penale.

Il che comprova come le deduzioni dell'Avvocatura non attengano al petitum effettivamente perseguito dal giudice a quo, il quale, non tenendo in alcuna considerazione, anzi, col dare per scontata, così seguendo un procedimento interpretativo rigorosamente conforme alla lettera della legge, la permanenza delle condizioni previste dai primi tre commi dell'art. 50 della legge n. 354 del 1975 - una valutazione, peraltro, già implicitamente compiuta prima della operazione di cumulo dal Tribunale di sorveglianza di Milano nel provvedimento concessivo della misura - si duole esclusivamente dell'assoluta irrilevanza, ai fini della determinazione del periodo utile per accedere alla semilibertà, della durata delle pene inflitte per reati commessi nel corso della esecuzione della pena perpetua.

5. Senonchè la questione, così come proposta, risulta inammissibile.

Il giudice a quo, rilevata l'indubbia diversità di situazioni ravvisabile tra condannati all'ergastolo che tengano una irreprensibile condotta durante l'esecuzione e condannati alla stessa pena che nel corso dell'esecuzione pongano in essere fatti di rilevanza penale, imputa una simile irragionevole identità di trattamento normativo al precetto denunciato. Un'operazione che se, peraltro, non appare del tutto impropria ove si consideri che è l'art.50, quinto comma, della legge n. 354 del 1975 a consentire l'ammissione al beneficio della semilibertà del condannato all'ergastolo che abbia espiato almeno venti anni di pena, si rivela però lacunosa, derivando il particolare regime assegnato al condannato a pena perpetua anche dalla disciplina sostanziale del concorso di reati: più in particolare, dall'art.72 c.p. che assoggetta il colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell'ergastolo, alla detta pena con isolamento diurno da sei mesi a tre anni (primo comma), e nel caso di concorso di un delitto che importi la pena dell'ergastolo con uno o più delitti che importino pene detentive temporanee per un tempo superiore a cinque anni, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un periodo di tempo da due a diciotto mesi (secondo comma).

Pure se il petitum avuto di mira dal rimettente non si estende a coinvolgere anche il precetto contenuto nella ora ricordata disposizione del codice penale, l'operazione così effettuata sta però univocamente a dimostrare come una delle soluzioni possibili per pervenire a cancellare dall'ordinamento la certo innegabile ingiustificata identità di trattamento lamentata dal giudice a quo potrebbe scaturire proprio dal riassetto, quanto mai opportuno, della normativa di diritto sostanziale, anche apprestando un opportuno coordinamento con la disciplina del cumulo di pene temporanee. Del che appare perfettamente consapevole lo stesso rimettente quando evoca il trattamento riservato al condannato a pena temporanea, sia pure accostandolo, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, alla identità di trattamento tra condannati all'ergastolo nei confronti dei quali sopravvengano nuovi titoli di detenzione e condannati all'ergastolo nei confronti dei quali permanga la sola pena originaria in corso di espiazione.

Ma, in tal modo, il rimettente evidenzia implicitamente un tertium comparationis non omogeneo rispetto alla norma di cui si contesta la legittimità. Come egli stesso riconosce, infatti, l'art. 50, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, resta intimamente collegato all'art. 78 del codice penale ed alla disciplina di diritto sostanziale dei limiti agli aumenti delle pene temporanee: in particolare, al primo comma, numero 1, di tale articolo, a norma del quale nel caso di concorso di reati la pena da applicare non può eccedere i trenta anni per la reclusione.

Il fatto che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, il detto limite non è superabile solo ove ci si trovi in presenza di pene inflitte per reati commessi prima dell'inizio della detenzione, mentre nel caso in cui durante l'espiazione di una determinata pena o dopo che l'esecuzione di questa è stata interrotta venga commesso un ulteriore reato deve procedersi ad un ulteriore cumulo comprendendo in esso, oltre alla pena inflitta per il nuovo reato, soltanto la parte della pena risultante dal cumulo precedente, non ancora espiata alla data del nuovo reato e determinando la decorrenza del nuovo cumulo dalla data dell'ulteriore reato ovvero da quella del successivo arresto (a seconda che il nuovo reato sia stato commesso durante l'espiazione della pena precedente ovvero dopo la sua interruzione) non vale a spostare i termini della questione.

E ciò perchè non può davvero dubitarsi che una simile conclusione deriva dalla sola interpretazione dell'art. 78 c.p., donde scaturisce esclusivamente come effetto indotto una lettura dell'art. 50, secondo comma, della legge n. 354 del 1975 (e, quindi, anche dell'art. 51-bis della stessa legge) nel senso che nel caso di cumulo di pene temporanee occorre procedere alla rideterminazione del termine utile per accedere alla semilibertà.

Un identico epilogo il giudice a quo tenderebbe a perseguire anche per il condannato all'ergastolo, ma, nonostante la constatazione che "il successivo reato commesso dall'ergastolano è sanzionato sul piano penale a norma dell'art. 72, ultimo comma, C.P.", risulta evidente come il richiamo alla disciplina sostanziale per farne derivare effetti analoghi a quelli riguardanti il concorso di pene temporanee relativamente al regime della semilibertà si rivela operazione non univoca al fine di scongiurare la lesione del principio di eguaglianza perchè, a differenza di quanto avviene per la pena della reclusione, rispetto alla quale le condizioni temporali per l'accesso al beneficio derivano direttamente dall'art. 78 del codice penale, per la pena dell'ergastolo non è possibile istituire una disciplina assolutamente simmetrica, operando il diverso criterio non solo quantitativo ma anche qualitativo fissato dall'art. 72 dello stesso codice.

Proprio la stretta derivazione della normativa penitenziaria dalla normativa codicistica ravvisabile - almeno stando alla corrente interpretazione giurisprudenziale - a differenza di ciò che avviene per la pena perpetua, con riferimento alla pena temporanea, sta a dimostrare come la disciplina additata dal giudice a quo non possa ritenersi la so la in grado di far fronte ai due profili di violazione del principio di eguaglianza denunciati.

Operando, infatti, nell'esclusivo schema dell'istituto della semilibertà, la riconduzione a ragionevolezza del regime censurato potrebbe realizzarsi attraverso interventi legislativi di diversa complessità sulla sola normativa penitenziaria ovvero sulla normativa penitenziaria e la normativa sostanziale insieme, così da stabilire un periodo anche determinato, ma in base a canoni conformi a ragionevolezza, entro il quale la intervenuta commissione di reati nel corso dell'esecuzione della pena perpetua possa spostare il giorno di decorrenza - sempre alle condizioni stabilite dall'art. 50, quarto comma, della legge n. 354 del 1975 - dell'ammissione al beneficio.

6. Le indicazioni ora prospettate, tutte convergenti nell'esigenza di rimuovere la situazione di privilegio ai fini dell'accesso al beneficio della semilibertà del condannato all'ergastolo che continui a delinquere, rendono evidente come non sia individuabile, sul punto, una soluzione costituzionalmente obbligata; provvedere ad una domanda di tal genere implicherebbe conseguentemente una scelta discrezionale che eccede dai poteri di questa Corte, rientrando nella esclusiva competenza del legislatore (v. proprio nella subiecta materia, le sentenze n. 270 del 1993 e n. 274 del 1983).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Sorveglianza di Torino con ordinanza del 5 gennaio 1993.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/11/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

epositata in cancelleria il 18/11/93.