Sentenza n. 349 del 1993

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SENTENZA N. 349

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 41 bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'Ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art.19 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n. 6 ordinanze emesse il 9 gennaio 1993 dal Tribunale di sorveglianza di Ancona, iscritte ai nn. 106, 107, 175, 176, 177 e 178 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 11 e 18, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. Con due ordinanze di identico contenuto, entrambe emesse il 9 gennaio 1993, il Tribunale di sorveglianza di Ancona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 41 bis, secondo comma, della legge sull'Ordinamento penitenziario, in riferimento agli artt. 13, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.

 

Il giudice a quo, chiamato a deliberare in merito ad alcuni reclami proposti avverso l'applicazione del regime detentivo di cui al citato art. 41 bis, dopo aver affermato, in seguito ad ampia disamina, sia la propria giurisdizione che la propria competenza, ritiene che la normativa introdotta della norma impugnata (improntata all'esigenza di predisporre un trattamento di particolare rigore nei confronti di detenuti che, in ragione del reato loro ascritto, appaiono forniti di un elevato grado di pericolosità sociale) sia, sotto diversi profili, confliggente con i parametri costituzionali prima indicati.

 

l.2. In primo luogo, premesso che la tutela prevista dal secondo comma dell'art. 13 della Costituzione si sostanzia in una riserva di legge e in una riserva di giurisdizione sul diritto alla libertà personale, il remittente ritiene che il concreto contenuto precettivo del regime introdotto dalla disposizione in esame comporti una restrizione della libertà personale riconducibile alla citata tutela costituzionale: il detenuto sottoposto a tale regime detentivo vede ulteriormente compressi i propri spazi residui di libertà personale (permanenza all'aria aperta, possibilità di esperire attività lavorativa artigianale per conto proprio e per conto terzi, acquisto di generi alimentari, colloqui con i familiari, sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo, possibilità di ricevere pacchi dall'esterno, ecc.) rispetto a ciò che costituisce il trattamento ordinario. Il fatto che tali restrizioni vengano applicate da un atto della pubblica amministrazione (nella specie: dell'amministrazione penitenziaria) senza che sia previsto un intervento, neanche in via di ratifica, dell'Autorità giudiziaria, costituisce, ad avviso del remittente, un evidente contrasto con il disposto del secondo comma dell'art.13 della Costituzione.

 

l.3. Inoltre, premesso che il principio di rieducazione della pena sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, va correttamente inteso come finalizzazione dell'esecuzione penale al raggiungimento del reinserimento sociale del reo, il Tribunale di sorveglianza di Ancona ravvisa un'ulteriore illegittimità della disciplina in esame per la sottoposizione di alcuni detenuti, selezionati quasi semplicemente in base al titolo di reato, ad un regime indiscriminatamente sanzionatorio, ispirato ad un ottica di mera neutralizzazione, contrastante, per di più, anche con il principio di individualizzazione dell'esecuzione penale.

 

Per altro verso, prosegue il remittente, la violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, viene anche in rilievo considerando che la sospensione delle regole di trattamento per un tempo indubbiamente rilevante (tre anni decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di con versione del decreto legge n. 306 del 1992) implica la rinunzia a qualsivoglia intervento dello Stato inteso a rimuovere le cause del disadattamento sociale; proprio ciò cui dovrebbe tendere, invece, il trattamento rieducativo, che costituisce un vero e proprio diritto del condannato.

 

2.l. Il medesimo art. 41 bis, secondo comma, viene impugnato con censure sostanzialmente identiche (pur se riferite formalmente anche al primo comma dell'art. 13 della Costituzione e non solo al secondo) dal medesimo Tribunale remittente con altre tre ordinanze pronunciate il 9 gennaio 1993.

 

3.l. Con un'ultima ordinanza emessa il 9 gennaio 1993 il Tribunale di sorveglianza di Ancona, dopo aver reiterato i dubbi di costituzionalità sulla citata norma in riferimento al principio rieducativo della pena sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, solleva ulteriori censure, in riferimento agli artt. 15, secondo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione.

 

3.2. Sussisterebbe, in primo luogo, la violazione dell'art. 15, secondo comma, della Costituzione, in quanto la disposizione impugnata, sospendendo la vigenza delle norme dell'Ordinamento penitenziario in ordine al visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti, esclude il motivato provvedimento del magistrato di sorveglianza. Rileva il giudice remittente che il provvedimento ministeriale emesso in applicazione della norma impugnata prevede, tra l'altro, la sottoposizione della corrispondenza epistolare e telegrafica del detenuto direttamente al visto di controllo da parte del direttore dell'Istituto penitenziario; il che rappresenterebbe un evidente contrasto con la invocata norma costituzionale, la quale prevede che una tale limitazione possa avvenire solo per atto motivato dall'Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

 

3.3. Infine, posto che il combinato disposto degli artt.97 e 113 della Costituzione richiede una esauriente motivazione dell'atto amministrativo, al fine di consentire al destinatario la possibilità di tutelare diritti ed interessi in via giurisdizionale, può configurarsi, ad avviso del giudice a quo, anche la violazione dei suddetti parametri costituzionali in quanto nei provvedimenti applicativi del regime detentivo previsto dal secondo comma dell'art. 41 bis tale motivazione risulterebbe del tutto assente.

 

4.1. É intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza (rectius: inammissibilità) della questione.

 

La difesa del governo ritiene che, nella materia in esame, non sussista la giurisdizione nè la competenza del Tribunale di sorveglianza.

 

4.2. In tema di giurisdizione, rileva l'Avvocatura, il provvedimento ministeriale ex art. 41 bis, secondo comma, della legge n. 354 del 1976 non andrebbe ad incidere su di un diritto di libertà pieno ma si inserirebbe in una situazione in cui tale diritto già risulta compresso.

 

Le misure adottate con detto provvedimento non sarebbero qualcosa di qualitativamente diverso rispetto ad altre, "ordinarie", che caratterizzano la detenzione. Potrebbe anzi affermarsi che tale atto concorre ad individuare il complessivo regime di vita penitenziario del detenuto, insieme ed al pari di tutte le misure previste da altre disposizioni: il detenuto è sottoposto ad una serie di limitazioni della libertà personale tra le quali è possibile che vi siano, a certe condizioni, anche quelle previste dalla norma impugnata.

 

In conclusione, poichè il ricorso nei confronti del provvedimento ministeriale porta a sindacare le concrete modalità di esercizio di un potere riconosciuto per legge alla pubblica amministrazione, si dovrebbe concludere nel senso della giurisdizione del giudice amministrativo.

 

4.3. Qualora si volesse seguire una diversa linea di ragionamento, prosegue l'Avvocatura, possono sussistere dubbi anche sulle conclusioni cui il giudice remittente è pervenuto in tema di competenza.

 

Nell'ordinanza si richiama, a fondamento della affermata competenza del Tribunale di sorveglianza, la possibilità di applicazione analogica della disciplina della sorveglianza particolare, nel cui ambito è regolamentato il procedimento di reclamo dei relativi provvedimenti.

 

I presupposti e le fasi procedimentali del regime di sorveglianza particolare sarebbero però diversi da quelli previsti dall'art. 41 bis, per cui dovrebbe dubitarsi della possibilità di fare ricorso allo strumento dell'analogia, ed inoltre sembrerebbe ravvisabile, nelle norme dell'Ordinamento penitenziario, l'attribuzione di una competenza generale a conoscere dei reclami dei detenuti, non al Tribunale, bensì al Magistrato di sorveglianza.

 

Considerato in diritto

 

1.1. Il Tribunale di sorveglianza di Ancona, con sei ordinanze di contenuto in parte identico, in parte strettamente connesso, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 41 bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull'Ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

 

Tale norma, introdotta dall'art. 19 del decreto- legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n.356, attribuisce al Ministro di grazia e giustizia, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluni delitti, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dallo stesso Ordinamento penitenziario.

 

1.2. Poichè i provvedimenti di rimessione investono, sotto profili in larga parte coincidenti, la medesima norma di legge, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

 

2.1. La questione è stata sollevata nel corso di alcuni giudizi, avanti il Tribunale di sorveglianza di Ancona, sui reclami proposti da alcuni detenuti avverso i decreti del Ministro di grazia e giustizia che, in attuazione della norma impugnata, hanno disposto un regime detentivo di particolare rigore nei loro confronti rispetto al regime detentivo ordinario: in particolare, i decreti ministeriali restringono la possibilità di colloqui, anche telefonici, con i familiari e vietano quelli con persone diverse; sospendono i colloqui premiali; dispongono che la corrispondenza in partenza o in arrivo sia sottoposta a visto di controllo; restringono la permanenza all'aria aperta a non più di due ore al giorno; proibiscono lo svolgimento di attività artigianali per conto terzi, e pongono varie altre restrizioni sugli acquisti all'interno dell'istituto penitenziario, sulla ricezione di pacchi o di somme di denaro, e sullo svolgimento, in genere, delle attività volte alla realizzazione della personalità dei detenuti.

 

2.2. Ad avviso dei giudici remittenti la disciplina introdotta dalla norma impugnata - anche al di là dell'attuazione che in concreto ne è stata data - esprime potenzialità applicative tali da porre sostanzialmente nel nulla un eventuale iter rieducativo già positivamente intrapreso dal detenuto e, pertanto, si pone in contrasto:

 

- con l'art. 13, primo e secondo comma, della Costituzione, in quanto attribuisce al Ministro di grazia e giustizia (anzichè all'Autorità giudiziaria) il potere, mediante la sospensione totale o parziale dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall'Ordinamento penitenziario, di introdurre nei confronti dei detenuti ulteriori restrizioni della libertà personale;

 

- con l'art. 15, secondo comma, della Costituzione, perchè, sospendendo la vigenza delle norme dell'Ordinamento penitenziario in materia di corrispondenza dei detenuti (art. 18, settimo comma), esclude il motivato provvedimento del Magistrato di sorveglianza in ordine al visto di controllo;

 

- con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto implica trattamenti penali contrari al senso di umanità, non ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non "individualizzati" ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di reclusi selezionati solo in base al titolo di reato;

 

- con gli artt. 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, per la mancanza di un'esauriente motivazione del provvedimento applicativo del più rigoroso regime penitenziario, il che non consentirebbe al destinatario la possibilità di tutelare in modo adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale.

 

3.1. L'Avvocatura dello Stato eccepisce pregiudizialmente l'inammissibilità della questione per difetto di giurisdizione e di competenza del giudice remittente.

 

Ritiene la difesa del Governo che i diritti di libertà del detenuto siano diritti già "affievoliti" o "compressi" dalla sentenza di condanna a pena detentiva, e pertanto l'oggetto dei giudizi a quibus risulterebbe essere il concreto esercizio di un potere riconosciuto per legge alla pubblica amministrazione; potere sottoposto, in quanto tale, al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo. Inoltre, neppure la competenza del Tribunale di sorveglianza potrebbe essere affermata, dovendosi riconoscere al Magistrato di sorveglianza, e non al Tribunale, una competenza generale a decidere sui reclami dei detenuti.

 

3.2. Sulla base del costante orientamento di questa Corte l'eccezione non può essere accolta (v., da ultimo, sentt. nn. 163 e 288 del 1993).

 

Stante l'autonomia del giudizio di costituzionalità rispetto a quello dal quale proviene la questione sollevata, la Corte, in sede di verifica dell'ammissibilità, può rilevare il difetto di giurisdizione, o di competenza, del giudice a quo soltanto nei casi in cui questo appaia macroscopico, così che nessun dubbio possa aversi sulla sussistenza di quel vizio. Nel caso in esame, al contrario, tutti i giudici a quibus hanno ritenuto, sulla base di un'ampia motivazione, sia la propria giurisdizione che la propria competenza, e ciò non contrasta con consolidata giurisprudenza, di merito o di legittimità, in diverso avviso; può anzi riscontrarsi un convergente orientamento della giurisprudenza amministrativa sull'assoluto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia in esame. Devono quindi rimanere ferme le valutazioni compiute dai giudici remittenti in ordine alla legittima instaurazione dei giudizi a quibus.

 

4.1. Nel merito, la questione, sotto tutti i profili sollevati, è infondata nei sensi di seguito esposti.

 

Alcune premesse di ordine generale si rendono necessarie per definirne con chiarezza i termini.

 

4.2. Va tenuto fermo, in primo luogo, che la tutela costituzionale dei diritti fondamentali dell'uomo, ed in particolare la garanzia della inviolabilità della libertà personale sancita dall'art. 13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni che, com'è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta (v. sentt. n. 204 del 1974, n. 185 del 1985, n. 312 del 1985, 374 del 1987, n. 53 del 1993).

 

Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che, dal principio accolto nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", discende direttamente quale ulteriore principio di civiltà che a colui che subisce una condanna a pena detentiva "sia riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalità umana che la pena non intacca" (v. sent. n. 114 del 1979).

 

In breve, la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale.

 

Da ciò consegue che l'adozione di eventuali provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale, può avvenire soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.

 

4.3. A fronte della posizione giuridica soggettiva del detenuto vi è, d'altro lato, l'opposto potere di coazione personale di cui lo Stato è titolare al fine della difesa dei cittadini e dell'ordine giuridico; potere che, durante la fase di espiazione della pena, comporta l'assoggettamento alle regole previste dall'Ordinamento penitenziario, le quali definiscono i rapporti fra l'Amministrazione - cui compete la responsabilità della custodia, del trattamento e della sicurezza dell'istituzione penitenziaria - gli individui assoggettati al regime di detenzione e di rieducazione prescritto, e l'Ordine giudiziario cui spetta istituzionalmente l'attuazione della potestà punitiva dello Stato e il controllo sull'esecuzione della pena.

 

Poichè i diritti inviolabili dell'uomo, fra cui quello alla libertà personale, rispondono ad un principio di valore fondamentale che ha carattere generale, la loro limitazione o soppressione (nei soli casi e modi previsti dalla Costituzione, o per i quali è disposta una riserva di legge) ha carattere derogatorio ad una regola generale e, quindi, presenta natura eccezionale: è questo il motivo per cui le norme che siano suscettibili di incidere ulteriormente su tali diritti, previste dall'Ordinamento penitenziario (che è appunto un tipico ordinamento derogatorio), non possono essere applicate per analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo.

 

5.1. Quanto ora esposto consente di riassumere alcuni punti fermi in materia.

 

L'Amministrazione penitenziaria può adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della pena (rectius: della detenzione), che non eccedono il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna, e che naturalmente rimangono soggetti ai limiti ed alle garanzie previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27, terzo comma), ed al diritto di difesa (art.24).

 

Ma è certamente da escludere che misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali), e che perciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto, possano essere adottate al di fuori dei principi della riserva di legge e della riserva di giurisdizione specificamente indicati dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.

 

Misure di tal genere - è bene sottolinearlo - devono uniformarsi anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere improntata; principi, questi ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (cfr. sentt. n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991) - nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sentt. n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993) - ed implicano anch'essi l'esercizio di una funzione esclusivamente propria dell'ordine giudiziario.

 

5.2. É questo un vero e proprio limite di competenza funzionale dell'Amministrazione, che - come si è visto - è direttamente conseguente alla natura dei poteri esercitati e costituisce un criterio generale già presente nello stesso Ordinamento penitenziario.

 

Vi è infatti una distinzione sostanziale tra modalità di trattamento del detenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la cui applicazione è demandata di regola all'Amministrazione, anche se sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (v. art. 69 Ordinamento Penitenziario), o con possibilità di reclamo al Tribunale di sorveglianza (v. art. 14 ter Ordinamento Penitenziario) - e misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori dal carcere (previste, per lo più, al Capo VI del Titolo I dell'Ordinamento Penitenziario, "Misure alternative alla detenzione": affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione anticipata, licenze; ma anche l'assegnazione al lavoro esterno o i permessi premio previsti al Capo III) le quali sono sempre di competenza dell'Autorità Giudiziaria (v. artt.21, 30, 30 ter, 69 e 70 dell'Ordinamento penitenziario) proprio perchè incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di libertà personale del detenuto.

 

5.3. Alla luce di tali principi la norma in esame può essere interpretata in modo aderente al dettato costituzionale.

 

Posto infatti che i giudici remittenti lamentano, in sostanza, che il secondo comma dell'art. 41 bis attribuisca al Ministro di grazia e giustizia la facoltà di incidere (in peius) sulla pena e sul grado di libertà personale del detenuto, la censura non risulta fondata in quanto la corretta lettura della norma (in base ai principi costituzionali prima indicati ed al canone ermeneutico rigorosamente restrittivo delle norme di carattere eccezionale) non può che limitare il potere attribuito al Ministro alla sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti che già nell'Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto.

 

Eventuali variazioni di tale regime possono comportare evidentemente un maggiore o minore contenuto afflittivo per chi ad esse è assoggettato, proprio perchè un certo grado di flessibilità può rivelarsi necessario sia ai fini di rieducazione del detenuto che per l'ordine e la sicurezza interni (dovendosi del pari prendere atto che la realtà di ogni istituzione penitenziaria comprende anche la presenza di soggetti refrattari a qualsiasi trattamento riabilitativo, ed anzi così spiccatamente pericolosi da rendere indispensabile la possibilità di un regime differenziato nei loro confronti), ma nel novero delle misure attualmente previste dall'Ordinamento penitenziario esse non esulano dall'ambito delle modalità di esecuzione di un titolo di detenzione già adottato con le previste garanzie costituzionali.

 

Vero è che la norma in esame, certamente di non felice formulazione, sembra comprendere indistintamente nella sua amplissima enunciazione tutte le regole di trattamento e gli istituti previsti dall'Ordinamento penitenziario, ivi comprese quindi le misure alternative alla detenzione e l'assegnazione al lavoro esterno o i permessi e le licenze. Ma una simile interpretazione va esclusa non solo per le ragioni prima indicate, ma anche perchè nello stesso testo della legge (e va qui presa in considerazione la legge 7 agosto 1992 n. 356, con la quale è stato aggiunto il secondo comma in esame all'art. 41 bis della legge n. 354 del 1975) allorquando il legislatore ha inteso far riferimento anche alle misure extramurali le ha sempre specificamente indicate (cfr. art. 15 della legge n. 356 cit., che modifica l'art. 4 bis della legge n. 354 cit.), mai accomunandole alle regole di trattamento previste nel testo dell'Ordinamento penitenziario.

 

6.1. Individuati quindi i corretti limiti dei poteri attribuiti al Ministro, tutte le censure prospettate dai giudici remittenti risultano o infondate o non riferibili alla norma impugnata ma solo ai provvedimenti che di questa hanno fatto applicazione: ed invero, per quanto sin qui esposto, il secondo comma dell'art. 41 bis non consente l'adozione di provvedimenti suscettibili di incidere sul grado di libertà personale del detenuto, e quindi non viola l'art. 13, primo e secondo comma, della Costituzione; del pari nulla è rinvenibile nella disposizione in esame che attribuisca al Ministro una specifica competenza in ordine alla sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza dei detenuti, e che costituisca quindi deroga all'art.18 dell'Ordinamento penitenziario (che, come si è visto, riserva tale potere al giudice), e, quindi, elusione della garanzia d'inviolabilità delle comunicazioni sancita dall'art. 15 della Costituzione; così come (a parte la perplessità che può destare l'individuazione per titoli di reato dei destinatari finali dei provvedimenti, non coerente con il principio di individualizzazione della pena) deve ritenersi implicito - anche in assenza di una previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi generali dell'ordinamento - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti (in modo da consentire poi all'interessato un'effettiva tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti contrari al senso di umanità, e, infine, che debbano dar conto dei motivi di un'eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena.

 

7. É opportuno, infine, sottolineare che le medesime ragioni che consentono di escludere l'illegittimità costituzionale della norma in esame, delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il portato con il richiamo a principi generali dell'ordinamento, conducono anche alla conclusione che taluni dei rilievi espressi dai giudici remittenti, pur se rivolti avverso la citata disposizione dell'art. 41 bis, non trovano la loro causa nella norma di legge bensì - come si è già visto - nel solo provvedimento ministeriale di applicazione.

 

In base a tutte le ragioni sin qui esposte, anche tali provvedimenti, come del resto esattamente ritengono le stesse ordinanze di rimessione, sono certamente sindacabili dal giudice ordinario, il quale, in caso di reclamo, eserciterà su di essi il medesimo controllo giurisdizionale che l'Ordinamento penitenziario gli attribuisce in via generale sull'operato dell'Amministrazione penitenziaria e sui provvedimenti comunque concernenti l'esecuzione delle pene (cfr. sent. n. 53 del 1993).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41 bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull'Ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 15, secondo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Ancona con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/06/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Mauro FERRI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 28/07/93.