Ordinanza n. 326 del 1993

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ORDINANZA N. 326

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 118 (Attuazione delle direttive n.81/602/CEE, n. 85/358/CEE, n. 86/469/CEE, n. 88/146/CEE e n. 88/299/CEE relative al divieto di utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica e ad azione tireostatica nelle produzioni animali, nonchè alla ricerca di residui negli animali e nelle carni fresche), promosso con ordinanza emessa il 1° ottobre 1992 dal Tribunale di Mantova nel procedimento penale a carico di Pedrazzoli Maria, iscritta al n. 14 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

uditi nella camera di consiglio del 5 maggio 1993 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

 

Ritenuto che nel corso di un procedimento penale a carico di persona imputata del reato previsto dall'art. 440 del codice penale, per avere, in qualità di titolare di azienda agricola, "corrotto ed adulterato sostanze destinate all'alimentazione, nella specie carni bovine, prima che venissero distribuite per il consumo, in particolare somministrando ai bovini del proprio allevamento sostanze estrogene ed anabolizzanti al fine di ottenere un illecito accrescimento ponderale e così rendendole pericolose per la salute pubblica", il Tribunale di Mantova ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 118;

 

che il tribunale remittente osserva: a) che, nel caso specifico, la condotta incriminata è consistita nella somministrazione agli animali di dietilstilbestrolo (D.E.S.), sostanza stilbenica; b) che, secondo quanto riferito in sede di perizia, la suddetta sostanza è universalmente riconosciuta, dalla scienza medica, come fattore ad elevatissima azione cancerogenetica; c) che la condotta in giudizio deve ritenersi attualmente sanzionata esclusivamente dal denunziato art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992, il quale punisce a titolo di contravvenzione, con la pena dell'arresto da uno a tre anni e dell'ammenda da dieci a cento milioni di lire per ciascun animale trattato, il fatto di somministrare ad animali "da azienda" (quali definiti nell'art. 1 dello stesso decreto legislativo: animali allevati per essere destinati all'alimentazione umana), sotto qualunque forma e per qualunque via, sostanze stilbeniche; d) che, pertanto, stante il principio di specialità di cui all' art.15 del codice penale, la disposizione incriminatrice applicabile al fatto è quella recata dalla norma denunziata, giacchè la somministrazione di prodotti stilbenici ad animali destinati all'alimentazione umana rientrerebbe nell'ambito della generale condotta di adulterazione di sostanze destinate all'alimentazione prima della distribuzione per il consumo (art. 440 c.p.), di cui costituirebbe appunto una specificazione;

 

che, sulla base di tali rilievi, il tribunale remittente ritiene che la norma denunziata si ponga in contrasto con il principio di eguaglianza: il legislatore, con essa, per un verso avrebbe riservato ad una condotta specifica un trattamento punitivo ingiustificatamente favorevole rispetto a quello previsto, per analoghe condotte, dall'incriminazione del codice penale, per altro verso avrebbe introdotto, con siffatto trattamento di favore, un elemento di evidente irragionevolezza, avuto riguardo alla spiccata nocività delle sostanze stilbeniche, a fronte del permanere di un trattamento sanzionatorio più severo con riguardo a condotte di adulterazione attraverso l'impiego di additivi meno dannosi del D.E.S.;

 

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, tramite l'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo una pronuncia di inammissibilità - per i profili che saranno in prosieguo specificati - o di infondatezza della questione.

 

Considerato che l'eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dall'Avvocatura erariale, va disattesa sotto tutti i profili dedotti;

 

che, infatti, per un primo profilo la valutazione in termini di minore gravità complessiva del trattamento punitivo introdotto con l'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n.118 del 1992, rispetto a quello delineato dall'art. 440 del codice penale, in rapporto alla fattispecie concreta e in riferimento alla regola dell'applicazione della legge penale più favorevole all'imputato, a norma dell'art. 2 del codice penale, costituisce un enunciato - implicito - di ordine interpretativo che, in quanto attinente alla rilevanza in concreto della questione, compete al giudice a quo e non è sindacabile da questa Corte se non nell'ipotesi di manifesta arbitrarietà dell'interpretazione offerta (ex plurimis, sentenze nn. 238 e 103 del 1993), il che non si verifica nella specie;

 

che, sotto altro profilo, l'assunto dell'Avvocatura circa l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale per cui sarebbe una disposizione diversa dall'art. 440 del codice penale a venire in gioco quale termine di comparazione della lamentata incostituzionalità, risulta non conferente, tenuto conto del rinvio, nella giurisprudenza richiamata dall'Avvocatura, a fattispecie relative alla commercializzazione di sostanze alimentari adulterate, mentre il giudice a quo ha riguardo ad una differente ipotesi di adulterazione di dette sostanze prima della distribuzione per il consumo;

 

che, infine, neppure può essere condivisa la tesi dell'irrilevanza della questione sotto il profilo del rispetto, da parte della norma denunziata, dei principi recati dalla normativa delegante - art. 2, lett d) e art. 65 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 - cosicchè dovrebbe essere, secondo l'Avvocatura, quest'ultima ad essere sottoposta a scrutinio di costituzionalità: difatti tale asserzione non rileva nel senso della inammissibilità della questione, che è proposta contro la norma da cui, direttamente ed immediatamente, deriva il trattamento penale che il remittente assume lesivo del precetto costituzionale;

 

che, quanto al merito della questione, la prospettazione del giudice a quo si basa sulla premessa per cui, in relazione alla condotta di somministrazione di sostanze stilbeniche ad animali desti nati all'alimentazione umana, alla disposizione incriminatrice dell'art. 440 del codice penale sarebbe succeduta quella dell'art. 3,comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992, ond'è che, in applicazione del principio di specialità di cui all'art. 15 del codice penale, solo la seconda troverebbe applicazione rispetto a quella condotta;

 

che, in tal modo, si sarebbe creata una disparità di trattamento, essendo punito con minor rigore, a termini della norma denunziata, chi somministra ad animali da allevamento sostanze cancerogene, come quelle stilbeniche, rispetto a chi effettua la somministrazione di altre - in ipotesi meno pericolose - sostanze, ed è assoggettato alle pene previste dall'art. 440 del codice penale;

 

che la premessa intepretativa del giudice a quo non può essere condivisa da questa Corte, in quanto le ricordate disposizioni incriminatrici sono diverse e presentano differenti ambiti applicativi, e ciò in ragione dei connotati fondamentali delle fattispecie penali in parola;

 

che, in particolare, oltre alla diversità di tipo di illecito (delitto e contravvenzione, rispettivamente) e al conseguente diverso atteggiarsi dell'elemento soggettivo richiesto nei due casi, la differente struttura delle due ipotesi incriminatrici in argomento si manifesta in primo luogo nella delimitazione e specificazione del requisito della condotta, che, nella fattispecie contravvenzionale denunziata, è individuata dal legislatore attraverso l'indicazione operativa dalla semplice "somministrazione" di sostanze stilbeniche, con il che il reato è per ciò solo perfezionato, mentre nella previsione delittuosa dell'art. 440 del codice penale, presa a termine di raffronto, consiste nell'attività di "chiunque corrompe o adultera... sostanze destinate all'alimentazione", onde la fattispecie comporta un effetto ulteriore di alterazione della natura genuina delle sostanze, rispetto alla sola somministrazione;

 

che, inoltre, la distinzione tra i due illeciti si incentra, in stretta correlazione con il ricordato elemento della condotta punibile, sulla presenza del requisito costitutivo del reato consistente, nella disposizione dell'art. 440 del codice penale, nel pericolo concreto per la salute pubblica, elemento, questo, che non si riscontra nella fattispecie legale di reato introdotta dalla norma denunziata: con quest'ultima il legislatore, sulla base di una generica previsione di pericolo astratto, più coerente con una fattispecie contravvenzionale, ha arretrato la soglia della punibilità di interventi su sostanze destinate all'alimentazione umana, alla somministrazione in sè considerata;

 

che, pertanto, la relazione tra le due disposizioni, sul piano normativo, non può essere configurata nè in termini di specialità, nè di sovrapposizione o successione dell'una rispetto all'altra, bensì di reciproca autonomia delle medesime; il che risulta coerente con il principio della "salvezza delle norme penali vigenti" (e tale è l'art. 440 citato) posto nella disposizione delegante più sopra ricordata;

 

che, alla luce di tali rilievi, da un lato viene meno in radice il presupposto interpretativo di identità degli ambiti applicativi delle norme su cui si basa la prospettata questione di legittimità costituzionale, e, dall'altro, la sottolineata diversità delle previsioni legali messe a raffronto comporta altresì il venir meno del presupposto del la asserita disparità di trattamento, giacchè le situazioni regolate sono diverse;

 

che, pertanto, la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata; mentre esula dall'oggetto del giudizio di costituzionalità, perchè spetta al giudice rimettente (sent. n. 168 del 1987), la valutazione circa il concreto atteggiarsi della relazione tra le due norme - art. 440 del codice penale, e art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992 - in rapporto al fatto quale dedotto in giudizio, se in termini di concorso formale di reati ovvero di assorbimento della seconda fattispecie meno grave nella prima, ove risultino in concreto realizzati gli elementi di quella incriminata dall'art. 440 del codice penale.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 118 (Attuazione delle direttive n. 81/602/CEE, n. 85/358/CEE, n.86/469/CEE, n.88/146/CEE e n. 88/299/CEE relative al divieto di utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica e ad azione tireostatica nelle produzioni animali, nonchè alla ricerca di residui negli animali e nelle carni fresche), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Mantova, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella Sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/07/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 21/07/93.