Sentenza n. 298 del 1993

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SENTENZA N. 298

ANNO 1993

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 51, n. 3, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 16 ottobre 1992 dal Pretore di Trapani - sezione distaccata di Alcamo nel procedimento civile vertente tra Catalano Giuseppe ed altre e Gruppuso Giuseppe, n.q. di curatore del fallimento di Calamia Rocco, iscritta al n. 20 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993;

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 5 maggio 1993 il Giudice relatore Renato Granata;

 

Ritenuto in fatto

 

1. In un giudizio civile pendente innanzi al Pretore di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, l'avv. Francesco Paolo Ruisi, difensore di una delle parti in causa, presentava istanza di ricusazione del giudice investito della controversia (nei cui confronti aveva proposto domanda di risarcimento del danno davanti al giudice conciliatore di Alcamo per alcune affermazioni contenute in un'ordinanza emessa in un precedente giudizio), istanza subordinata al mancato esercizio da parte del medesimo giudice del potere-dovere di astenersi.

 

Il pretore adito ha sollevato, con ordinanza del 16 ottobre 1992, questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 51, n.3, c.p.c. - in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 105 Cost. - nella parte in cui non prevede la possibilità di valutare la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza della domanda proposta nei confronti di un giudice prima che sia operante per questo l'obbligo di astensione.

 

Ad avviso del pretore rimettente l'automaticità dell'obbligo di astensione espone il giudice ad iniziative giudiziarie strumentalmente preordinate ad ottenere la sostituzione del giudice non gradito ed inoltre può determinare gravi difficoltà organizzative dell'intero ufficio. Tali inconvenienti non sussistono nell'ipotesi di azione diretta a far valere la responsabilità civile del magistrato per fatti commessi nell'esercizio delle sue funzioni giacchè (oltre alla esclusiva legittimazione passiva dello Stato) è prevista (dalla legge 13 aprile 1988 n. 117) una valutazione preliminare in camera di consiglio sulla non manifesta infondatezza della domanda; invece nessuna analoga valutazione è prevista in tutti i casi in cui il giudice sia stato citato in giudizio per fatti che non attengono all'esercizio della giurisdizione ovvero - come nella specie - sia stato citato, ancorchè per fatti riguardanti l'attività giurisdizionale, innanzi ad un organo giudiziario non previsto dalla speciale normativa in materia (legge n.117/88 cit.).

 

Pertanto - conclude il giudice rimettente - la norma censurata confliggerebbe con i principi dell'indipendenza e della autonomia della funzione giurisdizionale (art. 101 Cost.), peraltro ostacolando la funzione di autogoverno della magistratura per ciò che attiene alla distribuzione degli affari all'interno dello stesso ufficio (art. 105 Cost.); violerebbe il principio di non irragionevolezza (art. 3 Cost.); comprometterebbe il buon andamento dell'amministrazione della giustizia (art. 97 Cost.).

 

2. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata non fondata in quanto muove da un'inammissibile equiparazione tra causa di responsabilità ex lege n.117/88 e procedimento di astensione.

 

Osserva poi che il procedimento di astensione ha carattere amministrativo e ad esso le parti rimangono estranee, laddove un sub-procedimento di delibazione della fondatezza o ammissibilità della domanda proposta dal (o nei confronti del) magistrato non potrebbe non coinvolgere la posizione delle parti stesse della causa "pregiudicante".

 

Considerato in diritto

 

1. É stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, n.3, c.p.c. in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 105 Cost. nella parte in cui non prevede la possibilità di valutare la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza della domanda proposta nei confronti di un giudice prima che sia operante per questo l'obbligo di astensione; la norma è sospettata di contrastare con il principio di non irragionevolezza e di comportare la lesione dei principi di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, nonchè di buon andamento dell'amministrazione della giustizia.

 

2. Giova premettere che la disposizione censurata, nel prevedere l'obbligo di astensione del giudice civile quando egli stesso od il coniuge abbiano una causa pendente con una delle parti o alcuno dei suoi difensori, persegue la finalità di assicurare la mancanza di ogni (pur minima) interferenza sulla posizione di terzietà del giudice stesso per preservare la indipendenza della funzione giurisdizionale quale strumentale presidio del diritto di agire in giudizio. La preminente esigenza di tutela di tale valore di rilievo costituzionale - già evidenziata da questa Corte (sent.n.390 del 1991) che ha ritenuto prevalenti < > e < > - rende pienamente coerente una rigorosa e dettagliata disciplina delle ipotesi di astensione del giudice (ed in genere di chi sia chiamato ad operare in posizione di terzietà, quale il consulente tecnico d'ufficio che può essere ricusato nelle stesse ipotesi di astensione del giudice), potendo il legislatore prendere in considerazione anche situazioni in cui il rischio di interferenza sia minimo. Non sarebbe quindi censurabile, sotto alcuno dei parametri invocati, il fatto che il legislatore, nel prevedere come ipotesi di astensione la pendenza di una causa tra il giudice adito e la parte od il suo difensore, non abbia enucleato la fattispecie della causa manifestamente infondata (o addirittura temeraria), omettendo di prevedere un meccanismo di < > per escludere in questo caso l'obbligo di astensione, atteso anche che in tale evenienza potrebbe non diminuire affatto il rischio di interferenza sulla serenità del giudizio, se non addirittura risultare esso accentuato in ragione della consapevolezza del giudice di essere stato ingiustamente chiamato in giudizio.

 

3. Nè rileva la disciplina dettata dall'art. 5 della legge n.117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati e richiamata dal giudice rimettente. Le situazioni non sono comparabili perchè la previa delibazione ivi prevista circa la eventuale inammissibilità per manifesta infondatezza della domanda di risarcimento dei danni assertivamente provocati nell'esercizio della attività giurisdizionale trova la sua ragione d'essere nella peculiare ed autonoma esigenza di evitare che la possibilità di un indiscriminato ingresso di pretese risarcitorie (seppur nei confronti dello Stato, ma con azione di rivalsa nei confronti del giudice) induca remore o timori nell'esercizio dell'attività giurisdizionale per il rischio di azioni temerarie od intimidatorie (sent. n.468 del 1990

).

 

4. La fattispecie della causa manifestamente infondata è però presa in considerazione dall'ordinanza del giudice rimettente essenzialmente sotto un profilo del tutto particolare che è quello di una artificiosa preordinazione della pendenza della lite proprio al fine di predisporre un'ipotesi di automatica astensione (e quindi anche di possibile ricusazione) di un determinato giudice non gradito. In tale evenienza in effetti non è dato rinvenire nella disciplina processuale un meccanismo di preventiva valutazione che valga ad evitare l'automatismo dell'astensione, salvo considerare che - ove di fatto il giudice non si astenga proprio per il carattere fittizio della lite (e sempre che ciò possa essere valutato in sede disciplinare per escludere ogni responsabilità del giudice stesso) - la causa di astensione ridonda in causa di ricusazione, per la quale è invece prevista dagli artt. 53 e 54 c.p.c. una deliberazione preliminare che può condurre all'ammissibilità del ricorso della parte ove risulti la fittizietà della lite ad arte provocata.

 

Non di meno però deve riconoscersi che esiste un qualche rischio di strumentalizzazione dell'ipotesi di astensione obbligatoria in esame, non sufficientemente bilanciato dalla possibilità di qualificare un tale comportamento vuoi come violazione del dovere di lealtà processuale delle parti (art. 88 c.p.c.), vuoi come condotta non conforme alla deontologia professionale forense e quindi suscettibile di sanzioni disciplinari; rischio che ridonderebbe - pur senza considerare la possibile incidenza sul principio del giudice naturale, in quanto non evocato dal giudice rimettente - in vulnerazione dei principi di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, nonchè di buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Ma la costruzione di una fase di delibazione preliminare analoga a quella prevista per l'ipotesi della ricusazione è compito del legislatore che nella sua discrezionalità può variamente disegnarla sia in ordine all'atto di impulso, sia al procedimento e all'individuazione del giudice competente ad operare tale delibazione, sia all'idoneità, o meno, di tale fase incidentale a sospendere il giudizio.

 

L'ordinanza di rimessione chiede quindi alla Corte una pronuncia additiva che non si presenta affatto a rime obbligate essendo plurime le ipotesi di disciplina del meccanismo di preventiva valutazione della causa manifestamente infondata, preordinata a precostituire un motivo di astensione o ricusazione del giudice; sicchè la questione di costituzionalità va dichiarata inammissibile.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.51, n.3, del codice di procedura civile sollevata, in riferimento agli artt.3, 97, 101 e 105 della Costituzione, dal Pretore di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/06/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Renato GRANATA, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 01/07/93.