Sentenza n. 270 del 1993

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SENTENZA N. 270

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 177, primo comma, del codice penale, pro mosso con ordinanza emessa il 13 novembre 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Torino nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Mesina Grazia, iscritta al n. 58 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Udito nella camera di consiglio del 21 aprile 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Il Tribunale di sorveglianza di Torino, con ordinanza del 18 ottobre 1991, concedeva a Mesina Graziano, condannato alla pena dell'ergastolo, il beneficio della liberazione condizionale: veniva conseguentemente applicata all'interessato la libertà vigilata per anni cinque.

 

A sèguito di comunicazione da parte degli organi preposti alla vigilanza, si instaurava la procedura per la revoca del beneficio.

 

All'udienza del 13 novembre 1992 il difensore del Mesina eccepiva l'illegittimità, in riferimento all'art. 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 177 del codice penale, nella parte in cui esclude che, nel caso di revoca della liberazione condizionale già concessa al condannato all'ergastolo, il giudice possa determinare la pena ancora da espiare.

 

2. Con ordinanza del 13 novembre 1992 il Tribunale di sorveglianza di Torino riteneva rilevante e non manifestamente infondata l'eccezione, denunciando, in riferimento ai parametri costituzionali invocati dal ricorrente, l'illegittimità dell'art. 177, primo comma, del codice penale, "nella parte in cui esclude che nel caso di revoca della liberazione condizionale già concessa al condannato all'ergastolo, il giudice possa determinare la pena detentiva ancora da scontare".

 

In punto di rilevanza, il Tribunale osserva che il comportamento del Mesina appare tale da comportare la revoca della liberazione condizionale, donde l'applicazione della norma censurata nel giudizio a quo.

 

In punto di non manifesta infondatezza, i dubbi di legittimità vengono fatti risalire alle statuizioni contenute nella sentenza costituzionale n.282 del 1989 che ha contestato l'automatismo della revoca ex art. 177 del codice penale, affermando il principio che la "nozione di esecuzione va estesa fino a comprendere le modalità esecutive di tutte le misure, anche solo limitative della libertà personale, nelle varie leggi previste".

 

Secondo il giudice a quo, dalla decisione di questa Corte - dichiarativa dell'illegittimità dell'art. 177, primo comma, del codice penale, nella parte in cui, nel caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenuto conto del tempo trascorso in libertà condizionale nonchè delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo comportamento durante tale periodo - deriverebbe la presa d'atto che nell'ambito dell'istituto della liberazione condizionale all'estinzione di un rapporto giuridico fa da riscontro la costituzione di un nuovo rapporto dello stesso tipo. In questa prospettiva, la revoca della liberazione condizionale determina due conseguenze: per un verso, l'estinzione dello status di "vigilato in libertà", per un altro verso, la (ri)costituzione dello status di detenuto; un effetto estintivo e costitutivo insieme, senza che, peraltro, venga considerato il periodo trascorso in libertà vigilata.

 

Donde - sempre secondo le linee tracciate da questa Corte - la diversità della nuova pena detentiva, non determinabile se non attraverso un ulteriore giudizio, e con il compito del tribunale di sorveglianza "nel quantificare la residua pena", di "provvedere a sottrarre, dalla pena inflitta in sede di cognizione, il concreto carico afflittivo subìto dal condannato durante la libertà vigilata prima della causa di revoca". Con in più, la necessità che, all'atto della revoca della liberazione condizionale, il tribunale, sulla base di una prognosi fondata anche sul periodo trascorso in libertà, valuti "il grado di rieducazione raggiunto dal condannato e conseguentemente il grado della sua rieducabilità al fine di determinare la pena residua, personalizzando gli effetti della revoca, nell'entità necessaria per l'ulteriore rieducazione del condannato".

 

Quest'opera di rideterminazione - dovuta, secondo i criteri indicati dalla Corte costituzionale - risulterebbe preclusa dall'assenza di ogni termine fissato dal legislatore per assicurare lo stralcio della pena inutilmente espiata in regime di libertà vigilata: le alternative proponibili riducendosi o nella determinazione ex novo della pena irrogata dal giudice di cognizione, con conseguente, violazione del giudicato, o riportando la revoca della liberazione condizionale in una logica esclusivamente afflittiva, contrastante con la più volte ricordata decisione di questa Corte.

 

Di qui la compromissione dell'art. 3 della Costituzione, per l'ingiustificata diversità di trattamento tra condannato a pena temporanea e condannato all'ergastolo, pur prevedendo la legge per entrambe le categorie di condannati, quale condizione per la concessione del beneficio, "il sicuro ravvedimento", con previsione di precise indicazioni temporali per accedere ad esso.

 

Nel caso di revoca, nonostante rimanga unico il presupposto per entrambi i condannati, mentre in relazione ai primi è possibile sottrarre il periodo di pena inflitta in libertà vigilata, con riguardo ai secondi la detta operazione resta preclusa.

 

Circa il contrasto con l'art. 27 della Costituzione, il giudice a quo sottolinea la funzione intimamente collegata alla finalità rieducativa della liberazione condizionale, una finalità che resterebbe compromessa nel caso di revoca del beneficio al condannato all'ergastolo, per l'impossibilità sia di sottrarre il carico afflittivo già sopportato sia di rideterminare la pena ancora da espiare; con l'ulteriore pesantissimo aggravio di non poter usufruire una seconda volta della liberazione condizionale. Senza, peraltro, tenere in alcun conto nè la gravità dei fatti che hanno provocato la revoca nè l'eventuale reinserimento sociale del condannato nel periodo in cui è stato sottoposto a libertà vigilata.

 

3. L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 9, prima serie speciale, del 24 febbraio 1993.

 

4. Nel giudizio non si è costituita la parte privata nè ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

l. Il giudice a quo dubita, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità dell'art. 177, primo comma, del codice penale, nella parte in cui esclude che, nel caso di revoca della liberazione condizionale, già concessa al condannato all'ergastolo, il giudice possa determinare la pena detentiva ancora da espiare.

 

nonostante che nella motivazione dell'ordinanza il rimettente accenni "all'ulteriore pesantissimo aggravio per il condannato di non poter più usufruire una seconda volta della liberazione condizionale", il thema decidendum resta circoscritto all'ambito della questione concernente la rideterminazione della pena, anche perchè il giudizio a quo risulta rigorosamente delimitato dalla richiesta di revoca della liberazione condizionale, con conseguenti riverberi in ordine alla rilevanza.

 

2. A fondamento delle proposte censure è il costante richiamo, da parte del Tribunale di sorveglianza, alle proposizioni contenute nella sentenza n. 282 del 1989, con la quale questa Corte dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 177, primo comma, del codice penale, nella parte in cui, nel caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale, nonchè delle restrizioni subite dal condannato e del suo comportamento durante tale periodo.

 

Secondo il giudice a quo, poichè "nel caso di condanna all'ergastolo non è possibile effettuare l'operazione logico-valutativa richiesta dalla norma in esame ai fini della revoca", ne consegue, di fatto, la preclusione della procedura "di sottrazione dalla pena inflitta dal giudice di cognizione del carico afflittivo sopportato dal condannato all'ergastolo nel tempo in cui è stato sottoposto a libertà vigilata". Non sarebbe, infatti, possibile la rideterminazione della pena relativamente al condannato a pena perpetua, restando inipotizzabile l'operazione di "scorporo" della frazione di pena utilmente espiata in regime di libertà vigilata, perchè altrimenti si verrebbe a determinare ex novo una pena diversa rispetto a quella stabilita in sede di cognizione, in tal modo violandosi il principio dell'intangibilità del giudicato.

 

L'impossibilità di una simile rideterminazione comporterebbe l'effetto che la revoca automatica, facendo rivive re ex tunc la sanzione inflitta dal giudice della cognizione, cioè l'ergastolo, assegnerebbe alla revoca una funzione esclusivamente afflittiva, peraltro venuta meno proprio a seguito della sentenza n. 282 del 1989.

 

3. La questione è inammissibile.

 

L'aggancio istituito dagli argomenti addotti dal rimettente - nel censurare il disposto dall'art. 177, primo comma, del codice penale, relativamente ai condannati all'ergastolo - alle statuizioni contenute nella più volte ricordata sentenza n. 282 del 1989, risulta senza dubbio pertinente. La Corte, infatti, con tale decisione, dopo aver rilevato che "la liberazione condizionale, dal momento dell'ammissione del condannato alla medesima fino a quello della sua revoca ex art. 177 del codice penale, comporta l'adempimento da parte del condannato di particolari prescrizioni" limitative della sua libertà, ne ha tratto la conseguenza che la posizione del condannato stesso < non è di "totale libertà">. Dalla revoca della liberazione deve perciò derivare, riconosciuta l'esistenza di vincoli afflittivi, la possibilità di uno "scomputo" della pena trascorsa in libertà condizionale. Se detenzione e libertà vigilata sono "misure" che, per la loro non omogeneità, non possono dirsi equivalenti, la comune funzione afflittiva (e rieducativa) impone comunque di determinare il tasso di concreta afflittività sopportato dal condannato assoggettato a libertà vigilata a seguito della concessa liberazione condizionale.

 

All'ammissione alla liberazione, quale ultima frazione di una fattispecie "estintiva e costituti va insieme", si contrappone l'atto di revoca della detta liberazione che partecipa delle stessa natura costitutiva ed estintiva; perchè all'estinzione dello < status di "vigilato in libertà"> si "(ri)costituisce quello di detenuto", senza che però "venga preso in considerazione il periodo trascorso in libertà vigilata, con tutti i suoi contenuti afflittivi".

 

Dunque - ha osservato la sentenza n. 282 del 1989 - la carcerazione conseguente alla revoca della liberazione condizionale "è nuova e diversa", con la necessità che la pena detentiva residua deve "essere determinata attraverso un nuovo giudizio che tenga conto anche dell'afflittività sopportata durante la libertà vigilata". Di qui la già ricordata illegittimità dell'art. 177, primo comma, del codice penale, anzitutto perchè, "aggiungendo l'effetto risolutivo della revoca", aumenta " ingiustificatamente la pena detentiva determinata dalla sentenza di condanna", annullando "anche le limitazioni della libertà personale dovute alla libertà vigilata" ed impedisce "il nuovo giudizio determinativo della < residua> pena detentiva".

 

Inoltre, poichè il limite alla pena detentiva fissato in sede di cognizione non può essere superato per fatti realizzati successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, mentre la detta pena può essere ridotta o modificata in melius nella fase esecutiva, se ne è concluso per l'incompatibilità della disposizione ora di nuovo denunciata, nei sensi sopra indicati, perchè altera, a danno del condannato, l'equilibrio proporzionalistico tra reato e pena determinato in astratto dalla legge ed in concreto dal giudicato, aggiungendo, in caso di revoca, alla quantità di pena detentiva inflitta con la sentenza di condanna, altra afflizione da questa non giustificata.

 

Il tutto con un'importante precisazione: che, prevalendo nell'istituto della liberazione condizionale la funzione rieducativa sulla esigenza retributiva, la revoca della liberazione, se non determina l'integrale scorporo del periodo trascorso in libertà condizionata e vigilata dalla durata dell'originaria pena detentiva, deve necessariamente collegarsi alla possibilità di valutazione di tale periodo, compiuta verificando sia la fase trascorsa dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni sia la qualità e quantità dei comportamenti che hanno dato luogo alla revoca, emettendo un giudizio prognostico sulla rieducabilità del condannato, da effettuarsi sulla base dell'esame della sua personalità.

 

4. Le argomentazioni svolte nella richiamata sentenza n. 282 del 1989 vanno qui ribadite anche nei confronti del condannato all'ergastolo, riguardo al quale la perpetuità della pena irrogata non può costituire un ostacolo sufficiente per precludere in assoluto la medesima opera "di scomputo".

 

Sia perchè altrimenti gli sarebbe riservato un trattamento di maggior rigore rispetto al condannato a pena temporanea sia perchè alla funzione rieducativa della pena non può essere sottratto il condannato all'ergastolo senza che ne risulti vulnerato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

 

Senonchè, la questione, così come proposta, in quanto incentrata su un petitum diretto a conseguire lo scomputo del periodo trascorso in libertà vigilata dal condannato all'ergastolo, si risolve nella richiesta di un'integrazione della norma denunciata che finirebbe ineluttabilmente per travolgere l'efficacia stessa del giudicato, giacchè qualsiasi detrazione del periodo trascorso in libertà vigilata ai fini della determinazione del residuo da espiare viene a porsi in termini di ontologica inconciliabilità rispetto alla condanna all'ergastolo che, essendo pena perpetua, non ammette "scomputi" che non incidano sulla natura stessa della pena. Se, dunque, nei confronti del condannato all'ergastolo il periodo di libertà vigilata potrà essere valutato, nel caso di revoca del beneficio, ad effetti diversi da quello del computo del residuo di pena da espiare a seguito della revoca, la manipolazione normativa, che il giudice a quo sollecita, fuoriesce dalle competenze di questa Corte, perchè involgente soluzioni non costituzionalmente obbligate, ma scelte discrezionali riservate al legislatore.

 

Di ciò sembra, del resto, consapevole lo stesso rimettente, con il suo implicito richiamo ad un criterio in base al quale, in caso di revoca del beneficio, al condannato all'ergastolo possa venire sottratto il carico afflittivo già sopportato in libertà vigilata al fine di rideterminare la pena da espiare; il tutto, però, senza indicare le modalità attraverso le quali questa operazione debba essere compiuta.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.177, primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27/05/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 04/06/93.