Sentenza n. 77 del 1993

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SENTENZA N. 77

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 32, terzo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nel testo modificato dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), in relazione all'art. 3, lett.l, della legge- delega 16 febbraio 1987, n. 81, promosso con ordinanza emessa il 25 novembre 1991 dalla Corte di appello di Trieste - Sezione per i minorenni nel procedimento penale a carico di Minatel Luca, iscritta al n. 106 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

l. Con ordinanza pronunciata il 25 novembre 1991, la Corte di appello di Trieste - Sezione per i minorenni, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, terzo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nel testo modificato ad opera dell'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate).

Assume il giudice a quo che l'art. 3, lettera l), della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, nel prevedere l'opposizione avverso i provvedimenti adottati nell'udienza preliminare, non opera distinzione tra provvedimenti di proscioglimento e di condanna; il tutto per consentire all'imputato di "gestire la possibilità di rinunciare o meno alla celebrazione del dibattimento, senza che la detta possibilità possa essergli sottratta con pregiudizio delle garanzie di difesa". Tale principio risulterebbe peraltro violato dalla "novellazione" apportata dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, che ha escluso dall'opposizione "i provvedimenti di proscioglimento", cosicchè la norma impugnata verrebbe a porsi in contrasto con gli artt. 24 e 76 della Costituzione.

2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Osserva l'Avvocatura che la scelta di consentire l'opposizione nei confronti delle sole sentenze di condanna risponde alle reali esigenze di garanzia dell'imputato, il quale, avverso le sentenze di non luogo a procedere, può utilizzare il mezzo di impugnazione previsto dall'art. 428 del codice di procedura penale. L'opposizione, quindi, costruita come richiesta di dibattimento, consente all'imputato di far valutare in tempi ristretti le proprie censure avverso quei provvedimenti che nel processo ordinario possono essere adottati solo a conclusione del dibattimento. L'estensione di un meccanismo del genere a tutti i provvedimenti adottabili nell'udienza preliminare si sarebbe, invece, rivelato in contrasto con l'esigenza di mas sima semplificazione, senza che, oltre tutto, potessero assumere rilievo alcuno le peculiarità del procedimento minorile.

D'altro canto, ha osservato l'Avvocatura richiamando la Relazione allo schema del decreto legislativo n. 12 del 1991, la composizione del tribunale per i minorenni nell'udienza preliminare non differisce in modo significativo dalla composizione del medesimo tribunale con funzioni di giudice del dibattimento. Pure sotto tale profilo, dunque, non avrebbe giustificazione predisporre il riesame del merito di tutti i provvedimenti adottati a norma dell'art. 32 del d.P.R. n.448 del 1988.

Per ciò che infine attiene alla denunciata violazione dell'art. 24 della Costituzione, l'Avvocatura rileva che la possibilità di esperire gli ordinari mezzi di impugnazione previsti dal codice avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze di condanna, consente agevolmente di ritenere non fondata la dedotta violazione del diritto di difesa.

Considerato in diritto

l. Oggetto di censura, sotto il duplice profilo dell'eccesso di delega e della violazione del diritto di difesa, è la disposizione dettata dall'art. 32, terzo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in base alla quale è consentito all'imputato e al difensore munito di procura speciale di proporre opposizione contro la sentenza di condanna pronunciata nell'udienza preliminare a norma del comma 2 dello stesso articolo.

Tenuto conto, infatti, che la disposizione impugnata è stata introdotta, nella attuale formulazione, dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, adottato con la speciale procedura prevista dall'art.7 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, e come tale assoggettato al "rispetto dei principii e criteri direttivi fissati dagli articoli 2 e 3" della stessa legge di delegazione, e considerato che la fonte novellatrice ha profondamente mutato la precedente disciplina, limitando ai soli casi di condanna la possibilità - prima riconosciuta in termini generali - di proporre opposizione avverso le sentenze pronunciate all'esito della udienza preliminare, si desume da ciò il contrasto con l'art. 3, lettera l), terzo periodo, della stessa legge-delega n. 81 del 1987, essendo ivi prevista l'opposizione "contro i provvedimenti adottati nell'udienza preliminare" senza che sia stata operata distinzione alcuna tra quelli di pro scioglimento e quelli di condanna. La novella, d'altra parte, non consentendo all'imputato di "gestire la possibilità di rinunciare o meno alla celebrazione del dibattimento", determina, secondo il giudice a quo, un "pregiudizio delle garanzie della difesa" che pone la norma in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.

2. La tesi che invece sviluppa la difesa dello Stato per sostenere l'infondatezza della questione, si incentra essenzialmente sulle ragioni di speditezza e di coerenza sistematica che indussero il Governo ad emanare la novella che costituisce oggetto del presente giudizio.

Richiamando, infatti, quanto al riguardo si afferma nella Relazione che ha accompagnato lo schema del decreto legislativo n. 12 del 1991, l'Avvocatura pone in evidenza come la soluzione prescelta sia rispondente "alle reali esigenze di garanzia dell'imputato, il quale avverso le sentenze di non luogo a procedere può efficacemente avvalersi del mezzo di impugnazione previsto in via generale dall'art.428 c.p.p., mentre per le sentenze di condanna allo stato degli atti emesse a norma dell'art. 32 comma 2 si trova ad essere privato, senza necessità del suo consenso, della garanzia costituita dal dibattimento".

Una soluzione, quella adottata, che il legislatore delegato ha ritenuto "conforme alla ratio della direttiva di cui all'art. 3 lettera l) legge-delega, la quale sembra doversi interpretare nel senso che non avverso tutti i provvedimenti adottati nell'udienza preliminare debba essere consentita l'opposizione, bensì soltanto avverso quelli in relazione ai quali i mezzi di impugnazione previsti dal codice non costituiscono garanzia sufficiente, tenuto conto della maggiore ampiezza dei poteri decisori del giudice dell'udienza preliminare minorile rispetto a quanto previsto dagli artt. 424 e 425 c.p.p.".

3. L'esame della conformità della norma impugnata ai criteri ed ai principii enunciati dalla legge di delegazione, postula, come è ovvio, un controllo di compatibilità tra le scelte operate dal legislatore delegato ed i limiti imposti all'esercizio del relativo potere, che non può riduttivamente circoscriversi all'interno di un acritico raffronto testuale tra le due fonti di normazione. Ciò è tanto più vero ove si consideri come alla già complessa e talora puntuale sequenza che caratterizza le numerose direttive che l'art. 2 della legge-delega n. 81 del 1987 ha fissato per l'emanazione del nuovo codice di rito, si accompagni la ritenuta necessità - fatta palese dal preambolo con cui esordisce l'art. 3 - che la disciplina del processo minorile si conformi ai "principii generali del nuovo processo penale", solo nei limiti in cui questi non debbano subire "le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione, nonchè, in particolare, dall'attuazione" dei criteri che lo stesso art. 3 passa ad enunciare. Ciascuno dei <criteri> stabiliti per disciplinare il processo a carico di imputati minorenni, dunque, assume, secondo la precisa volontà del legislatore delegante, il significato di una deroga ai "principi generali", coessenziale alle peculiari esigenze insite nella condizione minorile, cosicchè qualsiasi lettura di quei criteri in funzione della corrispondente disciplina attuativa, non potrà che collocarsi in tale specifico quadro di riferimento.

Ciò posto e dovendosi pertanto annettere ai criteri enunciati dall'art. 3 della legge- delega il valore di limiti saldamente ancorati alla salvaguardia delle esigenze del minore, ne consegue che la loro interpretazione non potrà che svolgersi secondo un profilo squisitamente teleologico, al precipuo scopo di raccordare ciascuna deroga ai "principi generali" del processo penale alle peculiarità insite nel rito minorile. In tale contesto, allora, è agevole cogliere quale sia la linea prescelta dal legislatore delegante nel dettare le tre "previsioni" in cui si suddivide la lettera l) del già citato art. 3: da un lato, quella di ampliare i poteri del giudice dell'udienza preliminare, così da rendere possibile una immediata conclusione della vicenda processuale, il cui ulteriore sviluppo potrebbe generare conseguenze negative per il minore; dall'altro, quella di affidare alle parti la scelta se conformarsi alla decisione del giudice, ovvero rimuoverla attraverso lo speciale rimedio della opposizione. La prima parte della direttiva che viene qui in esame stabilisce, infatti, che il giudice possa "prosciogliere" il minorenne nell'udienza preliminare anche per la non imputabilità, ai sensi dell'art.98 del codice penale, ovvero per concessione del perdono giudiziale, così superando il circoscritto àmbito della sentenza di "non luogo a procedere" che lo stesso delegante ha tracciato nel numero 52) dell'art.2, nella diversa prospettiva di privilegiare il dibattimento come sede naturale dove svolgere il giudizio sul pieno merito della regiudicanda.

Il secondo periodo della medesima direttiva prevede, poi, la possibilità di pronunciare, all'esito della udienza preliminare, sentenza di condanna, ove il giudice ritenga di irrogare una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva. A chiusura, infine, dei criteri ai quali il legislatore delegato è tenuto a uniformare la disciplina dell'udienza preliminare nel processo a carico di imputati minorenni, il terzo periodo della lettera l) enuncia la previsione che avverso "i provvedimenti adottati" in quella udienza "il pubblico ministero difensore, l'imputato, uno dei genitori o il tutore possano proporre opposizione, in termini brevissimi, davanti al tribunale per i minorenni".

Alle particolarità degli epiloghi cui può pervenire l'udienza preliminare nel processo minorile, si collega, dunque, l'altrettanto particolare rimedio della opposizione, che il delegante configura alla stregua di un istituto volto a rimuovere gli effetti di quelle pronunce e provocare l'intervento del giudice dibattimentale.

Sicchè, pur operando la delega un generico riferimento ai "provvedimenti adottati all'udienza preliminare", deve certamente escludersi - come osserva la Relazione al decreto legislativo n. 12 del 1991 - che l'intento del legislatore delegante fosse quello di ammettere l'opposizione nei confronti di qualsiasi tipo di decisione assunta nell'udienza, giacchè, ove così fosse, sarebbe resa suscettibile di automatica caducazione qualsiasi sentenza di non luogo a procedere, in virtù di una scelta che lo stesso delegante riconosce non solo all'imputato ma anche al pubblico ministero.

In altri termini, si assisterebbe alla conseguenza paradossale di attribuire al pubblico ministero il potere di rimuovere discrezionalmente una sentenza che si oppone alla sua richiesta di rinvio a giudizio, in aperto contrasto sia con i principi di rango costituzionale, sia con le finalità stesse che la direttiva mira a perseguire.

Dovendosi dunque prefigurare limiti oggettivi al potere di proporre opposizione, questi non possono che desumersi dalla integralità delle "previsioni" che la stessa lettera l) partitamente enuncia. Il diritto dell'imputato alla celebrazione del dibattimento, non può, allora, ritenersi circoscritto alla sola ipotesi della sentenza di condanna, proprio perchè la facoltà di proporre opposizione, enunciata nella terza parte della lettera l), è intimamente legata, sul piano logico sistematico oltre che testuale, ad entrambe le previsioni che la precedono. Posto, infatti, che la " specificità" che caratterizza l'udienza preliminare minorile viene individuata dal legislatore delegante nell'ampliamento dei poteri decisori e nella correlativa possibilità di adottare pronunce altrimenti da riservare all'organo del dibattimento, e considerato che, come si è detto, la scelta di anticipare siffatti poteri è funzionale al soddisfacimento delle particolari esigenze di tutela della condizione minorile, ne consegue che il diritto alla opposizione, costituendo espressione del più generale diritto di difesa, deve essere riconosciuto in tutti i casi in cui è proprio quella "anticipazione di poteri" a generare l'effetto di impedire la celebrazione del dibattimento. D'altra parte, poichè l'istituto della opposizione è tradizionalmente collocato nell'ambito del procedimento monitorio, al punto che il legislatore della novella è stato indotto a modellarne le cadenze in speculare sintonia con le analoghe previsioni dettate in tema di decreto penale (v., in particolare, il comma 3- bis dell'art. 32 e l'art. 32-bis del d.P.R. n.448 del 1988), diviene allora agevole arguire che nell'intenzione del legislatore delegante il rimedio in questione è inteso a consentire l'accertamento dibattimentale nelle ipotesi in cui la pronuncia del giudice della udienza preliminare contiene un enunciato in punto di responsabilità che la parte deve avere la facoltà di rimuovere per poter esercitare appieno il proprio diritto alla prova. Un diritto, questo, che, contrariamente a quanto si afferma nella Relazione al più volte citato decreto legislativo n. 12 del 1991, non può certo ritenersi adeguatamente tutelato attraverso "il mezzo di impugnazione previsto in via generale dall'art. 428 c.p.p.", posto che, tra l'altro, non è l'appello la sede processuale fisiologicamente destinata alla formazione della prova.

Tale essendo il quadro univocamente tracciato dal legislatore delegante, può quindi desumersi, quale conclusivo corollario, che il diritto a proporre l'opposizione deve essere riconosciuto non solo quando la pronuncia sulla responsabilità è coessenziale alla sentenza che definisce l'udienza preliminare, come nel caso della condanna, ma anche quando la responsabilità dell'imputato è ontologicamente presupposta, come nel perdono giudiziale, ovvero, infine, è logicamente postulata, come nella ipotesi di sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità a norma dell'art. 98 del codice penale. La norma impugnata va pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima in parte qua, restando assorbiti gli ulteriori profili denunciati dal giudice rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32, terzo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall'art.46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), nella parte in cui non prevede che possa essere proposta opposizione avverso le sentenze di non luogo a procedere con le quali è stata comunque presupposta la responsabilità dell'imputato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/02/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 11/03/93.