Sentenza n. 59 del 1993

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SENTENZA N. 59

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 aprile 1992 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Gentile Giuseppe, iscritta al n. 349 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 2 dicembre 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

l.- In sede di atti preliminari al dibattimento da celebrarsi a carico di Gentile Giuseppe per il reato di peculato militare continuato (artt. 81 cpv. cod. pen. e 215 cod. pen. mil.di pace), il Tribunale militare di Padova - rilevando che nei confronti dell'imputato il giudice ordinario aveva pronunciato, per il medesimo fatto (qualificato come peculato ex art.314 cod. pen.) sentenza di applicazione di pena ex art. 444 cod.proc. pen. non ancora passata in giudicato e che il Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale militare aveva, il 28 febbraio 1992, attivato la procedura per la risoluzione del conflitto di giurisdizione - ha sollevato, con ordinanza del 15 aprile 1992, una questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, terzo comma, del codice di procedura penale, in quanto prevede che la denuncia del conflitto di giurisdizione e la conseguente ordinanza "non hanno effetto sospensivo sui procedimenti in corso".

Secondo il Tribunale rimettente, tale disposizione - a suo avviso innovativa rispetto alla prevalente interpretazione dottrinale e giurisprudenziale del corrispondente art. 53 del cod. proc. pen. del 1930 - contrasta con gli artt. 2 e 3 Cost., perchè "costringe l'imputato a difendersi per un medesimo fatto dinanzi a più giudici, con evidente compro missione dei suoi diritti fondamentali e sostanziale, ingiustificato aggravio della sua situazione nei confronti dell'Autorità".

Considerato, poi, che i procedimenti in conflitto, nelle more del giudizio risolutivo, possono persino giungere, uno solo o anche tutti e due, al giudicato, la disposizione impugnata confliggerebbe con gli artt. 25, primo comma e 103, terzo comma, Cost., in quanto permette che l'imputato sia distolto dal giudice naturale e, quando si tratti di conflitto tra giudice ordinario e giudice militare, che quest'ultimo conosca di un reato estraneo alla sua giurisdizione.

Sarebbero, infine, violati anche gli artt. 97, 76 e 77 Cost., in quanto la mancata sospensione sarebbe in contrasto con l'esigenza del buon andamento dell'amministrazione della giustizia e non troverebbe riscontro nella direttiva n. 15 dell'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987.

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Quanto alla prima censura, l'Avvocatura osserva la norma impugnata è la conseguenza di una scelta ben ponderata basata sulla autonomia dei procedimenti - i cui possibili contrasti vanno composti in sede esecutiva (art. 669 cod. proc. pen.) - e sull'esigenza di pervenire ad una loro definizione in tempi contenuti, non dilatabili indeterminatamente ed oltre misura. Ed infondate sarebbero anche le altre censure, dato che è rispettata tanto la precostituzione per legge del giudice che la giurisdizione dei tribunali militari e che nella direttiva n. 15 non vi è alcun riferimento che si ponga in contrasto, sia pure potenziale, con la disposizione in esame.

Considerato in diritto

l.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale militare di Padova dubita che l'art. 30, terzo comma, cod. proc. pen., in quanto dispone che la denuncia del conflitto di giurisdizione e la conseguente ordinanza non hanno effetto sospensivo sui procedimenti in corso, contrasti:

- con gli artt. 2 e 3 Cost., per l'ingiustificato aggravio della posizione dell'imputato, costretto a difendersi per un medesimo fatto dinnanzi a più giudici;

- con gli artt. 25 e 103, terzo comma, Cost., perchè consentirebbe che l'imputato sia distolto dal giudice naturale e che il Tribunale militare conosca di un reato estraneo alla sua giurisdizione;

- con gli artt. 97, 76 e 77 Cost., perchè la norma sarebbe in contrasto con le esigenze di buon andamento dell'amministrazione della giustizia e non troverebbe riscontro nella direttiva n. 15 della legge delega.

2.- La questione non è fondata.

Va preliminarmente precisato che l'assunto del giudice a quo secondo cui la norma impugnata sarebbe innovativa rispetto alla prevalente interpretazione dottrinale e giurisprudenziale del corrispondente art. 53 del codice di rito del 1930 non è esatto.

Tale disposizione non conteneva una regola espressa sul punto, ma la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che in pendenza del conflitto di giurisdizione potessero comunque compiersi gli atti urgenti, e quella prevalente - contrastata solo da una parte della dottrina - che fosse consentito espletare anche quelli non urgenti.

Nel nuovo codice, ispirato in via generale a criteri di autonomia dei procedimenti (cfr., ad es., gli artt. 2, 3, 12, 18, 479) e di "massima semplificazione nello svolgimento del processo" (art. 2, punto 1 della legge delega), quest'ultimo obiettivo è stato perseguito, da un lato delimitando l'area dei conflitti di giurisdizione col porre a loro presupposto l'identità del fatto e della persona imputata, dall'altro stabilendo espressamente che l'ordinanza e la denuncia del conflitto non hanno effetto sospensivo dei procedimenti in corso e, correlativamente, che alla Corte di cassazione va rimessa (solo) copia degli atti necessari alla sua risoluzione.

Considerando che la denuncia del conflitto fa sorgere in capo al giudice l'obbligo di investirne la Corte di cassazione, senza che egli possa rivalutarne l'ammissibilità (e salva solo la facoltà di formulare le proprie osservazioni), è del tutto ragionevole che il legislatore abbia escluso l'effetto sospensivo, per evitare che denunce di conflitti manifestamente inesistenti o pretestuosi si traducano in uno strumento per paralizzare temporaneamente le sorti del processo (cfr. Relazione al progetto preliminare, p. 18) e possano incidere sui termini di custodia cautelare e di prescrizione.

3.- Tanto premesso, deve innanzitutto escludersi che la norma che impedisce l'effetto sospensivo violi la direttiva n. 15 della legge delega, dato che questa non si occupa specificamente del punto e che, anzi, nella disciplina dei conflitti di giurisdizione e di competenza si è inteso lasciare al legislatore delegato "il massimo di flessibilità" (cfr. il parere del relatore per la Commissione Giustizia reso al- l'Assemblea della Camera nella seduta del 10 luglio 1984, n.161, p. 15483).

Nemmeno possono dirsi violati gli artt. 25 e 103 Cost., dato che le norme sui conflitti servono proprio a stabilire quale sia il giudice naturale e se, in particolare, vi sia o meno giurisdizione dei tribunali militari, sicchè nel- le more della loro risoluzione l'individuazione del giudice cui spetta procedere è a priori incerta. Tanto meno, poi, può dirsi leso l'art.97 Cost., giacchè, come si è detto, la norma impugnata mira proprio ad evitare che il buon andamento dell'amministrazione della giustizia possa essere pregiudicato da denuncia di conflitti inesistenti o pretestuosi.

Certo, la circostanza che nelle more della risoluzione del conflitto l'imputato sia costretto a difendersi per lo stesso fatto innanzi a più giudici è inconveniente non trascurabile. Ma, a parte che la disciplina legislativa ha cercato di contenerlo in limiti temporali ristretti, la già illustrata validità delle ragioni poste a base della norma impugnata in- duce ad escludere che si tratti di aggravio ingiustificato e perciò lesivo degli artt. 2 e 3 della Costituzione. Il che non toglie che sia auspicabile un intervento legislativo volto ad approntare una disciplina idonea a contemperare in modo diverso gli interessi in gioco.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.30, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 76, 77, 97 e 103, terzo comma, della Costituzione dal Tribunale militare di Padova con ordinanza del 15 aprile 1992.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 08/02/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 16/02/93.