Sentenza n. 57 del 1993

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SENTENZA N. 57

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma secondo bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n.160 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 12 maggio 1992 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Menna Antonio ed altri e l'I.N.P.D.A.I., iscritta al n. 342 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1992;

2) ordinanza emessa il 16 giugno 1992 dal Pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra Tedeschi Uberto e l'I.N.P.D.A.I., iscritta al n. 499 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visti gli atti di costituzione di Menna Antonio, Gallian Claudio ed altro, di Tedeschi Uberto e dell'I.N.P.D.A.I., nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 1° dicembre 1992 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;

uditi gli avvocati Renato Scognamiglio per Menna Antonio, Gallian Claudio ed altro e Tedeschi Uberto, Mario Capaccioli e Nunzio Izzo per l'I.N.P.D.A.I. e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

l.1 -- Nel corso di un giudizio in cui i ricorrenti, tutti dirigenti di aziende industriali collocati in pensione anteriormente al 31 dicembre 1987, avevano richiesto l'applicazione del più vantaggioso criterio di calcolo della pensione stabilito dall'art. 3, comma 2 bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 (convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160), secondo il quale, ai fini di detto calcolo, per le pensioni liquidate dall'INPDAI <con decorrenza a partire dal 1° giugno 1988>, le retribuzioni annue relative al quinquennio precedente sono prese in considerazione entro il limite pari al doppio dei massimali annui in vigore nel quinquennio suddetto, il Pretore di Torino, con ordinanza emessa il 12 maggio 1992, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della norma citata, nella parte in cui limita gli effetti del raddoppio dei massimali esclusivamente ai dirigenti collocati in pensione a partire dal 1° gennaio 1988.

Premette il giudice a quo di aver rigettato la domanda dei ricorrenti collocati in pensione prima del quinquennio anteriore al 1° gennaio 1988, anche in ossequio alla giurisprudenza costituzionale in tema di "tetti" pensionistici e di scelte legislative circa le demarcazioni temporali delle prestazioni previdenziali.

La questione concerne tre dirigenti, andati in pensione prima del 1° gennaio 1988 ma nel corso di quei cinque anni, cioè proprio quel periodo che i dirigenti, viceversa, collocati in pensione successivamente a tale data, si sono visti raddoppiare quanto a computabilità dei massimali ai fini del calcolo pensionistico. Ed è appunto in tale ingiustificata differenziazione che il Pretore ravvisa irragionevolezza e violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo della disparità di trattamento.

Osserva in proposito il giudice a quo come coloro che siano andati in pensione dopo il 31 dicembre 1987 beneficiano di un calcolo della pensione basato sul raddoppio del tetto retributivo del precedente quinquennio, mentre chi sia andato in pensione prima della data indicata percepisce una pensione commisurata al previgente massimale e, malgrado le successive perequazioni, è ben lontano dal giovarsi del sostanziale raddoppio della base contributiva di riferimento.

In sostanza le contribuzioni afferenti il quinquennio 1983- 1987, a parità di tetto retributivo e di versamenti previdenziali, finiscono per incidere in misura diversa a seconda che l'interessato sia andato in pensione prima o dopo la data in dicata.

Il Pretore rimettente dubita della ragionevolezza della scelta legislativa, richiamando alcune decisioni della Corte costituzionale ed esemplificando altresì la prospettata disparità attraverso l'ipotesi di due dirigenti, collocati in pensione, rispettivamente, il 1° gennaio 1987 ed il 1° gennaio 1988. In tal caso i tre anni contributivi comuni e per i quali i versamenti sono stati identici, vengono a "pesare" in maniera ben diversa nel calcolo della pensione e precisamente per il doppio soltanto nel secondo caso. Ciò esclusivamente in ragione della data del pensionamento.

Conclude il giudice a quo suggerendo una pronuncia caducatoria dell'inciso -- contenuto nella norma che limita la sfera dei beneficiari del ricalcolo -- che recita: <con decorrenza a partire dal 1° gennaio 1988>; in tal modo tutti coloro che siano andati in pensione nel quinquennio godrebbero, per gli anni utili, del raddoppio disposto dal la norma.

l.2 -- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza richiamandosi alla sentenza n. 72 del 1990 in cui la Corte costituzionale ebbe deciso analoga questione.

l.3 -- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituite le parti private.

I ricorrenti hanno sostanzialmente ripetuto le argomentazioni della ordinanza di rimessione.

L'INPDAI, in un'ampia memoria, corredata da allegati, ha premesso alcuni cenni circa la specificità del trattamento pensionistico erogato dall'Istituto che è sempre corrispondente alla retribuzione assoggettata a contribuzione previdenziale (che costituisce a sua volta una parte della complessiva retribuzione), secondo un massimale -- periodicamente stabilito -- a differenza del regime gestito dall'INPS e di quello dei dipendenti statali ove i contributi vengono corrisposti sull'intera retribuzione percepita.

Circa la rilevanza della questione, la difesa dell'Istituto ha eccepito "l'inammissibile commistione" tra la perequazione e la liquidazione, esponendo come la norma impugnata attenga ad un'innovazione dei meccanismi di quest'ultima, mentre le pensioni anteriori al 1° gennaio 1988 (liquidate con il regime giuridico in vigore al momento del pensionamento) resterebbero assoggettate alla normativa perequativa. La ratio della censura sarebbe riferibile non già ai nuovi criteri di liquidazione, bensì all'inadeguatezza delle perequazioni medio tempore intervenute in favore dei ricorrenti e che dovrebbero essere eliminate in caso di accoglimento (onde evitare una duplicazione di vantaggi). Del tutto indebito sarebbe poi l'intento di operare un frazionamento all'interno del sistema di liquidazione instaurando raffronti tra singole parti del quinquennio di riferimento.

Osserva poi la difesa dell'Istituto come la norma impugnata abbia demandato al Ministro del lavoro il ricalcolo delle pensioni entro il limite del raddoppio dei massimali, ma che tale raddoppio sarebbe stato in realtà effettuato soltanto dal successivo decreto ministeriale 25 luglio 1988, n. 422. Tale atto regolamentare -- che astrattamente avrebbe anche potuto contenere l'incremento entro una misura inferiore -- costituirebbe il vero oggetto della doglianza e da ciò scaturirebbe un pro filo ulteriore d'inammissibilità.

Nel merito l'INPDAI rileva come, a partire dal 1° gennaio 1988, massimali ed aliquote contributive siano stati sensibilmente elevati, con conseguente versamento di maggiori contributi, onde parrebbe ragionevole la scelta del legislatore, volta ad escludere gl'interessati dal beneficio del raddoppio dei massimali. Più in generale si richiamano la discrezionalità nella scelta della data di decorrenza di un beneficio, la tendenza attuale a contenere gl'incrementi perequativi entro il tasso di inflazione programmato ed ad innalzare l'età pensionabile e l'eccezionalità del momento economico-finanziario.

In conclusione, si afferma in memoria, la vera irragionevolezza sarebbe rintracciabile non già nella mancata estensione retroattiva del raddoppio dei massimali per il quinquennio, bensì nella stessa concessione "gratuita" del raddoppio al di fuori di un'effettiva contribuzione.

2. -- Nel caso di un analogo giudizio, il Pretore di Milano, con ordinanza emessa il 16 giugno 1990, ha sollevato, negli stessi termini, identica questione.

L'Avvocatura dello Stato è intervenuta e le parti si sono costituite con atti in tutto simili a quelli di cui sopra.

3. -- Nell'imminenza dell'udienza l'Avvocatura si è richiamata al proprio atto d'intervento, mentre entrambe le parti private hanno presentato ulteriori memorie.

L'INPDAI ha insistito sulla congruità dei trattamenti percepiti dai ricorrenti come risultanti dalla normativa in tema di perequazione, dando quindi atto del beneficio accordato ad una certa categoria di dirigenti, ma contestando la ragionevolezza di un'estensione di questo a coloro che ne sono esclusi, come richiesto dal giudice a quo.

Le parti attrici nei giudizi a quibus hanno replicato alle difese dell'INPDAI.

In primo luogo si rileva nelle memorie come la variazione delle prestazioni in ragione del decorso del tempo sia cosa ben diversa del repentino raddoppio dei massimali, di cui si controverte e come il fatto che i dirigenti (e del resto altre categorie) dispongano in alcuni casi anche di previdenze integrative, sia del tutto irrilevante, riguardando tali forme la retribuzione eccedente i massimali, in piena autonomia contrattuale.

In secondo luogo si afferma la completa disponibilità dei ricorrenti ad effettuare tutte le integrazioni contributive eventualmente necessarie a godere del più favorevole trattamento riservato ai beneficiari della norma impugnata. Si esclude poi che la censura tenda a confondere i concetti di liquidazione e di perequazione delle pensioni, posto che l'accoglimento delle doglianze, determinando l'estensione del computo raddoppiato del quinquennio, comporterebbe la caducazione degli effetti, per quel periodo, del meccanismo perequativo.

La difesa argomenta a sostegno della soluzione offerta in ordinanza di rimessione (secondo cui la denunciata illegittimità potrebbe essere eliminata sopprimendo l'inciso "con decorrenza a partire dal 1° gennaio 1988") ed osserva che la retrodatazione del beneficio non implicherebbe alcun profilo di ulteriore disparità di trattamento.

Quanto all'oggetto della censura, le parti private, dopo aver precisato che essa si appunta sull'impugnato art. 3 della legge n. 160 del 1988 e non su disposizioni regolamentari o riguardanti la perequazione, rilevano che la diversa misura contributiva introdotta dal 1° gennaio 1988 sarebbe ininfluente per la decisione ed insistono sull'irragionevolezza di una diversificazione di trattamenti pensionistici che, applicandosi a situazioni determinate da pari condizioni, non sarebbe giustificabile sulla base della discrezionalità legislativa.

Considerato in diritto

l. -- É impugnato l'art. 3, secondo comma bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza socia le), nella parte in cui, ai fini del calcolo della pensione dei dirigenti di aziende industriali, consente il raddoppio dei massimali contributivi annui del quinquennio 1983-1987, soltanto a beneficio dei dirigenti collocati in pensione successivamente al 1° gennaio 1988.

I giudizi riguardano la medesima questione e possono quindi essere riuniti e congiuntamente decisi.

2. -- La questione è inammissibile.

Per la peculiarità del sistema previdenziale in esame, la retribuzione dei dirigenti di aziende industriali è soggetta a contribuzione ed è pensionabile soltanto nel limite di un massimale fissato periodicamente con provvedimento del Ministro del lavoro; della quota di retribuzione eccedente tale massimale non si tiene conto nè ai fini contributivi, nè per il computo della pensione, la quale viene, come già detto, calcolata in ragione del massi male.

L'importo di quest'ultimo era originariamente più che doppio rispetto al minimo contrattuale, sì che la quasi totalità delle retribuzioni risultava contenuta al di sotto del medesimo, restando interamente assoggettata a contributi: in tal modo era assicurata una sostanziale corrispondenza tra pensioni e stipendi.

Con il succedersi delle tornate contrattuali, tuttavia, il minimo garantito dal contratto collettivo si incrementava progressivamente, mentre il massimale non veniva adeguato secondo un'eguale dinamica. Dal 1981, in particolare, i due valori tendono quasi a coincidere con la conseguenza che quote sempre maggiori delle retribuzioni reali, ormai ben al di sopra dei massimali, non rientravano più nel calcolo della pensione.

Il problema, seppure di diversa origine, si presentava quindi analogo, quanto ad effetti, al più generale tema dei "tetti pensionistici", dove il crescente divario tra retribuzione imponibile e limite massimo di retribuzione annua pensionabile produceva una compressione sempre maggiore dei trattamenti medio-alti. Di qui l'intento legislativo di correggere il meccanismo della perequazione -- ormai inidonea a garantire l'adeguatezza delle pensioni -- tradottosi nella legge 27 dicembre 1983, n. 730, in base alla quale la perequazione tornò ad operare in misura percentuale e, soprattutto, nell'art. 10 della legge 15 aprile 1985, n. 140.

Tale norma si proponeva di eliminare gli effetti negativi dell'anzidetto meccanismo attraverso una rivalutazione dei trattamenti aventi decorrenza anteriore al 1° luglio 1982, con separati provvedimenti che tenessero conto della specificità delle singole gestioni.

Questa Corte ha avuto già modo di rilevare "la natura del precetto come mera <cautio prodita de futuro>, in quanto promessa di interventi migliorativi avvenire" (cfr. sentenza n. 23 del 1989). In effetti nè gli indici di rivalutazione delle pensioni erogate dall'INPDAI fissati dal d.P.R. 11 febbraio 1987, n. 32, nè gli interventi disposti da successivi provvedimenti (in particolare il d.P.R. 24 ottobre 1989, n. 369, conseguente all'art. 4 della legge 29 dicembre 1988, n. 544, e il d.P.R. 8 agosto 1991, n. 294, a sua volta derivato dall'art. 2 bis, ultimo comma, della legge 27 febbraio 1991 n. 59) valsero a riavvicinare la curva d'incremento delle pensioni -- sempre più costrette dai massimali -- all'andamento, ben più crescente, delle retribuzioni.

Ma se per le altre categorie di lavoratori la definitiva correzione del sistema dei "tetti" pensionistici veniva segnata dall'art. 21 della legge 11 marzo 1988, n. 67 nella interpretazione adeguatrice datane da questa Corte con la sentenza n. 72 del 1990, non altrettanto può dirsi per i dirigenti di aziende industriali, esclusi dall'applicabilità di queste norme proprio per l'anzidetta peculiarità della loro forma di previdenza.

Per la categoria de qua venne dettata la norma impugnata.

Si leggono, nell'art. 3, secondo comma bis, tre distinte proposizioni: la prima ancora all'ultimo quinquennio lavorativo il criterio di calcolo delle retribuzioni pensionabili; la seconda stabilisce che, a partire dal 1° gennaio 1988, le pensioni dei dirigenti sono calcolate entro il limite del doppio dei massimali vigenti nel quinquennio anteriore a tale data; la terza disposizione delega al Ministro del lavoro le modalità applicative di tale operazione.

In concreto, il decreto ministeriale 25 luglio 1988, n.422 dispose che i massimali fossero presi in considerazione tout court per il doppio del loro importo, senza alcun aggravio contributivo per i beneficiari.

Pertanto i dirigenti di azienda collocati in pensione nel dicembre del 1987 si sono visti calcolare il trattamento sulla base dell'80% della media dei massimali vigenti nel previgente quinquennio, mentre i colleghi pensionati nel gennaio del 1988 si sono giovati degli stessi importi raddoppiati, senza che ciò abbia comportato alcuna diversità nelle contribuzioni: a parità di situazioni si è perciò realizzato un trattamento nettamente diversificato.

A partire dal 1° gennaio 1988 (ma solo da quella data), sono poi variate le aliquote contributive, ragguagliate ai nuovi massimali che da quel momento hanno preso a divergere nuovamente in modo sensibile dai minimi contrattuali.

3. -- É la stessa ricostruzione della vicenda a porre in luce da un lato l'irragionevolezza della normativa de qua e della sua esecuzione, e d'altro canto gli elementi che non consentono di ammettere il giudizio di legittimità costituzionale.

Questa Corte ha già censurato, proprio sul tema in esame, nella citata sentenza n. 72 del 1990, la situazione che vede aggiungersi "al permanere di un trattamento inadeguato [...] l'aggravante di una sua consistente divaricazione rispetto a quello riservato a soggetti versanti nelle medesime condizioni, e ciò sulla base del mero dato temporale del collocamento a riposo".

Del pari, in riferimento all'analogo tema dell'inadeguatezza del trattamento di quiescenza, si è escluso che "si possa attuare un riequilibrio di pensioni solo a favore di coloro le cui esigenze sono meno pressanti" (sentenza n. 1 del 1991).

Nel caso in esame al medesimo arco di tempo (quinquennio 1983-1987) è stato attribuito un valore doppio esclusivamente per il computo della pensione e soltanto per coloro che concludevano l'attività lavorativa dopo il 1° gennaio 1988: costoro avevano in comune il quinquennio considerato con i colleghi pensionati prima di tale data ed avevano versato gli stessi contributi. In loro favore è stato quindi disposto un trattamento privilegiario ponendo una cesura temporale tanto brusca quanto ingiustificata.

Ma appare assai dubbio che la norma impugnata abilitasse realmente l'Amministrazione a porre in essere una situazione così palesemente contrastante con la logica, ancor prima che con le richiamate affermazioni di questa Corte.

Il nuovo calcolo era prescritto "entro il limite pari al doppio dei massimali", mentre il citato decreto ministeriale n. 422 del 1988, oltre a raddoppiare senz'altro gli stessi, non ha poi previsto alcuna forma di recupero contributivo a carico dei dirigenti interessati (così lasciando un "vuoto" di contribuzione nella vita lavorativa degli stessi, utile per il calcolo delle prestazioni pensionistiche).

L'illegittimità costituzionale, nell'ottica necessariamente circoscritta offerta dalla prospettazione, sembrerebbe sostanziarsi nella concessione stessa del beneficio o meglio nella previsione regolamentare che ne ha determinato le modalità, più che nella mancata estensione del medesimo.

A tale duplice ragione d'inammissibilità devono poi aggiungersi altre considerazioni.

L'eliminazione dell'inciso "con decorrenza a partire dal 1° gennaio 1988" non varrebbe a risolvere il problema del trattamento pensionistico dei dirigenti d'azienda in quanto, con l'effetto di retrodatare il raddoppio dei massimali, ricondurrebbe una ingiustificata, seppur meno brusca, demarcazione temporale al periodo anteriore al 1° gennaio 1983, in cui -- come si è detto -- era già in atto una sensibile compressione delle pensioni.

Ma, soprattutto, il raddoppio dei massimali senza un correlativo recupero delle perequazioni medio tempore intervenute ed in assenza di un'equa regola di contribuzione, determinerebbe un assetto incoerente del sistema.

Compete viceversa al legislatore un intervento di razionalizzazione complessiva, volto a ripristinare la legittimità costituzionale del tessuto normativo, intervento che non appare ulteriormente dilazionabile: la questione non potrà infatti non essere riconsiderata, anche sotto profili diversi, ove non si provveda ad armonizzare e non già a segmentare nel tempo la linea diagrammatica che segna l'andamento dei trattamenti pensionistici in argomento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma bis, del decreto- legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Torino e dal Pretore di Milano, con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 08/02/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Francesco Paolo CASAVOLA, Redattore

Depositata in cancelleria il 16/02/93.