Sentenza n. 41 del 1993

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SENTENZA N. 41

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 425, primo comma, del codice di procedura penale promosso con ordinanza emessa il 9 luglio 1992 dalla Corte costituzionale nel procedimento penale a carico di Colli Antonio, iscritta al n. 509 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

l. Con ordinanza del 13 giugno 1991, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia, all'esito della udienza preliminare celebrata a carico di persona imputata di parricidio, riconosciuta totalmente incapace di intendere e di volere e giudicata socialmente pericolosa, ha sollevato questione di legittimità, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell'art.426, lett. c), del codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma - in caso di sentenza di non luogo a procedere per infermità psichica - preclude al giudice per le indagini preliminari di tener conto delle circostanze attenuanti e di effettuare il giudizio di comparazione di cui all'art. 69 del codice penale tra queste e le circostanze aggravanti, ai fini dell'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o della determinazione della sua durata minima ai sensi dell'art.222 del codice penale.

L'ordinanza di rimessione si fonda sulla sentenza di questa Corte n. 233 del 1984, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 384, n. 2, del codice abrogato - che si assume essere corrispondente alla norma del nuovo codice impugnata dal rimettente - negli stessi termini che costituiscono oggetto della questione sottoposta all'esame della Corte. Rileva in proposito il rimettente che il giudice della udienza preliminare non ha il potere di interloquire sulle circostanze, come è dimostrato da quelle disposizioni che eccezionalmente conferiscono un simile potere a fini particolari (cfr. art. 4 del d.P.R. 12 aprile 1990 n. 75 in tema di amnistia). Da qui l'integrale rinvio alle considerazioni svolte dalla Corte nella richiamata sentenza n. 233 del 1984, del cui dispositivo, dunque, si domanda la estensione alla pertinente norma del nuovo codice di rito.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Ha osservato in proposito l'Avvocatura che la sentenza di questa Corte n. 233 del 1984 fu determinata dalla giurisprudenza dell'epoca, secondo la quale era inibita la valutazione delle circostanze attenuanti e il relativo giudizio di bilanciamento con le circostanze aggravanti. Tuttavia, afferma la difesa dello Stato, anche se il nuovo codice non ha risolto espressamente tale aspetto, è da ritenere che la norma impugnata non precluda al giudice per le indagini preliminari di tener conto delle circostanze attenuanti ai fini dell'applicazione della misura di sicurezza, tanto più che la norma non potrebbe essere diversamente interpretata alla luce della citata sentenza della Corte.

3. Con ordinanza n. 378 emessa il 9 luglio 1992 e depositata il 27 luglio 1992, la Corte, nel disporre la sospensione del giudizio introdotto con l'ordinanza pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia, ha sollevato davanti a sè, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 425, primo comma, del codice di procedura penale nella parte in cui stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere quando risulta evidente che l'imputato è persona non imputabile. Nel provvedimento con il quale è stato introdotto il nuovo giudizio incidentale di costituzionalità, la Corte ha infatti ritenuto pregiudiziale all'esame della questione sollevata dal giudice a quo la verifica della legittimità costituzionale in parte qua dell'art. 425 del codice di procedura penale, osservando come tale nesso di pregiudizialità potesse essere agevolmente desunto "dalla circostanza che, mentre l'art.426 dello stesso codice disciplina i requisiti della sentenza di non luogo a procedere ed enuncia, fra questi, l'imputazione, così da aver indotto il remittente a intravedere la <<estensibilità>> dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 233 del 1984, con la quale venne dichiarata l'illegittimità costituzionale del corrispondente art. 384 n.2 del codice abrogato, è l'art. 425 del nuovo codice che disciplina le formule e la regola di giudizio con le quali viene adottata la sentenza di non luogo a procedere; sicchè, solo dopo aver verificato la legittimità costituzionale della norma che consente al giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità, è possibile affrontare la questione che ha dato vita al presente giudizio e, per l'effetto, esaminare la fondatezza del petitum che il giudice a quo mostra di perseguire".

Nel merito, la questione che la Corte ha ritenuto di sollevare davanti a sè ipotizza il contrasto dell'art. 425 del codice di procedura penale con tre distinti parametri di costituzionalità.

Tenuto conto, infatti, che la peculiare regola di giudizio ivi enunciata fa carico al giudice di apprezzare il merito della imputazione alla stregua del circoscritto parametro della "non evidenza" che il fatto non sussista, l'imputato non lo abbia commesso o che il fatto non costituisca reato, la declaratoria di non luogo a procedere per difetto di imputabilità finisce per fondarsi su di un "accertamento di responsabilità che tiene conto solo della non manifesta infondatezza dell'addebito". Da qui il sospetto "di una irragionevole compressione del diritto di difesa", posto che la persona non imputabile "viene ad essere per ciò solo privata del dibattimento e della conseguente possibilità di esercitare appieno il diritto alla prova sul merito della regiudicanda".

Si prospetta, inoltre, violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto nei confronti dei soggetti ugualmente non imputabili, la possibilità "di fruire dell'epilogo dibattimentale e delle con seguenti garanzie viene fatta dipendere esclusivamente dal tipo di modulo processuale adottato", considerato che la preclusione a quell'epilogo che scaturisce dalla sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità, "non si realizza in tutte le altre ipotesi in cui manca, come nel giudizio direttissimo e nel procedimento davanti al pretore, la fase dell'udienza preliminare".

Questa Corte, infine, ha ritenuto di dover dedurre anche la violazione dell'art. 76 della Costituzione, motivando il dubbio di eccesso di delega sul presupposto che il numero 52, sesto periodo, dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, non annovera il difetto di imputabilità tra le cause che legittimano la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

Considerato in diritto

l. La questione che forma oggetto del presente giudizio si incentra su uno dei possibili epiloghi che, alla stregua delle diverse formule con le quali il giudice è chiamato a pronunciare la sentenza di non luogo a procedere, definiscono quella particolare fase del nuovo processo che è rappresentata dalla udienza preliminare. Viene qui in discorso, infatti, il potere-dovere del giudice di definire il processo con una sentenza che, non senza significato sul piano sistematico, è definita "di non luogo a procedere", nella specifica ipotesi in cui, allo stato degli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari o della stessa udienza preliminare, risulti evidente che il soggetto nei confronti del quale il pubblico ministero ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio è persona non imputabile.

Una succinta disamina della giurisprudenza costituzionale dalla quale ha tratto spunto il quesito proposto dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia, costituisce l'ineludibile premessa per svelare la fondatezza del dubbio di costituzionalità che questa Corte ha ritenuto di prospettare in merito all'art. 425 del codice di procedura penale.

Nella già richiamata sentenza n. 233 del 1984, infatti, si rammenta come l'applicazione di misure di sicurezza con la sentenza istruttoria di proscioglimento fosse stata già contestata in passato con riferimento alla salvaguardia del diritto di difesa, sul presupposto che, "avendo il giudice istruttore il solo compito di acquisire le prove, e non anche quello di valutarle definitivamente e di accertare così l'esistenza del reato, tale fondamentale diritto verrebbe ad essere compromesso e la misura di sicurezza verrebbe ad essere applicata in base ad elementi di prova che, se relativi ad un soggetto imputabile, sarebbero idonei solo a giustificare il rinvio a giudizio". La replica offerta dalla Corte nella sentenza n. 127 del 1979 è, per ciò che qui interessa, quanto mai appropriata, essendosi ivi precisato che "la sentenza di proscioglimento istruttorio, al pari di quella pronunciata in dibattimento, contiene un'espressa pronuncia sul fondamento dell'accusa; che la difesa è garantita nella fase istruttoria mediante il deposito degli atti e la facoltà dei difensori di presentare istanze e memorie, quindi anche di chiedere l'espletamento di altri mezzi di prova e la rinnovazione di quelli già espletati; che infine, il G.I. non può <<ignorare le istanze della difesa, sulle quali è obbligato a provvedere con ordinanza o con sentenza al fine di garantire ogni ulteriore rimedio giuridico>>".

Evocata, dunque, nella stessa sentenza n.233 del 1984, "l'ampiezza del giudizio demandato al giudice istruttore - come al giudice del dibattimento -", la Corte, richiamando quanto già affermato nella sentenza n. 139 del 1982, non ha mancato di puntualizzare come in tale giudizio occorresse svolgere un positivo accertamento della "riferibilità di un fatto di reato ad un soggetto che al momento della commissione era incapace di intendere o di volere per infermità psichica". Facendo così leva sulla natura e sulla portata della delibazione riservata al giudice istruttore, e nel prendere atto di come la giurisprudenza fosse ormai consolidata nell'ammettere che al giudice del dibattimento fosse consentito di operare il giudizio di comparazione tra le circostanze ai fini della applicazione o della determinazione della durata minima della misura di sicurezza a norma dell'art. 222 del codice penale, la Corte pervenne allora alla conclusione di ritenere che "un criterio diverso e più restrittivo nella fase istruttoria" fosse al tempo stesso lesivo "delle garanzie costituzionali di uguaglianza e di inviolabilità <<in ogni stato e grado del procedimento>> del diritto di difesa".

Gli appena accennati precedenti di questa Corte, rivelano come principi e affermazioni coerentemente iscritti nel sistema delineato dal codice previgente rinvengano una ben diversa chiave di lettura ove calati nello scenario, per certi versi antagonistico, tracciato dal nuovo codice di rito. Alla scomparsa del giudice istruttore e della corrispondente fase, infatti, si contrappone una articolata sequenza di "segmenti" processuali (le indagini e l'udienza preliminare), fra loro profondamente diversi per finalità, tipologia di atti e soggetti che li governano, e, ciò che più conta, in sè privi di quella funzione tipica di acquisizione probatoria che invece contraddistingueva, secondo gli ampi confini tracciati dall'art. 299 del codice abrogato, le attribuzioni dell'istruttore nella fase antecedente il giudizio e sulla cui falsariga venivano dunque a misurarsi anche i diritti e i poteri processuali delle parti.

Il postulato della ampiezza delibativa riservata al giudice istruttore - chiamato ad accertare non solo la riferibilità di un fatto di reato ad un soggetto incapace di intendere o di volere, ma anche ad utilizzare tutti gli elementi di prova raccolti "per trarne le conseguenze sul piano della valutazione della gravità del fatto del non imputabile", così da rendere effettiva e non meramente teorica la pienezza del diritto di difesa (v. sent. n. 233 del 1984) - finisce dunque per rinvenire, nel quadro del nuovo sistema processuale, ostacoli insormontabili, al punto da risultarne minato alla radice il fondamento stesso. Se da un lato, infatti, la finalità delle indagini è esclusivamente quella di consentire al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (art. 326), neppure l'udienza preliminare è sede di acquisizione probatoria destinata " all'accertamento della verità", volgendosi l'intervento del giudice ad apprezzare il fondamento dell'accusa non in termini di positiva verifica della colpevolezza dell'imputato, ma nella ben diversa prospettiva di scongiurare la celebrazione di un dibattimento superfluo. Verifica, dunque, che opera su di un piano squisitamente processuale, essendo il giudice chiamato a decidere non sul pieno merito della regiudicanda, ma sulla ammissibilità o meno della domanda di giudizio rivolta dal pubblico ministero. Posto che "non esistono, dunque, prove nell'udienza preliminare nè significativo accertamento dei fatti, che si profileranno soltanto al dibattimento" (v. sent. n. 431 del 1990), ben si spiega non solo e non tanto la specifica denominazione di "non luogo a procedere" che qualifica - rendendone evidente la peculiarità - la sentenza che definisce l'udienza preliminare, ma, soprattutto, la regola di giudizio che sottende l'adozione di quella pronuncia. Attuando, infatti, una precisa scelta operata dal legislatore delegante, evidentemente mossa dall'intento di rimarcare la centralità del dibattimento come sede fisiologicamente destinata all'esercizio del diritto alla prova, l'art. 425 del nuovo codice chiama il giudice della udienza preliminare a valutare il merito della imputazione con esclusivo riferimento ad un parametro di "non evidenza" che il fatto non sussista, l'imputato non lo abbia commesso o che il fatto non costituisca reato. Le conseguenze che allora possono trarsi ai fini che qui rilevano, sono a questo punto chiare: il sistema delineato dall'art.425 del codice di procedura penale finisce infatti per imporre al giudice la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità, applicando, se del caso, le misure di sicurezza, all'esito e sulla base di un accertamento di responsabilità che si fonda solo sull'etereo presupposto della non evidente infondatezza dell'addebito, risultando in tal modo palesemente sviliti i principi e le affermazioni che hanno sostenuto la giurisprudenza costituzionale che si è innanzi richiamata.

La norma va dunque dichiarata costituzionalmente illegittima in parte qua, in quanto la persona non imputabile viene ad essere per ciò solo privata del dibattimento e della conseguente possibilità di esercitare appieno il diritto alla prova sul merito della regiudicanda, con correlativa irragionevole compressione del diritto di difesa che non può certo ritenersi bilanciata da contrapposte esigenze di economia processuale.

Nè a sanare l'indicato contrasto può invocarsi la possibilità che l'art. 419, quinto comma, del codice di rito riconosce all'imputato di "rinunciare all'udienza preliminare e richiedere il giudizio immediato", giacchè, a tacer d'altro, sarebbe davvero singolare un sistema che, per consentire all'imputato di esercitare il fondamentale diritto di difesa in ogni stato e grado del processo, gli imponesse la rinuncia - che non a caso il codice costruisce come "atto personalissimo" - ad una fase del processo destinata proprio a consentire l'esercizio di quel diritto.

2. La questione che la Corte ha ritenuto di sollevare davanti a sè è fondata anche con riferimento alla dedotta violazione del principio di uguaglianza.

Se da un lato, infatti, permane attuale il rilievo secondo il quale deve ritenersi "priva di ogni fondamento razionale una previsione normativa che riconnetta un diverso trattamento... alla circostanza, meramente casuale, che la sussistenza dell'incapacità di intendere o di volere per infermità psichica al momento del fatto emerga già nella fase istruttoria, ovvero sia accertata solo nella fase dibattimentale" (v. sent. n. 233 del 1984), va qui posta in risalto la circostanza che il sistema delineato dall'art. 425 del codice di procedura penale genera una ingiustificata disparità di trattamento tra quanti versano nella identica situazione di non imputabilità, dal momento che per costoro la possibilità di fruire dell'epilogo dibattimentale e delle conseguenti garanzie viene fatta dipendere esclusivamente dal modulo processuale adottato.

Mentre, infatti, nei confronti del non imputabile a carico del quale si celebra l'udienza preliminare si determina una preclusione all'esercizio dei propri diritti in dibattimento, essendo il giudice chiamato a pronunciare sentenza di non luogo a procedere con la corrispondente formula, una analoga preclusione non si realizza, invece, in tutte le altre ipotesi in cui manca, come nel giudizio di rettissimo e nel procedimento davanti al pretore, la fase dell'udienza preliminare, il cui svolgimento, per di più, è condizionato dall'esistenza di una richiesta che si raccorda alle scelte sul rito che l'ordinamento riserva al pubblico ministero.

3. Parimenti fondato deve da ultimo ritenersi il dubbio che la previsione di cui qui si tratta sia in contrasto anche con l'art.76 della Costituzione, per essere la stessa non conforme ai principii e criteri direttivi al riguardo stabiliti nel numero 52), sesto periodo, dell'art. 2 della legge- delega 16 febbraio 1987, n. 8l.

Al di là, infatti, del dato formale rappresentato dalla mancata previsione del difetto di imputabilità tra le cause che legittimano la sentenza di non luogo a procedere, secondo la rassegna operata nella indicata direttiva della legge-delega, militano più ampie considerazioni di ordine sistematico per suffragare l'assunto che ad un simile silenzio debba riconoscersi il valore di volontà contraria alla scelta operata dal legislatore delegato. Se, infatti, l'udienza preliminare è sede nella quale il merito è accertato soltanto entro i circoscritti confini della non evidente infondatezza dell'accusa, così da impedire che l'imputato giunga al cospetto del giudice dibattimentale già gravato da una pronuncia che ne ha positivamente delibato la responsabilità e che si fonda su elementi di prova che l'organo del dibattimento neppure conosce, è da ritenere che il legislatore delegante abbia voluto riservare proprio a quest'ultimo organo la delibazione del difetto di imputabilità, postulando la stessa il necessario accertamento di responsabilità in ordine al fatto-reato che può compiutamente svolgersi solo in sede dibattimentale.

D'altra parte, un sicuro indice che questa e non altre fosse la scelta operata dal legislatore delegante, può agevolmente desumersi dall'art. 3 della stessa legge n. 81 del 1987, là dove, nel conferire delega al Governo a disciplinare il processo penale a carico di imputati minorenni, espressamente stabilisce, nella lettera l), la "previsione che il giudice nell'udienza preliminare possa prosciogliere anche per la non imputabilità, ai sensi dell'art. 98 del codice penale,", così ponendo in evidenza come alla eccezionalità di tale previsione, dettata dall'esigenza di salvaguardare le peculiarità insite nella condizione minorile, faccia riscontro, nel procedimento a carico di imputati maggiorenni, l'opposta disciplina.

Da questi ultimi rilievi ed in considerazione delle specifiche connotazioni che caratterizzano il processo penale minorile, consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di rito non è produttiva di effetti quanto all'art. 32 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui tale previsione, strutturalmente autonoma, opera un richiamo ai "casi previsti dall'articolo 425 del codice di procedura penale".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 425, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere quando risulta evidente che l'imputato è persona non imputabile.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28/01/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 10/02/93.