Sentenza n. 477 del 1992

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SENTENZA N. 477

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-          Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

-          Dott. Francesco GRECO

-          Prof. Gabriele PESCATORE

-          Avv. Ugo SPAGNOLI

-          Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-          Avv. Mauro FERRI

-          Prof. Luigi MENGONI

-          Prof. Enzo CHELI

-          Dott. Renato GRANATA

-          Prof. Francesco GUIZZI

-          Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 197, lett.c), del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 3 marzo 1992 dal Tribunale di Viterbo nel procedimento penale a carico di De Carolis Primo Pietro, iscritta al n. 333 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Viterbo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 197, lett. c), del codice di procedura penale "nella parte in cui prevede l'incompatibilità con l'ufficio di testimone solo per il soggetto formalmente presente come responsabile civile nel processo penale e non anche per quello che in un processo civile possa essere ritenuto tale".

2. Il giudice remittente premette che l'art. 197, lett. c), del codice di procedura penale, il quale dichiara l'incompatibilità del responsabile civile con l'ufficio di testimone, deve essere interpretato come riferito alla sola ipotesi di responsabile civile che sia parte nel processo penale: ciò sia perchè nei lavori preparatori la limitazione è giustificata dalla possibilità di sottoporre il responsabile civile ad esame, sia perchè le regole di incompatibilità dei testimoni non consentono, per loro natura, interpretazioni estensive.

Ciò posto, il Tribunale di Viterbo ritiene che la norma così interpretata ponga un problema di legittimità costituzionale in quanto colloca su piani diversi due soggetti che, in prospettiva, sono entrambi esposti a responsabilità patrimoniale personale, laddove:

a) il non partecipante al processo penale è, come testimone, soggetto a tutti i relativi doveri, mentre il partecipante, potendo soltanto essere sottoposto ad esame, non è soggetto agli stessi obblighi;

b) l'imputato - e, quindi, di riflesso il responsabile civile - potrebbe trarre vantaggio da una sentenza di assoluzione, basata su quella testimonianza, nel giudizio civile di danno.

A suo avviso, inoltre, occorrerebbe considerare che l'alternativa tra la partecipazione o meno al dibattimento non dipende da scelta del responsabile civile, giacchè questi può costituirsi come parte solo se citato dalla parte civile o, secondo i casi, dal pubblico ministero (artt.83 e 84 del codice di procedura penale) ovvero può intervenire volontariamente solo se c'è costituzione di parte civile ovvero esercizio di azione civile ex art. 77, quarto comma, del codice di procedura penale da parte del pubblico ministero (art. 85 del codice di procedura penale).

3. Infine, conclude il remittente, ove la questione fosse riconosciuta fondata, e quindi qualora il soggetto che anche astrattamente può assumere la qualità di responsabile civile fosse ritenuto incompatibile con l'ufficio di testimone, l'unica via per dare ingresso nel procedimento penale alle sue dichiarazioni sarebbe quella di estendere le regole contemplate dagli artt. 83 e ss. del codice di procedura penale (per renderne concretamente possibile la partecipazione al processo) e, sul piano operativo, le regole di cui agli artt. 208 e ss. del codice di procedura penale sull'esame.

4. É intervenuto nel giudizio il Presidente del consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.

La difesa del governo ritiene che non si frapponga nessun ostacolo ad interpretare la norma nel senso che l'incompatibilità a testimoniare ivi prevista si estenda anche al caso in cui il responsabile civile non sia parte nel processo penale. Soprattutto se, come ritenuto dal Tribunale di Viterbo, tale interpretazione sia corrispondente ai principi costituzionali.

In ogni caso, conclude l'Avvocatura, anche ammesso che l'interpretazione restrittiva sia l'unica possibile, la diversità di trattamento che ne deriva (la incompatibilità con l'ufficio di testimone limitata al responsabile civile costituito e non anche al responsabile civile non costituito) sarebbe assolutamente irrilevante sul piano degli interessi soggettivi e comunque giustificata dal ruolo di parte che il responsabile civile, costituito o intervenuto, svolge nel processo penale.

Considerato in diritto

1. La questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio di questa Corte dal Tribunale di Viterbo concerne l'art. 197, lett.c), del codice di procedura penale nella parte in cui prevede l'incompatibilità con l'ufficio di testimone solo per il soggetto che abbia formalmente assunto la qualità di responsabile civile nel processo penale e non anche per quello che nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno possa essere ritenuto tale. La mancata previsione di detta incompatibilità contrasterebbe con l'art. 3 della Costituzione dando luogo - ad avviso del giudice remittente - ad una disparità di trattamento fra due soggetti egualmente passibili di responsabilità patrimoniale in conseguenza dei fatti oggetto di giudizio penale.

2. La questione non è fondata.

Nel disciplinare tassativamente i casi di incompatibilità con l'ufficio di testimone, il legislatore ha considerato - come recita la relazione al progetto preliminare - "che l'interesse di un soggetto in ordine all'oggetto del processo non deve essere di per sè motivo di esclusione della sua testimonianza, ma può solo costituire uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice si deve avvalere nell'apprezzare l'attendibilità della prova". In coerenza con tale criterio non è stata prevista l'incompatibilità a testimoniare per la parte civile, ritenendosi che la "rinuncia al contributo probatorio della parte civile costituisce un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale", e la questione di legittimità costituzionale sollevata a questo proposito sull'art. 197, lett. c), è stata dichiarata manifestamente infondata da questa Corte con ordinanza n. 115 del 1992. La medesima disposizione del citato art. 197 ha escluso dall'ufficio di testimone il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, dato lo stretto collegamento esistente fra la posizione di costoro e la sorte dell'imputato.

Ma tale legame si realizza nel processo penale, per quanto attiene il responsabile civile, soltanto quando questi sia costituito formalmente perchè citato dalla parte civile (art. 83 del codice di procedura penale) o dal pubblico ministero (art. 84), ovvero intervenga volontariamente nelle ipotesi di cui all'art. 85 dello stesso codice.

Ben diversa è la posizione di colui che possa, successivamente al processo penale, esser chiamato a rispondere civilmente per il fatto dell'imputato.

Mentre nel primo caso il soggetto è stato chiamato in giudizio, o vi è volontariamente intervenuto riconoscendo così la sua dipendenza dalla posizione dell'imputato, nella seconda ipotesi si tratta di persona che non è parte nel processo penale, nei cui confronti l'esercizio di un'azione civile per il risarcimento dei danni cagionati dall'imputato è soltanto un'ipotesi futura ed eventuale. Beninteso anche in ordine alla testimonianza di tale soggetto è applicabile quanto è affermato nella citata ordinanza n. 115 del 1992 a proposito della persona offesa dal reato: "la deposizione...deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico, non potendosi essa equiparare puramente e semplicemente a quella del testimone immune dal sospetto di interesse all'esito della causa".

Ma vi è di più: a sottolineare la diversità delle posizioni dei due soggetti vanno considerate le disposizioni dell'art. 651 del codice di procedura penale (concernenti l'efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno) in base al quale la sentenza penale irrevocabile di condanna fa stato nei confronti del responsabile civile solo se questi abbia avuto la possibilità di partecipare al processo penale.

Nel caso contrario, colui che sia successivamente chiamato a rispondere in un giudizio civile non subirà automatico pregiudizio dall'esito del precedente processo penale, in quanto il giudice civile potrà apprezzare diversamente i fatti in base alle norme sostanziali di cui è destinatario, con tutti i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili.

Si tratta dunque di due soggetti in posizione diversa e non comparabile, per i quali la differenza di regime in ordine alla incompatibilità con l'ufficio di testimone non integra violazione alcuna dell'art. 3 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.197, lett. c), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Viterbo con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/12/92.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22/12/92.