Sentenza n. 467 del 1992

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SENTENZA N. 467

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-          Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-          Prof. Giuseppe BORZELLINO

-          Dott. Francesco GRECO

-          Prof. Gabriele PESCATORE

-          Avv. Ugo SPAGNOLI

-          Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-          Prof. Antonio BALDASSARRE

-          Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-          Avv. Mauro FERRI

-          Prof. Luigi MENGONI

-          Prof. Enzo CHELI

-          Dott. Renato GRANATA

-          Prof. Giuliano VASSALLI

-          Prof. Francesco GUIZZI

-          Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.P.R.26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche), promosso con ordinanza emessa il 12 giugno 1991 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Camerino Vincenzo ed altri, iscritta al n. 724 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di costituzione di Guadagnino Angelo nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 20 ottobre 1992 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

uditi gli avvocati Giovanni Leale e Valerio Onida per Guadagnino Angelo e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 12 giugno 1991 il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 8 e 53 della Costituzione, dell'art.4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche).

La questione è stata sollevata, ad istanza del pubblico ministero, nel corso di un processo penale a carico di Camerino Vincenzo e di altri membri responsabili dell'associazione non riconosciuta Dianetics Institute di Torino, ai quali erano stati contestati i reati previsti dall'art. 1, secondo comma, numeri 1 e 2, della legge n. 516 del 1982 [recte del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, con legge 7 agosto 1982, n. 516], per le omesse fatturazione ed annotazione di corrispettivi relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuati dalla associazione nell'anno 1986. Nel procedimento penale gli imputati avevano affermato di non avere provveduto ai richiesti adempimenti fiscali, ritenendo che l'associazione non fosse soggetta alle relative imposte: per quanto riguarda l'I.V.A., in base all'art. 4 del d.P.R.26 ottobre 1972, n.633; per quanto riguarda l'I.R.PE.G., in base all'art. 20, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598. Le due disposizioni, con identica formulazione, considerano fatte nell'esercizio di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso il pagamento di corrispettivi specifici, ma escludono espressamente "quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

2. - Il Tribunale di Torino ritiene che le disposizioni denunciate accordino esenzioni generalizzate alle associazioni religiose e dubita che ciò sia in contrasto con principi costituzionali, tenuto conto delle leggi che disciplinano, anche sotto il profilo fiscale, i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose che hanno stipulato le intese previste dall'art. 8 della Costituzione.

Il giudice rimettente ricorda che la Costituzione garantisce, agli artt. 19 e 20, la libera professione della fede religiosa in forma individuale ed associata, affermando in particolare che il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto di una associazione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali per la costituzione, la capacità giuridica ed ogni forma di attività. Ne risulterebbe il divieto di discriminare, anche sul piano fiscale, la posizione delle associazioni religiose rispetto ad altri soggetti d'imposta. Inoltre l'art. 8 della Costituzione, garantita l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose, riserva alla legge la regolamentazione dei rapporti tra le confessioni religiose diverse dalla cattolica, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano, e lo Stato, sulla base di intese con le relative rappresentanze. I rapporti con la Chiesa cattolica sono regolati dall'Accordo del 18 febbraio 1984, ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121, e dalle disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici (legge 20 maggio 1985, n. 222).

Per altre confessioni religiose si è pervenuti alla stipulazione di intese: con le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, con l'Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7' giorno, con le Assemblee di Dio in Italia e con l'Unione delle Comunità israelitiche.

Il Tribunale di Torino osserva che il regime fiscale riservato alle confessioni religiose in base alle intese è modellato sull'Accordo con la Chiesa cattolica, che distingue tra attività di religione e di culto, di beneficenza o di istruzione (equiparate fra loro ai fini tributari, ai sensi dell'art. 7, terzo comma, dell'Accordo del 1984) ed attività diverse da queste o comunque aventi natura commerciale o scopo di lucro (art. 16, lettera b, della legge 20 maggio 1985, n.222).

Anche le intese con altre confessioni religiose sottopongono le attività diverse da quelle di religione e di culto al regime fiscale ordinario.

Il giudice rimettente ritiene quindi che le norme di esenzione denunziate troverebbero applicazione solo nei confronti degli enti religiosi non riconosciuti, dando luogo ad una diseguaglianza proprio in danno delle confessioni i cui statuti sono stati verificati come non in contrasto con i principi dell'ordinamento giuridico italiano.

Inoltre l'applicazione delle esenzioni previste dall'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dall'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973 si fonderebbe, ad avviso del Tribunale di Torino, sull'autoattribuzione da parte dell'associazione del carattere di religiosità, non essendo richiesto un controllo della conformità degli statuti ai principi dell'ordinamento giuridico: ne risulterebbe, anche sotto questo profilo, una disparità di trattamento con gli enti religiosi che (in base all'art. 8 della Costituzione) si sono sottoposti al riconoscimento.

Il regime fiscale, che si assume differenziato, non troverebbe giustificazione e, posto che tutti gli enti aventi natura religiosa sono tutelati con assoluta parità, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.

3. - Si è costituito uno degli imputati nel giudizio a quo, Angelo Guadagnino, affermando, nell'atto di costituzione ed in una successiva memoria, che non sussiste la disparità di trattamento ritenuta dall'ordinanza del Tribunale di Torino, giacchè le norme sospettate di illegittimità costituzionale riservano a tutte le associazioni religiose il medesimo trattamento fiscale. Se pure vi fosse un regime differenziato e deteriore per le confessioni religiose che hanno stipulato intese, è da considerare che tale regime particolare è stato liberamente accettato.

Inoltre l'art. 8 della Costituzione prevede che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere, ma non che sono eguali, nel senso che le diverse intese possono determinare trattamenti differenziati.

4. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità e, nel merito, per la non fondatezza della questione.

L'Avvocatura osserva, nell'atto di intervento, che le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale non prevedono una "esenzione" in senso tecnico, ma si limitano a sottrarre talune cessioni di beni e prestazioni di servizi ad una qualificazione ope legis che altrimenti le includerebbe tra le cessioni fatte nell'esercizio di attività commerciali.

Queste disposizioni si applicano soltanto nei confronti di soggetti qualificati, in base ad una valutazione distinta e logicamente anteriore ad ogni altra, enti non commerciali. L'Avvocatura ne deduce l'inammissibilità della questione, giacchè il giudice rimettente avrebbe dovuto prima qualificare la associazione Dianetics Institute come soggetto non commerciale, mentre si è in presenza di una associazione che commercializza beni e servizi ponendo in essere attività oggettivamente commerciali. Non si tratta dunque di una confessione o di una associazione religiosa, non essendo sufficiente per tale qualificazione una "autoproclamazione".

5. - In una successiva memoria l'Avvocatura ricorda che le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale (che non prevedono una esenzione in senso tecnico, ma esprimono una norma apparentemente qualificatoria e sostanzialmente agevolatrice) sono state emanate con decreto delegato sulla base della legge 9 ottobre 1971, n.825, e dubita che siano validamente sorrette da un criterio enunciato in modo idoneo dalla legge di delega.

L'Avvocatura ribadisce che la religiosità dell'associazione in questione, le cui attività avrebbero carattere univocamente commerciale, risulta soltanto da una "autoproclamazione" che si vorrebbe utile anche ai fini fiscali, mentre quando e per quanto l'associazione chiede benefici allo Stato, la qualificazione religiosa deve essere collegata ad atti formali statali, anche ai sensi della legge 24 giugno 1929, n. 1159, e delle altre norme, pur secondarie, in tema di culti diversi da quello cattolico.

6. - In prossimità dell'udienza la difesa della parte privata ha depositato una ulteriore memoria ed ha osservato che la questione di legittimità prospettata dovrebbe essere ritenuta inammissibile, in quanto tendente a produrre effetti penali in malam partem: da una ipotetica sentenza di accoglimento deriverebbe, infatti, la espansione dell'area di applicabilità di una norma incriminatrice.

Inoltre, con riferimento al principio di eguaglianza, la questione sarebbe stata erroneamente prospettata. Il giudice a quo mette a raffronto le norme impugnate, contenute in testi che dettano la disciplina generale in materia di I.V.A. e di imposte sui redditi, con le norme di derivazione concordataria o attuative delle intese, che definiscono i principi relativi al regime delle attività svolte dagli enti appartenenti alle confessioni religiose cui gli accordi o le intese si riferiscono.

Tale confronto è mal posto in quanto si tratta di norme fra loro eterogenee per portata e ratio.

Le disposizioni di derivazione concordataria e di attuazione delle intese, per quanto attiene al regime tributario, si limitano a stabilire che i fini di religione e di culto sono assimilati a quelli di istruzione e di beneficenza, mentre le altre attività (ad esempio commerciali) eventualmente svolte dalle organizzazioni confessionali restano soggette alla disciplina generalmente prevista per ciascun tipo di attività.

Le disposizioni impugnate sono invece dirette a definire i presupposti per l'applicazione di determinate imposte e, nel definire le attività commerciali, non considerano tali le cessioni o prestazioni effettuate a favore dei soci, associati o partecipanti, da determinate categorie di associazioni, tra le quali sono comprese anche le associazioni religiose.

Il giudice a quo sarebbe caduto nell'equivoco di ritenere le norme impugnate applicabili solo alle confessioni religiose diverse da quelle oggetto di concordato o di intesa, mentre, al contrario, le norme in questione, definendo le attività "commerciali" ai fini tributari, hanno portata generale e si applicano a tutte le associazioni religiose (nonchè culturali, politiche, sindacali e sportive), siano esse o meno contemplate dal concordato o da intese. Ne risulterebbe errato non solamente il tertium comparationis indicato dal giudice a quo, ma lo stesso presupposto della diversità di trattamento, che deriverebbe dalla non applicazione della normativa in questione alle confessioni oggetto di concordato o di intesa. Cadrebbe quindi il fondamento della denunciata violazione del principio di uguaglianza.

La delimitazione della nozione di attività commerciale, operata con le norme sospettate di illegittimità, non fa riferimento alle sole associazioni religiose, ma anche ad associazioni politiche, sindacali, culturali e sportive. Non avrebbe quindi senso ipotizzare la incostituzionalità (nei riguardi delle sole associazioni religiose) di un criterio legale di definizione in negativo dell'attività commerciale, che ha portata generale e che non assume come elemento dirimente il solo fine di religione o di culto dell'associazione.

La distinzione fra attività di religione e di culto ed attività diverse, operata dalla normativa di derivazione concordataria e di attuazione delle intese, non avrebbe quindi di per sè alcun rilievo ai fini della delimitazione, agli effetti tributari, di ciò che si intende per attività "commerciale".

In via subordinata la difesa della parte privata osserva che, se le norme impugnate si dovessero ritenere non applicabili alle associazioni cattoliche o appartenenti alle confessioni con le quali lo Stato ha stipulato intese, ugualmente si dovrebbe ritenere mal posta una questione di costituzionalità che, denunciando la violazione del principio di eguaglianza, tende a censurare non già una norma speciale derogatoria rispetto alla disciplina generale, ma al contrario una norma generale, posta a raffronto con norme speciali.

7. Nella udienza pubblica la parte privata e l'Avvocatura dello Stato hanno ribadito le conclusioni e sviluppato le argomentazioni enunciate nelle rispettive memorie.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3, 8 e 53 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche). Le due disposizioni, di analogo tenore letterale, disciplinano l'ambito di applicazione, rispettivamente, dell'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.) e dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche (I.R.PE.G.), determinando quali cessioni di beni e prestazioni di servizi si considerano effettuate nell'esercizio di imprese e quali somme versate dagli associati concorrono a comporre il reddito imponibile delle associazioni.

2.- L'eccezione di inammissibilità formulata dall'Avvocatura dello Stato non ha fondamento.

Il Tribunale di Torino ha ritenuto, in base ad una valutazione preliminare non sindacabile, di dover fare applicazione delle norme la cui legittimità costituzionale è posta in dubbio. Non si può, in questa sede, valutare se "Dianetics Institute" sia da qualificare associazione religiosa ovvero organizzazione di natura diversa, nè si può imporre al giudice del merito una differente sequenza logica nell'ordine degli accertamenti necessari per affermare che ricorrono gli elementi concreti per qualificare, in applicazione dell'astratta previsione della legge, una associazione come religiosa ovvero come organizzazione di natura diversa.

3. - La illegittimità costituzionale è stata prospettata, essenzialmente, sulla base di un duplice assunto:

a) che le disposizioni fiscali prese in considerazione non trovino applicazione per gli enti associativi riferibili alla Chiesa cattolica o alle confessioni religiose che hanno stipulato intese, di modo che ne deriverebbe una ingiustificata disparità di trattamento, per il maggior favore riservato alle associazioni non riconosciute rispetto alle confessioni religiose che hanno disciplinato bilateralmente le loro relazioni con lo Stato;

b) che le disposizioni fiscali in questione si applichino alle associazioni non riconosciute sulla base di una autoqualificazione religiosa delle stesse, mentre per le confessioni religiose esiste un controllo sullo statuto, in base all'art. 8 della Costituzione.

4. - L'ordinanza di rimessione non prospetta alcun dubbio in ordine ai criteri della legge di delega (9 ottobre 1971, n. 825), in forza della quale le disposizioni denunciate sono state adottate, nè sul corretto rapporto tra le due fonti, sicchè ogni osservazione formulata al riguardo dalla Avvocatura dello Stato si colloca fuori dal terreno di decisione.

5. - Per valutare la correttezza o meno della impostazione volta ad individuare nel trattamento che si assume diversificato (e deteriore) delle confessioni religiose con intesa l'elemento di comparazione di una irragionevole disparità di trattamento delle associazioni religiose, e per valutare se non sia verificabile la natura religiosa delle associazioni che si affermano come tali, determinando un ulteriore profilo di irragionevolezza, occorre preliminarmente precisare il contenuto delle prescrizioni normative prese in esame, con riferimento tanto alla disciplina fiscale quanto a quella di derivazione bilaterale adottata per regolamentare le relazioni tra lo Stato e le chiese e confessioni religiose che hanno stipulato accordi o intese.

6. - L'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 definisce l'"esercizio di imprese", i cui atti danno luogo ad operazioni imponibili ai fini dell'I.V.A., come esercizio per professione abituale, anche se non esclusiva, delle attività commerciali; considera inoltre effettuate nell'esercizio di imprese le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da associazioni che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali; considera infine, per le altre associazioni, effettuate nell'esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di attività commerciali, comprendendo in tale ambito anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso il pagamento di un corrispettivo o di uno specifico contributo supplementare. Fanno eccezione a questa ultima regola, restando escluse dalla qualificazione di prestazione fatta nell'esercizio di attività commerciale, le cessioni di beni o le prestazioni di servizi "effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

Analogo è il contenuto normativo dell'art. 20 del d.P.R. n.598 del 1973, che, nel definire le componenti positive dell'imponibile degli enti non commerciali ai fini dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, stabilisce anzitutto che le quote associative ed i contributi degli associati non concorrono a formare il reddito imponibile, ad eccezione delle somme corrisposte per specifiche prestazioni rese nell'esercizio di attività commerciali. La stessa disposizione considera fatte nell'esercizio di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso pagamento di corrispettivi specifici, "ad eccezione di quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

Sia l'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 che l'art. 20 del d.P.R. n.598 del 1973 - inseriti, rispettivamente, tra le "disposizioni generali" della disciplina dell'imposta sul valore aggiunto e nel contesto delle norme che regolano la posizione degli "enti non commerciali" quali soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche - enunciano una disciplina fiscale che nel rapporto tra norme utilizza lo schema della regola e della eccezione, ma nell'uno e nell'altro caso dettano disposizioni di diritto tributario comune, applicabili a tutte le associazioni che presentano i requisiti soggettivi previsti dalle norme e nei limiti oggettivi delle attività e finalità dalle stesse precisate, senza che sia rilevante l'eventuale rapporto delle associazioni con gli ordinamenti di chiese o di confessioni religiose.

Neanche il diritto speciale posto da fonti di derivazione bilaterale, che disciplinano la condizione giuridica degli enti di singole confessioni religiose, consente di affermare che le disposizioni tributarie in questione, nei limiti dalle stesse previste, non trovano applicazione agli enti associativi delle confessioni con intesa.

Nelle leggi adottate sulla base di intese non mancano disposizioni che, per il regime fiscale, rinviano espressamente al diritto comune; comunque le attività diverse da quelle di religione o di culto (le quali ultime rimangono equiparate a quelle di beneficenza o di istruzione) sono assoggettate al regime tributario previsto dalle leggi dello Stato per tali attività (cfr. art. 7, terzo comma, dell'Accordo ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121; art. 23, terzo comma, della legge 22 novembre 1988, n.516; art. 27, secondo comma, della legge 8 marzo 1989, n. 101). Infine il diritto speciale non sarebbe, comunque, utile elemento di comparazione.

Manca, quindi, il presupposto della diversità di trattamento, ipotizzata come lesiva delle disposizioni costituzionali indicate nell'ordinanza di rimessione.

7. - La questione di legittimità costituzionale è stata prospettata anche sotto un altro profilo, deducendo la irragionevolezza della non controllabilità della natura religiosa della associazione, sulla base dell'assunto che sia sufficiente o vincolante la "autoqualificazione" che l'associazione stessa faccia di se medesima: con l'effetto che risulterebbero automaticamente applicabili i benefici previsti dalle disposizioni denunciate, senza una verifica degli "statuti", prevista per le confessioni religiose.

La disciplina tributaria dettata dalle disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale, quale risulta anche dagli orientamenti della prassi amministrativa e dalla interpretazione data ad esse dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, esclude gli esiti irragionevoli di una incontrollabile autoqualificazione (meramente potestativa) delle associazioni, come pure esclude una latitudine di atti non assoggettati ad imposta, al di là dell'ambito della ratio esoneratrice.

L'agevolazione prevista dall'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972, con una disposizione da interpretare rigorosamente in ragione del rapporto di eccezione che la lega ad una regola più generale, è ancorata ad un triplice e concorrente presupposto: che la cessione di beni o la prestazione di servizi (non assoggettabili ad I.V.A.) sia effettuata da una associazione che sia stata qualificata come religiosa; che la prestazione sia resa a propri associati; che la stessa sia effettuata in conformità alle finalità istituzionali dell'associazione.

Analoga è l'articolazione della disciplina dettata dall'art. 20 del d.P.R. n.598 del 1973.

Il primo dei requisiti indicati riguarda l'ente che sarebbe, altrimenti, soggetto all'imposta. Come per tutti gli altri tipi di associazione sottoposti alla medesima disciplina (associazioni politiche, sindacali, assistenziali, culturali o sportive) manca nello stesso testo legislativo una esplicita definizione di ciascun tipo di associazione.

Ciò non significa che non si possa, e anzi non si debba, desumere dall'insieme dell'ordinamento il significato della locuzione "associazione religiosa" (come delle altre e distinte espressioni: associazione politica, sindacale, e così via). La qualificazione dell'ente non è sottratta alla valutazione della sua reale natura, secondo i criteri desumibili dall'insieme delle norme dell'ordinamento.

Le associazioni a carattere religioso che non siano già state civilmente riconosciute come tali (secondo le regole poste sulla base di intese o secondo la disciplina, che ancora sopravvive, della legge 24 giugno 1929, n. 1159) devono comprovare la natura e la caratteristica religiosa dell'organizzazione, secondo i criteri che qualificano nell'ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto.

Ciò dovrà essere fatto alla stregua della reale natura dell'ente e dell'attività in concreto esercitata, non potendosi ritenere, in conformità al principio già enunciato dalla Cassazione per altri tipi di enti non commerciali, che una associazione sia arbitra della propria tassabilità.

Parimenti rigorosa è la delimitazione normativa degli altri requisiti richiesti perchè la cessione di beni o la prestazione di servizi non sia assoggettata ad imposta: deve avvenire esclusivamente nei confronti di soggetti pienamente titolari dei diritti e degli obblighi derivanti dalla qualità di associati; deve essere inoltre effettuata in conformità alle finalità istituzionali, vale a dire alle finalità che caratterizzano come essenzialmente religiosa l'associazione.

La presenza di tutti questi requisiti riguarda tanto le associazioni riferibili all'ordinamento di confessioni religiose con intese, quanto le altre associazioni che, indipendentemente dal raccordo con ordinamenti di confessioni religiose, presentino le caratteristiche previste dalle norme in esame.

Neanche la seconda prospettazione della questione di legittimità costituzionale proposta dal Tribunale di Torino è, pertanto, fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche), in riferimento agli art. 3, 8 e 53 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Torino con ordinanza emessa il 12 giugno 1991.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/11/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 19/11/92.