Sentenza n. 310 del 1992

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SENTENZA N.310

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

 

-        Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

-        Dott. Francesco GRECO

 

-        Prof. Gabriele PESCATORE

 

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

 

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

-        Prof. Luigi MENGONI

 

-        Prof. Enzo CHELI

 

-        Dott. Renato GRANATA

 

-        Prof. Giuliano VASSALLI

 

-        Prof. Francesco GUIZZI

 

-        Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma terzo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare) promosso con ordinanza emessa il 3 dicembre 1991 dal Tribunale di Lamezia Terme nelle procedure fallimentari a carico dell'< Organizzazione Paradiso di Paradiso Tranquillo>, ed altro iscritta al n. 75 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 maggio 1992 il Giudice relatore Renato Granata;

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza in data 3 dicembre 1991, il Tribunale di Lamezia Terme - reinvestito della dichiarazione di fallimento della società di fatto tra "L'Organizzazione Paradiso", Ferdinando Paradiso ed altri, a seguito della revoca del proprio precedente provvedimento di rigetto dell'istanza di fallimento dei medesimi soggetti e della conseguente remissione degli atti, da parte della Corte di appello, ai sensi dell'art. 22, co. 3°, r.d. 1942, n. 267 - ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 101 co. 2°; 107, co. 3°, e 111, co. 1°, Cost- onde ha sollevato - questione incidentale di legittimità costituzionale del citato art. 22 l.f. nella parte appunto in cui questo dispone che "se la corte di appello accoglie il ricorso" [avverso il decreto del tribunale che respinge l'istanza di fallimento "rimette di ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento".

Secondo il giudice a quo - che non ignora, ma contesta le conclusioni della precedente sentenza n. 142/1970, che ha dichiarato non fondata analoga questione di legittimità del predetto art. 22 l.f. in riferimento all'art. 101 Cost. - resterebbe insuperato il dubbio di costituzionalità della norma denunciata per contrasto, oltrechè con l'art. 101, co. 2°, con gli artt. 107, co. 3°, e 111 co. 1°.

a) Quanto all'art. 101, co. 2°, Cost., perchè (anche tenendo conto dei poteri cognitivi che parte della dottrina riconosce al tribunale in ordine ad eventuali circostanze di fatto sopravvenute al decreto di remissione) l'impossibilità - che resta ferma ed assoluta per detto giudice - di rivalutare gli elementi posti a base della decisione della corte di appello vincolerebbe il medesimo all'adozione di una pronuncia dal contenuto precostituito (senza possibilità di verificare la rispondenza dei fatto concreto alla fattispecie astratta prevista dalla norma e quindi con elusione dei precetto che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge);

b) quanto all'art. 107, co. 3°, Cost. poichè, nel sistema cosí delineato, il tribunale sembrerebbe agire come organo gerarchicamente subordinato alla corte di appello contro l'esigenza fondamentale che vuole i magistrati distinti, fra loro, soltanto per funzioni;

c) quanto all'art. 111, co. 1°, perchè - sempre in applicazione del meccanismo normativo censurato - il tribunale potrebbe trovarsi nell'impossibilità di adempiere l'obbligo costituzionale della motivazione, quando la decisione (dichiarativa del fallimento) non sia frutto di un iter logico del medesimo giudice.

2. - Nel giudizio innanzi alla Corte é intervenuto il Presidente dei Consiglio dei ministri per contestare, sotto ogni profilo, la fondatezza della questione sollevata.

Considerato in diritto

 

1.-L'art. 9 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare) individua nel tribunale (del luogo ove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa) l'organo giudiziario competente alla dichiarazione di fallimento.

In caso di rigetto dell'istanza di fallimento, aggiunge il successivo art.22, co. 2°, il creditore può proporre reclamo avverso tale decisione alla corte di appello. E - ai sensi del comma terzo dello stesso art. 22 - < se la corte accoglie il ricorso> deve < rimettere d'ufficio gli atti al tribunale> perchè sia sempre e comunque questo a pronunciare la dichiarazione di fallimento.

2. -Proprio la legittimità di quest'ultima disposizione viene ora rimessa in dubbio dal giudice rimettente che ne adombra un triplice profilo di contrasto:

a) con l'art. 101, co. 2°, Cost. che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge poichè, nel sistema così delineato, il tribunale pronuncerebbe sentenza di fallimento < senza alcuna possibilità di valutazione o di rivalutazione degli elementi istruttori al fine di stabilire se, nel caso concreto, le fattispecie delineate dalla legge fallimentare possano trovare o meno applicazione>;

b) con l'art. 107, co. 3°, Cost. che esclude la possibilità di distingue re fra loro i magistrati con altro criterio che quello delle funzioni esercitate poichè, nella specie, il tribunale sarebbe tenuto a dare applicazione alla decisione assunta dalla corte di appello come se il primo organo fosse gerarchicamente subordinato al secondo;

c) con l'art. 111, co. 1°, Cost., e con l'obbligo ivi posto di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali poichè, in base al meccanismo della disposizione denunciata, il tribunale che dichiara il fallimento < si troverebbe nell'impossibilità di adempiere all'obbligo in questione>.

3.-Effettivamente, sul piano sistematico e qualificatorio, la ricostruzione del rapporto tra decreto della corte di appello e sentenza del tribunale, nel paradigma della norma sub iudice, ha impegnato non poco la dottrina. Che ha finito poi con l'attestarsi, pur con varie sfumature argomentative, sulla duplice (alternativa) tesi dell'assorbimento del decreto nella sentenza, ovvero della scissione (frantumazione) del contenuto ordinario del provvedimento dichiarativo, con attribuzione di una parte (quella cognitiva) alla corte di appello e dell'altra (quella costitutiva) al tribunale.

Quest'ultima posizione è sostanzialmente condivisa dalla corte regolatrice, che, con giurisprudenza pressocchè consolidata, attribuisce al decreto ex art. 22 cit. < effetti meramente processuale>, sottolineandone l'inserzione in un < procedimento complesso, il cui momento conclusivo è rappresentato dalla sentenza (del tribunale) dichiarativa del fallimento>.

4. - Con la già citata sentenza n. 142 del 1971, questa Corte ha peraltro già manifestato l'avviso che il problema qualificatorio della fattispecie in esame non incide sul profilo della sua legittimità costituzionale, trattandosi, comunque, di opzione adottata dal legislatore nell'ambito della discrezionalità a lui riservata, e ragionevolmente giustificata da un'esigenza di rispetto della competenza funzionale del tribunale in tema di dichiarazione di fallimento, anche in ragione di armonizzazione della correlata competenza in ordine al regime della opposizione che il debitore può proporre per ottenere la revoca di quella dichiarazione. Ed ha escluso -sempre nella richiamata decisione-che il raccordo, come nella specie previsto, tra la decisione del giudice di secondo grado e quella del tribunale, quali momenti distinti della unica pronunzia dichiarativa del fallimento, si ponga in contrasto con l'art. 101 Cost. Ciò in particolare perchè < il principio dell'indipendenza del giudice ben lungi dall'escludere la pluralità di gradi di giurisdizione, preordinata nel sistema processuale, ai fini di giustizia ed all'esigenza dell'esattezza delle decisioni, ne postula anzi i1 coordinamento>.

5.-Questa soluzione va tenuta ferma, dovendo innanzitutto ribadirsi, con riferimento al precetto dell'art. 101 cit., che il giudice, nel decidere, si mantiene comunque sotto l'imperio esclusivo della legge anche quando dispone, come nella specie, che egli adegui il proprio convincimento a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa (cfr. anche sent. n.50/1970, in relazione all'art. 384 c.p.c. e n. 241/1991, in relazione all'art. 28, co. 2o, c.p.p.), essendo pacifico che l'indipendenza, garantita dalla disposizione costituzionale, non è suscettibile di essere compromessa da atti autoritativi aventi a loro volta natura giurisdizionale, nè a motivo dell'osservanza a questi dovuta secundum legem.

6.-Nè a diversa conclusione può pervenirsi con riferimento ai nuovi parametri, sub artt. 107, co. 3°, e 111, co. 1°, in questa sede evocati, la cui violazione va del pari esclusa. Quanto all'art. 107, per l'assorbente considerazione che il decreto della corte di appello, destinato ad essere vincolativamente recepito e posto a premessa nella sentenza del tribunale dichiarativa del fallimento, è pur sempre un provvedimento giurisdizionale e non costituisce, sotto alcun aspetto, espressione di un potere di supremazia gerarchica di un organo sull'altro, quale appunto escluso dalla norma in questione a garanzia del pari < status dignitatis> dei singoli magistrati. E, quanto all'art. 111 Cost., perchè, in considerazione della struttura duale della declaratoria di fallimento prefigurata nella disposizione impugnata, la motivazione del sillogismo decisorio è nella specie non già carente, bensì desunta per ricezione dal contenuto del precedente provvedimento della corte di appello: e ciò per espresso iussum legis.

7. -La questione sollevata è pertanto sotto ogni profilo infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (Legge fallimentare), in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 107, terzo comma e 111, primo comma, della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Lamezia Terme, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/06/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 01/07/92.