Sentenza n. 255 del 1992

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SENTENZA N. 255

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-        Prof. Giuseppe BORZELLINO

-        Dott. Francesco GRECO

-        Prof. Gabriele PESCATORE

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 500, commi terzo e quarto, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 14 giugno 1991 dalla Corte di assise di Bari nel procedimento penale a carico di Cara Damiani Nicola ed altro, iscritta al n. 574 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 aprile 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza emessa il 14 giugno 1991 la Corte d'assise di Bari ha sollevato questione di legittimità, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, del combinato disposto del terzo e del quarto comma dell'art. 500 del codice di procedura penale, nella parte in cui preclude al giudice di valutare, al fine dell'accertamento dei fatti, le dichiarazioni rese dai testi al pubblico ministero e delle quali si è data lettura per le contestazioni.La Corte remittente premette che la fattispecie sottoposta al suo esame riguarda un caso di omicidio nel quale il rinvio a giudizio degli attuali imputati è stato disposto sulla base delle concordi dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da diversi testimoni (alcuni dei quali sentiti dal pubblico ministero lo stesso giorno del fatto, ma non sul luogo del delitto) i quali, nel successivo esame dibattimentale, hanno reso deposizioni dal contenuto radicalmente difforme dalle precedenti dichiarazioni, omettendo di riferire alcunchè di utile per la identificazione degli autori del delitto e limitandosi a rispondere alle insistenti contestazioni con un generico "non ricordo".

Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che la disciplina impugnata si risolva in una ingiustificata limitazione della funzione giurisdizionale e della tutela dei diritti costituzionalmente garantiti (non esclusi i diritti delle vittime del reato), oltre che nella violazione del principio di eguaglianza dell'art. 3 della Costituzione.

Sotto il primo profilo osserva che le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali (art. 2 Cost.), del diritto di azione (art.24, primo comma, Cost.) e della giurisdizione penale (art. 101, secondo comma, in relazione al principio di legalità posto dall'art. 25 secondo comma, Cost.) postulano strumenti giuridici che integrino un processo "giusto" ma al contempo non impediscano al giudice la piena cognizione del fatto-reato per la effettiva attuazione della legge che ha il dovere di applicare.

In particolare, prosegue il remittente, la disciplina del procedimento di formazione della prova, per la sua natura strumentale, non può introdurre limitazioni di tale entità da privare di efficacia la legge penale sostanziale, così violando il diritto costituzionale di azione, svuotando la peculiare funzione del giudice penale e, in sostanza, privando di effettiva tutela i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione e salvaguardati dalla legge penale.

La Corte d'assise di Bari ritiene pertanto che il divieto posto dal terzo comma dell'art. 500 del codice di procedura penale, nella sua portata generale (pur con le eccezioni del quarto comma), introduca limitazioni della anzidetta natura assimilando, oltre il limite di ragionevolezza, situazioni non omogenee in relazione ai fini della giurisdizione penale e al diritto costituzionale di azione, nonchè differenziando nel trattamento situazioni simili.

Per quest'ultimo aspetto viene ravvisato un contrasto con il principio di eguaglianza del divieto (posto dall'art. 500, terzo comma, del codice di procedura penale) che preclude nel giudizio ordinario la utilizzazione, ai fini della decisione, di dichiarazioni che, invece, per la stessa legge processuale, nel giudizio abbreviato costituiscono fonte di prova: ciò in quanto la diversità di rito non può ragionevolmente mutare nè i fini della giurisdizione penale (con la necessità di cognizione piena del fatto-reato), nè la garanzia costituzionale del diritto di azione.

Per altro verso si prospetta una ulteriore violazione del principio di eguaglianza, per l'assimilazione indiscriminata di situazioni diverse (in riferimento ai richiamati parametri costituzionali), in quanto cadono nel divieto del terzo comma dell'art. 500 del codice di procedura penale:

a) le dichiarazioni rese al pubblico ministero nella immediatezza del fatto, ma in luogo diverso da quello del commesso delitto, apparendo irrazionale che, oltre alla condizione della immediatezza, si richieda anche la condizione dell'assunzione del teste sul luogo del fatto;

b) le dichiarazioni rese al pubblico ministero nelle prime indagini preliminari da testi che, escussi a dibattimento, non sono in condizioni di ricordare fatti e circostanze rilevanti (anche per i tempi non brevi del processo consentiti dallo stesso codice), così versando in situazioni assimilabili, per l"eadem ratio", a quelle previste (con diverso trattamento) dall'art. 512 del codice di procedura penale;

c) le dichiarazioni rese al pubblico ministero da testi che, assunti a dibattimento (e al di fuori della ipotesi eccezionale prevista per l'incidente probatorio dall'art. 392 lett. b) del codice di procedura penale), rendano dichiarazioni manifestamente false o reticenti, se vi è fondato motivo di presumere una azione esterna di inquinamento della prova.

Sottolinea il remittente che allorquando (mancando concreti e specifici elementi circa il pericolo di inquinamento della prova) non può aver luogo l'incidente probatorio ai sensi del citato articolo, il divieto di acquisire ed utilizzare le precedenti dichiarazioni resi dai testi (per una compiuta valutazione di tutte le risultanze processuali) si risolve in una ingiustificata copertura dell'azione di inquinamento della prova emersa (solo) a dibattimento.

Tali situazioni si rivelano omogenee a quelle che per la stessa legge processuale (in ragione del diritto costituzionale di azione e dei fini propri della giurisdizione penale) consentono una deroga al principio dell'oralità, sicchè appare ingiustificato, alla stregua dell'art. 3 della Costituzione, assimilarle a tutte le altre situazioni che rientrano nel divieto dell'art. 500, terzo comma, del codice di procedura penale.

2. É intervenuto nel giudizio il Presidente del consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della sollevata questione.

Rileva la difesa del governo che, una volta scelta la strada del processo di tipo accusatorio e della formazione delle prove nella "contesa dibattimentale tra le parti", le soluzioni adottate dall'art. 500, terzo comma, (e, in generale, da tutte le disposizioni che disciplinano il tema) rispondono a logica e rappresentano null'altro che il corollario di un sistema ben definito e del tutto diverso dal precedente.

Non sarebbe quindi possibile - senza derogare alla logica stessa del sistema - recuperare il valore di prova ai fini della decisione alle dichiarazioni rese in una fase solo investigativa, quale è quella delle indagini preliminari: laddove invece è corretto prevederne solo una utilizzazione indiretta al fine dell'esame della credibilità della persona esaminata.

Nè potrebbe argomentarsi, prosegue l'Avvocatura, una ingiustificata disparità di trattamento tra le dichiarazioni indicate nell'art.500, terzo comma, e quella species di dichiarazioni "testimoniali" disciplinate dall'art. 500 quarto comma, che, a differenza delle altre, possono essere acquisite al fascicolo per il dibattimento e quindi, attraverso le letture (art. 511), fare prova "piena" o diretta di quanto in esse dedotto.

In questi casi il vulnus al principio dell'oralità si spiega con l'aspetto di sorpresa che inerisce agli atti denominati irripetibili quali sono le perquisizioni, ovvero, con la considerazione secondo la quale le dichiarazioni più vicine alla commissione del fatto sono da ritenersi "più genuine" e meno "meditate": considerazione, quest'ultima, costantemente utilizzata dalla giurisprudenza di merito per sciogliere il nodo delle dichiarazioni testimoniali fra loro contrastanti.

La deroga ai principi generali avrebbe dunque una sua legittima ragionevolezza ed escluderebbe ogni sospetto di incostituzionalità.

Anche se, osserva infine l'Avvocatura, non è eliminato, dal punto di vista del "realismo giudiziario", l'obbligo di valutare per il futuro l'opportunità di una accorta e pragmatica revisione del sistema, specie al fine di evitare un sistematico inquinamento del materiale di prova.

Considerato in diritto

1. La Corte di assise di Bari solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e del quarto comma dell'art.500 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui preclude al giudice di valutare, al fine dell'accertamento dei fatti, le dichiarazioni precedentemente rese dai testimoni e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, se utilizzate per le contestazioni, con l'unica eccezione delle dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto.

Il giudice a quo rileva che il meccanismo processuale previsto dall'art.500, se consente alle parti di portare a piena conoscenza del giudice le dichiarazioni assunte durante le indagini dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, così facendo emergere nella pubblicità del dibattimento una doppia verità processuale, vieta però che tali dichiarazioni possano costituire prova dei fatti in esse affermati, essendone consentita la valutazione soltanto per stabilire la credibilità della persona esaminata: sicchè il giudice può valutare e ritenere rispondenti al vero le prime dichiarazioni "testimoniali", e perciò stabilire motivatamente la non credibilità delle dichiarazioni difformi rese dagli stessi testi a dibattimento, e tuttavia, contraddicendo la sua motivata convinzione nel contesto della stessa decisione, può trovarsi nella necessità formale, per la mancanza di prove indotta dalle limitazioni della norma processuale, di mandare assolto un imputato che le dichiarazioni ritenute attendibili indicano univocamente come l'autore del reato.

Detta disciplina, ad avviso del remittente, si pone in contrasto con le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali (art. 2 della Costituzione), del diritto di azione (art. 24, primo comma, della Costituzione, con particolare riferimento ai diritti delle vittime del delitto) e della giurisdizione penale (art. 101, secondo comma, della Costituzione, in relazione al principio di legalità posto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione), le quali "postulano strumenti giuridici che integrino un processo giusto ma al contempo non impediscano al giudice la piena cognizione del fatto-reato per la effettiva attuazione della legge che ha il dovere di applicare".

Ma soprattutto, ed in riferimento all'art. 3 della Costituzione, il giudice remittente ritiene che il divieto posto dal terzo comma dell'art.500, introduca irragionevolmente limitazioni di tale entità da privare di efficacia la legge penale sostanziale e costituisca una irrazionale disparità di trattamento in raffronto all'opposto regime di utilizzabilità previsto per il giudizio abbreviato; tale divieto, inoltre, comprenderebbe ingiustamente talune situazioni (dichiarazioni rese al pubblico ministero nella immediatezza del fatto, ma in luogo diverso da quello del commesso delitto; dichiarazioni rese al pubblico ministero nelle prime indagini preliminari da testi che successivamente, nel dibattimento, non sono più in grado di ricordare fatti e circostanze; dichiarazioni rese al pubblico ministero da testi che in dibattimento rendano deposizioni manifestamente false o reticenti) da ritenersi del tutto omogenee ad altre (art. 392, lett. b: assunzione di una testimonianza nell'incidente probatorio se vi è fondato motivo per ritenere che il teste sia esposto a violenza o minaccia; art. 512: lettura di atti per impossibilità di ripetizione) per le quali invece è prevista una deroga al principio dell'oralità.

In conclusione, ciò che la Corte di assise di Bari ritiene censurabile è l'irragionevolezza di un sistema che, da un lato, riconosce un patrimonio di elementi di valutazione, pur formatosi prima del dibattimento, come idoneo a verificare la genuinità ed il peso delle prove che dal dibattimento si sono generate, dall'altro, al fine dell'accertamento dei fatti, lo considera tamquam non esset, negando al giudice di apprezzarne fino in fondo la portata.

2.1. Sotto questo profilo la questione è fondata.

É opportuno sottolineare, in primo luogo, che l'oralità, assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento; ciò perchè - è appena il caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità (in armonia coi principi della Costituzione: come reso esplicito nell'art. 2, prima parte, e nella direttiva n.73, della legge di delega, tradottasi nella formulazione degli artt.506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258 del 1991 di questa Corte), di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente è dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento.

Che la volontà del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente e genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale: in tal senso depongono le disposizioni sugli atti irripetibili (art. 431, il quale dispone l'allegazione al fascicolo dibattimentale dei verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria), sugli atti assunti nell'incidente probatorio (art. 392), sulla lettura degli atti assunti dal pubblico ministero o dal giudice nel corso dell'udienza preliminare, quando per fatti o circostanze imprevedibili ne è divenuta impossibile la ripetizione (art. 512, configurato dalla dottrina come una sorta di necessario correttivo, avente carattere generale, al principio dell'oralità), sulla lettura di dichiarazioni rese dall'imputato (o dall'imputato in procedimento connesso o collegato) qualora sia contumace, assente, ovvero si rifiuti di rispondere (art. 513, come risulta a seguito della recente sentenza n. 254 del 1992), sull'acquisizione di dichiarazioni rese da testi ("nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto"), o dall'imputato ("alle quali il difensore aveva il diritto di assistere") se utilizzate per le contestazioni nell'esame (artt. 500, quarto comma, e 503, quinto comma). Siffatti istituti derogano chiaramente al principio dell'oralità e dell'immediatezza dibattimentale che, come si è detto, non è regola assoluta bensì criterio-guida del nuovo proces contemperare il rispetto del metodo orale con l'esigenza di evitare la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede (cfr. sent. n. 254 del 1992 precedentemente citata).

Questa Corte ha già avuto modo di sottolineare l'importanza del principio di non dispersione dei mezzi di prova: la dichiarazione di illegittimità costituzionale del quarto comma dell'art. 195 consente ora, attraverso la testimonianza de relato della polizia giudiziaria, il recupero di elementi probatori acquisiti nella fase delle indagini e che, in taluni casi, possono rivelarsi "addirittura fondamentali per l'accertamento dei fatti" (v. sentenza n. 24 del 1992); del pari, la richiamata sentenza n. 254 del 1992 ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 513, secondo comma, nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo, rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere.

2.2. In breve, quanto ora esposto consente di riassumere un primo dato certo: il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verità; ma accanto al principio dell'oralità è presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale.

Proprio sotto questo profilo, e cioé proprio in raffronto al sistema nel cui ambito è destinata ad inserirsi, la norma impugnata appare priva di giustificazione ponendo in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verità.

Se infatti, nell'ambito dell'attuale sistema, è possibile dare lettura in dibattimento (e quindi utilizzare ai fini della decisione) di dichiarazioni rese precedentemente: dall'imputato che rifiuta di sottoporsi all'esame (art. 513, primo comma); dall'imputato che afferma cose diverse (art. 503, quinto comma); dal coimputato che si avvale della facoltà di non rispondere (art. 513, secondo comma); e infine dal teste irreperibile, deceduto o che rifiuti di rispondere (art. 512), o che renda dichiarazioni difformi da quelle assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto (art.500, quarto comma), non risponde a logica che tutte le altre dichiarazioni rese dal testimone durante le indagini preliminari (al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria), o addirittura avanti il giudice dell'udienza preliminare, e già entrate nel contraddittorio dibattimentale attraverso il veicolo delle contestazioni, non possano essere compiutamente utilizzate dall'organo giudicante, al fine dell'accertamento dei fatti, nemmeno quando questi le ritenga così pienamente veritiere da dover disattendere la difforme deposizione resa in dibattimento.

La norma in esame istituisce pertanto una irragionevole regola di esclusione che, non solo può giocare così a vantaggio come a danno dell'imputato, ma è suscettibile di ostacolare la funzione stessa del processo penale proprio nei casi nei quali si fa più pressante l'esigenza della difesa della società dal delitto, quando per di più il ricorso all'intimidazione dei testimoni si verifica assai di frequente.

2.3. Del resto, la preoccupazione di assicurare che elementi di prova non siano dispersi nei casi di possibile intimidazione o corruzione di testimoni affinchè non depongano o depongano il falso è, come la stessa norma rende esplicito, alla base dell'ipotesi di incidente probatorio prevista dall'art.392, primo comma, lett. b); ma se detta esigenza è stata ritenuta a tal punto meritevole di tutela dal legislatore da farne oggetto di apposita previsione, risulta del tutto incoerente che, ove lo stesso effetto che si vuole scongiurare sia accertato soltanto a posteriori (mediante la deposizione di un teste che appaia manifestamente falso o reticente), valga un regime opposto: e cioé quello della totale inutilizzabilità, al fine dell'accertamento dei fatti, delle precedenti dichiarazioni ritenute attendibili.

3. Ma v'è di più. La regula iuris posta dalla norma impugnata presenta anche un duplice profilo di intrinseca irragionevolezza: in primo luogo si consideri che le uniche eccezioni al divieto di utilizzabilità, poste dal quarto comma dell'art. 500 in favore delle dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto (acquisibili al fascicolo del dibattimento se usate per le contestazioni), si basano evidentemente su di una presunzione di genuinità di detti atti che diventa irragionevole in raffronto a tutte le altre possibili dichiarazioni predibattimentali che per le loro caratteristiche (precisione, ricchezza di particolari, concordanza con dichiarazioni rese da altri testi) possono essere ritenute, ed a ragione, non meno veritiere.

In secondo luogo, posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come libertà del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti (art.192), la norma in esame impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione - come rileva il giudice a quo - in quanto, se la precedente dichiarazione è ritenuta veritiera, e per ciò stesso sufficiente a stabilire l'inattendibilità del teste nella diversa deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente irrazionale che essa, una volta introdotta nel giudizio, entrata quindi nel patrimonio di conoscenze del giudice, ed esaminata nel contraddittorio delle parti (con la presenza del teste che rimane comunque sottoposto all'esame incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della prova dei fatti in essa affermati.

4. Va quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, del terzo comma dell'art. 500 del codice di procedura penale, nonchè del quarto comma della medesima norma, nella parte in cui non prevede l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi primo e secondo, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di illegittimitàcostituzionale prospettati dal giudice remittente.

Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87, e per le medesime ragioni sopra indicate, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale va estesa anche all'art. 2 n. 76 della legge di delega 16 febbraio 1987 n. 81, nella parte in cui del pari prevede il potere del giudice di allegare nel fascicolo processuale, tra gli atti utilizzati per le contestazioni, solo le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto, anzichè le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.

Occorre infine porre in evidenza come la dichiarazione d'illegittimità costituzionale del terzo comma dell'art. 500 non può riverberare effetti sul quarto comma dell'art. 503, il quale alla prima norma rinvia per relationem; trattasi invero di rinvio che esprime la medesima regula iuris, ma in riferimento a soggetti diversi dai testimoni, vale a dire in riferimento all'esame delle parti private ed, in particolare, dell'imputato, e concerne, pertanto, una situazione processuale non sottoposta all'esame di questa Corte nel presente giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

- dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 500, terzo comma, del codice di procedura penale;

- dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi primo e secondo, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.

Visto l'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87; dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 n. 76 della legge 16 febbraio 1987 n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) nella parte in cui prevede il potere del giudice di allegare nel fascicolo processuale, tra gli atti utilizzati per le contestazioni, solo le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto, e non anche le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/05/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 03/06/92.