Sentenza n. 248 del 1992

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SENTENZA N. 248

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Giuseppe BORZELLINO, Presidente

-        Dott. Francesco GRECO

-        Prof. Gabriele PESCATORE

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 314, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 luglio 1991 dalla Corte di appello di Bari nella procedura di riparazione per ingiusta detenzione promossa da Potenza Aurelio, iscritta al n. 654 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.44, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 maggio 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. La Corte d'appello di Bari, adita da Potenza Aurelio per la riparazione della ingiusta detenzione sofferta nel corso di un procedimento penale conclusosi con sentenza istruttoria di proscioglimento "perchè il fatto non sussiste", ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 314, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui equipara, ai fini del diritto alla riparazione, le persone nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere a coloro che siano stati prosciolti con sentenza irrevocabile con le formule indicate al primo comma della stessa norma.

Il giudice remittente premette di aver rigettato la domanda, con ordinanza 15 ottobre 1990, in quanto aveva ritenuto necessario il riesame di merito sugli atti (onde stabilire la rispondenza o meno della formula di proscioglimento ad una delle quattro previste dal primo comma dell'art.314), e, considerata la non rispondenza della formula al fatto, aveva rilevato che all'accoglimento della domanda difettasse la "decisione irrevocabile" da cui risultassero violate le disposizioni sull'applicazione o la perduranza della misura detentiva (art. 314, secondo comma, del codice di procedura penale).

Rigettata la domanda, prosegue il remittente, l'istante ricorreva per Cassazione e la Corte Suprema, con sentenza 3 aprile 1991, ritenuta l'applicabilità dell'istituto anche nei casi di archiviazione o di sentenza di non luogo a procedere, per il disposto stesso del comma terzo dell'art. 314 del codice di procedura penale, annullava con rinvio l'ordinanza impugnata "non potendo il giudice, investito della richiesta risarcitoria, procedere alla rivalutazione di un fatto, su cui è intervenuta una decisione non più soggetta ad impugnazioni ordinarie".

Ciò posto, la Corte di appello di Bari, preso atto di tale interpretazione della Corte di cassazione, ovviamente obbligatoria per il giudice di rinvio, non ritiene di potervisi adeguare, in quanto ne deriverebbe un difetto di legittimità costituzionale della norma in esame.

In particolare, l'art. 314, terzo comma, del codice di procedura penale, così come interpretato dalla Corte suprema, da un lato si appaleserebbe foriero di regolamentazioni diverse per casi omogenei, ancorato come è al semplice nominalismo delle formule assolutorie usate nelle sentenze di non luogo a procedere, d'altro lato punitivo dell'unico soggetto indifeso (lo Stato) proprio verso il quale - differentemente da qualsiasi altro soggetto - verrebbe ad essere ritenuta una presunzione di fatti, con conseguente responsabilità risarcitoria.

Altra presunzione, ad avviso del remittente, non appare ammissibile da provvedimento che non sia sentenza giudiziale irrevocabile, a meno che il legislatore, intendendo porre delle altre eccezioni con il comma 3, non ne spieghi anche implicitamente, ma comprensibilmente, le ragioni e i fini.

Altrimenti lo Stato correrebbe il rischio di risarcire anche in casi di trascurata istruzione o di erronea pronunzia (risarcimento per errore giudiziario favorevole all'imputato).

Da queste considerazioni la Corte d'appello di Bari vede altresì emergere una conflittualità di norme incomponibile: l'art. 314, terzo comma, contro l'autorità del giudicato penale, di cui agli artt. da 648 a 654 del codice di procedura penale; lo stesso art. 314, terzo comma, che, per essere applicato alla lettera, renderebbe vane le condizioni dettate dallo stesso comma primo.

Mentre non si vedrebbe perchè, ai fini esclusivamente civilistici del risarcimento, la Corte di appello, unico ed ultimo giudice di merito, non potrebbe rivedere la rispondenza alla realtà della formula assolutoria pronunziata fuori giudizio, al fine di ascrivere il caso alla regola di cui al comma primo o secondo dell'art. 314.

In conclusione, l'art. 314, comma terzo, del codice di procedura penale, "sia come regolamentazione differente di situazioni omogenee, sia come privativo di garanzie giudiziali solo a danno dello Stato, sia come conflittualità incomponibile di norme", contrasterebbe con l'art.3 della Costituzione, ed anche con l'art. 24, ultimo comma, per la difettosa regolamentazione legislativa della riparazione degli errori giudiziari, nel senso di fare ascrivere alle distinte ipotesi risarcitorie di cui al primo e al secondo comma dell'art. 314, i casi dei soggetti nei cui confronti si è dichiarato non luogo a procedere senza alcuna verifica, da parte del giudice del risarcimento, della effettiva rispondenza della formula pronunziata ai fatti emersi, e i casi di mera archiviazione, di cui pure le ipotesi sono previste (artt. 408 e 411 del codice di procedura penale) e su cui nessuna verifica si dispone.

2. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.

In particolare l'Avvocatura rileva come non siano ben chiari i motivi in base ai quali si dubita della legittimità costituzionale della norma impugnata. Ove la critica sia rivolta alla "illogica" equiparazione, ai fini della riparazione, del provvedimento di cui al comma 1 (sentenza irrevocabile) ai provvedimenti di cui al comma 3 (archiviazione, sentenza di non luogo a procedere), la Corte remittente non terrebbe conto che l'istituto della riparazione per l'ingiusta detenzione impone in concreto di estendere l'ambito di riparabilità alla detenzione che, anche senza derivare da sentenza passata in giudicato, dovesse risultare "non dovuta".

Se così non fosse si determinerebbe, al contrario di quel che ritiene la Corte d'appello di Bari, una disparità di trattamento in danno di chi, pur avendo subito una ingiusta detenzione, non sia rinviato a giudizio.

Considerato in diritto

1. La Corte di appello di Bari, nel corso di un procedimento per la riparazione per ingiusta detenzione, ha sollevato, in sede di giudizio di rinvio, questione di legittimità costituzionale dell'art. 314, terzo comma, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24, ultimo comma, della Costituzione.

La norma impugnata estende, "alle medesime condizioni" di cui ai commi precedenti, il diritto alla riparazione per la custodia cautelare subita alle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere. Ad avviso del remittente, detta norma, nella interpretazione data dalla Corte di cassazione - cui il giudice di rinvio è tenuto ad uniformarsi -, secondo la quale essa preclude al giudice investito della richiesta risarcitoria il riesame di merito sugli atti al fine di valutare la rispondenza ai fatti della formula adoperata nella sentenza di non luogo a procedere, viola, da un lato, l'art. 3 della Costituzione, "sia come regolamentazione differente di situazioni omogenee, sia come privativa di garanzie giudiziali solo a danno dello Stato, sia come conflittualità incomponibile di norme" - afferma testualmente il giudice a quo -, e, dall'altro, l'art. 24, ultimo comma, della Costituzione "come difettosa regolamentazione legislativa per la riparazione degli errori giudiziari".

2. La questione non è fondata.

L'istituto della riparazione dell'ingiusta detenzione - istituto di assoluta novità per la nostra legislazione - è stato disciplinato negli artt. 314 e 315 del codice di procedura penale in attuazione della direttiva n. 100 della legge di delega n. 81 del 1987: come si legge nella relazione al progetto preliminare del codice, la citata direttiva imponeva in concreto di "estendere l'ambito della riparabilità alla detenzione che, anche senza derivare da una sentenza passata in giudicato, dovesse risultare <<non dovuta>>". L'estensione del diritto alla riparazione alle ipotesi della sentenza di non luogo a procedere e del provvedimento di archiviazione è stata disposta, con l'inserimento del terzo comma dell'art. 314, in sede di progetto definitivo "per esigenze di coordinamento sistematico e per colmare una lacuna del testo del Progetto preliminare", "trattandosi in entrambi i casi di situazioni in cui può verificarsi una ingiusta sottoposizione a custodia cautelare" (cfr.relazione al testo definitivo). Come esattamente ha osservato l'Avvocatura dello Stato, in caso contrario si sarebbe evidentemente determinata una irragionevole disparità di trattamento in danno di chi, pur avendo subito una detenzione ingiusta, non sia stato poi rinviato a giudizio.

Ciò posto, deve escludersi che la norma impugnata, così come interpretata dalla Corte di cassazione, violi gli invocati parametri costituzionali. In particolare, il fatto che essa precluda al giudice competente sulla domanda di riparazione il riesame di merito degli atti, al fine di verificare la rispondenza della formula adoperata nella sentenza di non luogo a procedere ai fatti emersi, certamente non lede il principio di eguaglianza, sotto nessuno dei profili prospettati dal remittente (con motivazione, peraltro, non sempre del tutto chiara ed esauriente).

Invero, va innanzitutto osservato che (a differenza del provvedimento di archiviazione, per il quale in effetti è stato sollevato qualche dubbio interpretativo, ma non comunque di legittimità costituzionale) nella ipotesi di sentenza di non luogo a procedere - l'unica rilevante nell'attuale giudizio - si è in presenza di formule terminative tipicizzate (art. 425 del codice di procedura penale), in gran parte coincidenti con quelle della sentenza di proscioglimento, per cui la riconducibilità di ciascuna ipotesi alla disciplina di cui al primo ovvero al secondo comma dell'art. 314 non dà luogo ad alcun problema applicativo.

Inoltre, affinchè sorga il diritto alla riparazione, la sentenza di non luogo a procedere deve essere ovviamente divenuta "inoppugnabile" (art.315, primo comma), cioè non più soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione di cui all'art. 428 del codice di procedura penale.

L'ordinanza di rimessione sembra essenzialmente fondare le proprie censure sulla circostanza che la sentenza di non luogo a procedere, a differenza di quella di proscioglimento, pur divenuta inoppugnabile è sempre soggetta alla possibilità di revoca, ai sensi degli artt.434 e seguenti del codice.

Senonchè, da un lato va osservato che la revoca non costituisce un ordinario mezzo di impugnazione, in quanto presuppone il sopravvenire o la scoperta di nuove fonti di prova; dall'altro, e soprattutto, deve rilevarsi che la Corte di cassazione, nella sentenza che ha dato adito al giudizio a quo, ha affermato che l'evento della revoca trova adeguata soluzione nell'ordinamento (proprio ai fini cui sembra particolarmente riferirsi il remittente), in quanto, come si legge in detta sentenza, se il procedimento per la riparazione è ancora in corso, lo stesso deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale, mentre, qualora la somma sia stata già erogata, ben potrà procedersi alla ripetizione dell'indebito, una volta intervenuta una sentenza definitiva incompatibile con l'istituto in esame.

Le considerazioni sin qui svolte valgono, in conclusione, ad escludere la violazione, da parte della norma impugnata, non solo dell'art. 3 della Costituzione, sotto i vari profili prospettati, ma anche dell'art.24, ultimo comma, in quanto il richiamo effettuato dal remittente a quest'ultima norma (la quale, del resto, si limita a prescrivere che "la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari") è sorretto sostanzialmente dagli stessi motivi addotti a sostegno della censura posta in riferimento al principio di eguaglianza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.314, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, ultimo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Bari con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/05/92.

Giuseppe BORZELLINO, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 03/06/92.