Sentenza n. 246 del 1992

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SENTENZA N. 246

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-        Prof. Giuseppe BORZELLINO

-        Dott. Francesco GRECO

-        Prof. Gabriele PESCATORE

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103 (Disposizioni urgenti in materia previdenziale), convertito nella legge 1 giugno 1991, n. 166 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, recante disposizioni urgenti in materia previdenziale), promossi con n. 5 ordinanze di diversi Pretori iscritte rispettivamente ai nn. 534, 710, 738 e 739 del registro ordinanze 1991 ed al n. 32 del registro ordinanze 1992 e pubblicate rispettivamente nelle Gazzette Ufficiali nn. 34 e 49, prima serie speciale, dell'anno 1991, nn. 4 e 32, prima serie speciale, dell'anno 1992;

Visti gli atti di costituzione di Aprosio Maddalena, Bersan Giuseppina, Pescarolo Alvisina e dell'Inps nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 31 marzo 1992 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

uditi gli avvocati Salvatore Cabibbo per Aprosio Maddalena e Bersan Giuseppina; Franco Agostini per Pescarolo Alvisina; Fabrizio Ausenda e Giancarlo Perone per l'Inps e l'Avvocato dello Stato Francesco Guicciardi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Il pretore di Fermo, con ordinanza 4 ottobre 1991, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art.3 Cost., dell'art. 6, del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, conv. nella legge 1 giugno 1991, n. 166 a norma del quale "i termini previsti dall'art.47, commi secondo e terzo, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilità della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione di ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei" (primo comma). "Le disposizioni di cui al comma primo hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto" (comma secondo).

La questione è stata sollevata nel corso di più giudizi riuniti, promossi da pensionati che già usufruivano di una pensione, per ottenere l'integrazione al minimo (con i relativi arretrati) di una seconda pensione erogata dall'Inps, in conseguenza della declaratoria d'illegittimità costituzionale di norme che la escludevano.

Tale seconda pensione era stata liquidata da oltre dieci anni, ed i ricorrenti non avevano proposto l'azione giudiziaria prima dell'emanazione del decreto legge n. 103 del 1991, cosicchè ad essi era applicabile il primo comma dell'art. 6 sopra menzionato.Il giudice a quo ha dedotto che, prima dell'entrata in vigore della norma impugnata, non era prevista nè la prescrizione del diritto a pensione, nè alcuna decadenza, mentre il diritto alla percezione dei singoli ratei scaduti e non pagati si prescriveva dopo dieci anni.

La norma impugnata, con una disposizione di carattere innovativo, avrebbe estinto ope legis, retroattivamente, il diritto a percepire l'integrazione al minimo del secondo trattamento pensionistico.

A parere del giudice a quo, ciò contrasterebbe con l'art. 3 Cost., avendo la norma posto in essere una discriminazione irrazionale tra chi avesse, al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge, già proposto la domanda giudiziaria e chi, invece, non l'avesse ancora proposta.

Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, col patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Nell'atto d'intervento si riconosce che la norma impugnata attribuisce, con effetto retroattivo, carattere di termine di decadenza sostanziale al termine previsto dall'art.47, comma secondo del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 (con ciò innovando rispetto al diritto vigente, tenuto conto che le sezioni unite dalla Corte di cassazione, ponendo fine ai contrasti giurisprudenziali al riguardo, gli avevano attribuito valore di termine di decadenza procedimentale).

L'Avvocatura generale dello Stato, osserva, tuttavia, che la ratio dell'art.6 del decreto- legge n. 103 del 1991 va ricercata "nella necessità di porre un limite alla possibilità di reiterazione, praticamente illimitata, di istanze volte a promuovere successivi procedimenti amministrativi, tenendo aperto indefinitivamente il termine per l'esercizio del diritto". In relazione a tale ratio, la differenziazione introdotta dal secondo comma, delle posizioni di coloro i quali avessero già esperito l'azione giudiziale volta al riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali, sarebbe giustificata.

Tale trattamento diversificato, infatti, non travalicherebbe il limite del corretto esercizio della discrezionalità legislativa, poichè l'art.47, comma secondo, del d.P.R. n. 639 del 1970 già poneva un termine decennale per la proposizione dell'azione giudiziaria e, nel succedersi delle varie interpretazioni giurisprudenziali, sulla natura di tale termine, la posizione di chi non aveva proposto l'azione non può ritenersi meritevole della stessa tutela di quella di chi l'aveva proposta.

Nè, del resto, può ritenersi arbitraria in assoluto una disposizione che, tra le diverse interpretazioni giurisprudenziali sulla natura di un termine, ne abbia affermata legislativamente la natura di termine decadenziale, a carattere sostanziale.

2. Con due ordinanze, entrambe in data 22 ottobre 1991, il pretore di Verona ha sollevato a sua volta alcune questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., dell'art.6, primo e secondo comma, del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, conv. nella l. 1 giugno 1991, n. 166.

Nelle ordinanze si premette - in tema di rilevanza - che i giudizi a quibus erano stati promossi da ricorrenti titolari di due pensioni, i quali avevano chiesto in via amministrativa all'Inps l'integrazione al minimo della seconda pensione dopo il decorso del termine decennale previsto dall'art.47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970 ed avevano proposto domanda giudiziale dopo l'entrata in vigore del decreto-legge n.103 del 1991.

I giudizi a quibus, pertanto, dovevano essere definiti applicando il disposto dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991 il quale - innovando rispetto all'interpretazione data dalle sezioni unite della Corte di cassazione all'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970 - ha stabilito il carattere sostanziale della decadenza ivi prevista in materia di prestazioni previdenziali erogate dall'Inps, statuendo inoltre (con disposizione completamente nuova), che in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, il termine debba decorrere dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei.

La disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 6, secondo le ordinanze di rimessione, si porrebbe innanzitutto in contrasto con l'art.38 Cost., che vieta di sottoporre il diritto alle prestazioni previdenziali a termini di decadenza.

Il giudice a quo ritiene, infatti, che la disposizione impugnata vada interpretata nel senso che sottopone a decadenza decennale non solo i singoli ratei delle prestazioni previdenziali, ma lo stesso diritto alla prestazione: nel caso di specie il diritto a pensione.

In secondo luogo, il giudice a quo deduce che la retroattività del disposto dell'art. 6, primo comma, sancito dal secondo comma, contrasta con gli artt.3 e 38 Cost., in quanto avrebbe estinto - senza che gl'interessati potessero in alcun modo impedirlo - tanto il diritto ai ratei di pensione già maturati, quanto lo stesso diritto alla pensione, mutando la natura e la decorrenza del termine previsto dall'art.47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970.

Infine, il giudice a quo deduce l'irragionevolezza - e sotto tale profilo il contrasto con l'art. 3 Cost. - del secondo comma dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, nella parte in cui limita l'efficacia retroattiva delle disposizioni del primo comma, escludendola per i processi in corso alla data della sua entrata in vigore. La proposizione della domanda giudiziale prima di tale data, infatti, non sarebbe elemento idoneo a giustificare la differenza di trattamento previsto dalla norma.

Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, col patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate.

Dopo aver ribadito quanto esposto nell'atto d'intervento relativo al giudizio promosso con l'ordinanza del pretore di Fermo, l'Avvocatura generale dello Stato sostiene che l'art. 6 impugnato non concerne la titolarità del diritto a pensione (indisponibile ed imprescrittibile), come si evince dalla sua ratio e dalla stessa lettura della legge in esame che menziona unicamente "l'estinzione del diritto ai ratei pregressi".

Così interpretata, la norma non lederebbe nè l'art. 3, nè l'art.38 Cost., ma sarebbe razionale espressione di una scelta del legislatore diretta ad evitare che il sistema previdenziale sia esposto sine die ad un onere imprevedibile.

Quanto, in particolare, alla esclusione dall'applicazione retroattiva del primo comma dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991 a coloro che avevano già proposto domanda giudiziale al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge, l'Avvocatura dello Stato osserva che essa è disposta da una norma derogatoria e quindi, ove si ritenga che tale trattamento violi l'art.3 Cost., è la norma derogatoria che dovrebbe essere dichiarata illegittima e non la norma generale derogata.

Davanti a questa Corte si sono costituite anche alcune delle parti ricorrenti nei giudizi a quibus, chiedendo che l'articolo impugnato sia dichiarato costituzionalmente illegittimo per le ragioni indicate nell'ordinanza di rimessione, sottolineando che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza costituzionale, la retroattività delle leggi è legittima solo ove non travalichi il limite della ragionevolezza.

Limite superato dall'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, il quale, mutando la natura del termine previsto dall'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970, avrebbe dato luogo all'automatica estinzione del diritto ai ratei di pensione pregressi e all'inammissibilità delle domande giudiziarie proposte dopo la sua emanazione, dirette ad ottenere l'integrazione al minimo di pensioni Inps.

Si è costituito pure l'Inps, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

In proposito ha premesso che l'art. 6 del decreto-legge n. 103 del 1991 ha stabilito una decadenza sostanziale unicamente per i ratei di pensione pregressi, lasciando impregiudicato il diritto a pensione, come si evince dal tenore complessivo del primo comma. Ne conseguirebbe che l'azione giudiziaria, in via di principio, è sempre proponibile, anche dopo il decorso del termine di dieci anni dalle decisioni adottate dall'Inps, qualora abbia ad oggetto il diritto al trattamento futuro.

Tuttavia, nei casi che formano oggetto dei giudizi a quibus, l'estinzione del diritto ai ratei arretrati si tradurrebbe in pratica nell'estinzione del diritto all'integrazione al minimo della pensione. Ciò in quanto alla data della domanda amministrativa e giudiziale era già vigente la normativa di cui alla legge 11 novembre 1983, n. 638, la quale all'art. 6, comma terzo, prevede che, nel caso di concorso tra due o più pensioni, l'integrazione spetta una sola volta ed, in caso di titolarità di pensione diretta e di pensione di reversibilità, sulla prima. In base a tale disposizione, non competendo più dall'1 ottobre 1983 la doppia integrazione nel caso di titolarità di due trattamenti pensionistici, deriverebbe ai ricorrenti la perdita del diritto all'integrazione del trattamento pensionistico dal 30 settembre 1983. Quanto al diritto ai ratei arretrati, i ricorrenti lo avrebbero perso per essersi maturata la decadenza decennale, decorrente, non avendo essi proposto ricorso amministrativo - ai sensi dell'ultima parte del primo comma dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991 - dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei, da intendersi coincidente con la data del provvedimento di concessione della pensione.

Ciò premesso, la difesa dell'Inps ha affermato la razionalità della disciplina impugnata e la sua conformità agli artt. 3 e 38 Cost..

3. Il pretore di Sanremo, con ordinanza 14 giugno 1991 - anch'essa emessa nel corso di più giudizi riuniti aventi ad oggetto il diritto dei ricorrenti, titolari di due pensioni, all'integrazione al minimo di una di esse, con i relativi arretrati - ha sollevato a sua volta questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., dell'art. 6, secondo comma, del d.l. n. 103 del 1991, nella parte in cui esclude l'applicazione retroattiva del disposto del primo comma ai giudizi in corso all'entrata in vigore del decreto- legge. Precisato in tema di rilevanza che i giudizi erano stati proposti con ricorsi depositati prima di tale data, il giudice a quo ha dedotto che l'applicabilità retroattiva del primo comma dell'art. 6 - disposta in via generale - rientra nella discrezionalità legislativa. Irrazionale, peraltro, sarebbe l'esclusione di tale retroattività relativamente ai giudizi in corso, poichè nessuna valida ragione sarebbe rinvenibile a fondamento della trasformazione retroattiva, operata dal primo comma, di un termine di decadenza procedimentale in termine di decadenza sostanziale per tutti gl'interessati, tranne che per coloro che abbiano già proposto domanda giudiziale.

Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, col patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L'Avvocatura generale dello Stato ha dedotto in proposito che la differenziazione introdotta dall'art. 6, comma secondo, del d.l. n. 103 del 1991, tra le posizioni di coloro che, al momento della sua entrata in vigore, avessero già esperito azione giudiziale volta al riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali appare giustificata, "trovando il suo fondamento nella differente situazione giuridica e di fatto nella quale essi vengono a trovarsi, rispetto ai quei soggetti che versino in condizione di inerzia nell'esercizio del diritto".

Si è costituita una delle parti ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo che la Corte costituzionale non limiti il suo esame al profilo d'illegittimità costituzionale prospettato dal giudice a quo, ma lo estenda all'intero comma secondo dell'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, dichiarando illegittima la retroattività del primo comma, da esso sancita in via generale.

Si è costituito pure l'Inps, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, poichè la norma è frutto di una discrezionalità legislativa non irragionevole e perciò insindacabile, in quanto volta a tutelare posizioni processuali instaurate in relazione ad un indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione, sul quale la nuova normativa dettata con l'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991 è venuta ad incidere.

4. Con altra ordinanza 30 ottobre 1991 anche il Pretore di Voghera ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, conv. nella l. 1 giugno 1991, n. 166, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost..

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, anche il Pretore di Voghera deduce l'irragionevolezza della retroattività della normativa impugnata - che ha trasformato i termini previsti dall'art. 47 del d.P.R. n.639 del 1970, in termini di decadenza sostanziale - ed il suo contrasto con la tutela dei diritti previdenziali disposta dall'art. 38 Cost..

In particolare deduce il suo contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto avrebbe ingiustificatamente privilegiato (escludendoli da tale decadenza) coloro che avessero già proposto l'azione giudiziaria, rispetto a coloro che si erano limitati ad attendere la decisione del ricorso amministrativo.

Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata per le stesse ragioni esposte nei precedenti atti d'intervento.

Considerato in diritto

1. I giudizi hanno tutti per oggetto la stessa norma e questioni analoghe o connesse; essi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. É impugnato l'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, conv. nella l. 1 giugno 1991, n. 166, secondo il quale: "I termini previsti dall'articolo 47, commi secondo e terzo, del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilità della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione di ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei" (comma primo).

"Le disposizioni di cui al comma primo hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto" (comma secondo).

In relazione a tale articolo, questa Corte è chiamata a decidere:

a) se esso violi l'art. 3 Cost., in quanto avrebbe estinto retroattivamente il diritto a percepire l'integrazione al minimo del secondo trattamento pensionistico, per coloro che non avevano proposto domanda giudiziale al momento dell'entrata in vigore del decreto, realizzando così una discriminazione irrazionale tra chi avesse, prima di tale momento, proposto la domanda giudiziale e chi non l'avesse proposta (ordinanza 4 ottobre 1991 del Pretore di Fermo, R.O. n. 710 del 1991);

b) se violi gli artt. 3 e 38 Cost., in quanto sottoporrebbe a decadenza decennale non solo i singoli ratei di pensione, ma lo stesso diritto a percepirli; avrebbe estinto retroattivamente, senza che gl'interessati potessero in alcun modo impedirlo, tanto il diritto ai ratei di pensione già maturati, quanto lo stesso diritto alla pensione, mutando la natura e la decorrenza del termine previsto dall'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970; avrebbe irrazionalmente limitato l'efficacia retroattiva delle disposizioni del primo comma, escludendola per i processi in corso alla data della sua entrata in vigore, poichè la proposizione della domanda giudiziale non sarebbe elemento idoneo a giustificare la differenza di trattamento così prevista (ordinanza 22 ottobre 1991 del Pretore di Verona, R.O. n. 738 e n. 739 del 1991);

c) se violi l'art. 3 Cost. in quanto esclude l'applicazione retroattiva del disposto del primo comma, ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, essendo irrazionale l'esclusione di tale retroattività per i giudizi in corso, in deroga alla regola generale della retroattività, ivi stabilita (ordinanza 14 giugno 1991 del Pretore di Sanremo, R.O. n. 534 del 1991);

d) se violi gli artt. 3 e 38 Cost., avendo leso la garanzia costituzionale relativa ai trattamenti previdenziali, nonchè per la sua intrinseca irragionevolezza e per avere ingiustificatamente privilegiato (escludendoli dalla decadenza) coloro che avessero già proposto l'azione giudiziaria rispetto a coloro che erano restati in attesa della decisione del ricorso amministrativo (ordinanza 30 ottobre 1991 del Pretore di Voghera, R.O. n. 32 del 1992).

3. Le questioni sono infondate.

Va premesso che il d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, con gli artt. 44 e segg. aveva disciplinato i ricorsi e le controversie in materia di prestazioni dell'Inps, ivi comprese quelle in materia di pensioni.

Tale disciplina è stata in parte innovata dalla successiva legge 9 marzo 1989, n. 88 che, peraltro, non ha modificato la disposizione dell'art.47, secondo la quale l'azione giudiziaria può essere proposta dopo l'esperimento dei ricorsi amministrativi "entro il termine di dieci anni dalla data di comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata dai competenti organi dell'istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della decisione medesima, se trattasi di controversie in materia di trattamenti pensionistici".

Questa disposizione ha avuto interpretazioni divergenti in giurisprudenza, anche con riferimento al tema della tutela del diritto a pensione. Sotto tale aspetto si è definito un indirizzo costante che considera indisponibile il diritto e, in quanto tale, imprescrittibile e non assoggettabile, quanto al suo esercizio, a termini di decadenza.

Al riguardo, mentre si era affermato in modo univoco che l'art. 47 si riferisse ai ratei di pensione non ancora liquidati, a divergenti risultati avevano dato luogo le questioni se il termine decennale ivi previsto fosse un termine di prescrizione o di decadenza, e - nell'ambito di quest'ultimo orientamento - se detta decadenza dovesse ritenersi sostanziale o procedimentale.

Dopo vari contrasti, la giurisprudenza della Corte di cassazione - che in precedenza sembrava essersi orientata nel senso che il termine fosse di prescrizione - da ultimo aveva affermato che esso non producesse effetti sostanziali, delimitando unicamente "l'efficacia temporale della condizione di procedibilità della domanda giudiziale", prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970. La scadenza del termine, pertanto, avrebbe comportato esclusivamente il difetto di detta procedibilità, rendendosi necessaria la ripetizione della procedura amministrativa per esperire nuovamente l'azione giudiziaria.

Ne derivava, ai fini dell'agibilità della pretesa diretta a conseguire l'integrazione al minimo, che questa dovesse essere proposta entro dieci anni dalla data di comunicazione del ricorso amministrativo o dalla scadenza del termine previsto per la formazione del silenzio-rigetto; se detto termine fosse trascorso senza l'instaurazione del giudizio, la domanda in via amministrativa doveva essere riproposta, per poi adire il giudice.

Sul piano sostanziale, invece, dovevano ritenersi prescritti i ratei anteriori ai dieci anni precedenti la presentazione del ricorso o della domanda in sede amministrativa.

Il diritto alla pensione di vecchiaia sorge, infatti, automaticamente, con la maturazione dei requisiti richiesti, ma non coincide con la decorrenza delle prestazioni. Il trattamento pensionistico originariamente aveva inizio dal primo giorno del mese successivo a quello del compimento dell'età pensionabile o dell'acquisizione, se posteriore, dei requisiti assicurativi e contributivi (art. 7 d.lgt. 21 aprile 1919, n. 603, art. 7 r.d. 30 dicembre 1923, n. 3184, art. 79 del regolamento di cui al r.d.28 agosto 1924, n. 1422, art. 62 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 9 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636). In seguito - dopo che con la legge delega 18 marzo 1968, n. 238 (art. 6, lett. d) e il d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 (art. 18) la decorrenza della pensione era stata fissata al primo giorno del mese successivo alla data di presentazione della domanda - con l'art. 6 della l. 23 aprile 1981, n. 155 detta decorrenza (salva la facoltà dell'assicurato di optare per il riferimento alla data della domanda), è stata riportata al primo giorno del mese successivo al compimento dell'età pensionabile, fermo l'eventuale spostamento, alla data di acquisizione dei requisiti assicurativi e contributivi. Con la conseguenza che la prescrizione dei ratei decorre dal momento in cui sorge il diritto a ciascun rateo ed è interrotta dalla presentazione della domanda o del ricorso.

4. In relazione al prevalere, sul precedente orientamento giurisprudenziale, di quello da ultimo ricordato circa la natura e gli effetti del termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, il legislatore è intervenuto con l'impugnato art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, avente carattere di norma d'interpretazione autentica.

Secondo quanto più volte affermato da questa Corte detto carattere ricorre ove la legge, senza modificare il tenore testuale della norma interpretata, ne precisi il significato precettivo, scegliendo una fra le interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto sia espresso dalla coesistenza delle due norme, le quali permangono entrambe in vigore, incidendo la legge interpretativa sulla norma interpretata senza abrogarla (cfr., da ultimo, le sentenze nn. 380 e 155 del 1990; n. 6 del 1988; nonchè l'ordinanza n. 205 del 1991).

Tali elementi ricorrono puntualmente nell'art. 6 impugnato, la cui ratio sta nella voluntas di procedere ad un'interpretazione dell'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 diversa da quella cui era pervenuta più recentemente la giurisprudenza, esplicandone in tal senso il contenuto. A questo fine, il legislatore ha statuito (art. 6, primo comma) che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 - così come quello quinquennale indicato dal terzo comma dell'art. 47, estraneo all'attuale thema decidendum - deve intendersi posto a pena di decadenza, nel senso che il suo decorso "determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali". Ne consegue che il termine ha valore sostanziale e non procedimentale, come invece aveva affermato la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione.

Va precisato che in questa visione interpretativa l'art. 6, primo comma, del d.l. n. 103 del 1991 - così come l'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 al quale si riferisce - non può riguardare la disciplina del diritto a pensione, ma solo quella del diritto ai ratei di essa.

Il diritto a pensione, infatti, come si è accennato, è imprescrittibile (nè sottoponibile a decadenza) secondo una giurisprudenza non controversa, in conformità di un principio costituzionalmente garantito che non può comportare deroghe legislative.

L'ossequio a tale principio si rinviene puntualmente nell'art. 6, primo comma, del d.l. n. 103 del 1991, avendo esso - nell'interpretare autenticamente l'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 - espressamente stabilito che la decadenza ivi prevista determina l'estinzione del diritto "ai ratei pregressi".

5. Le considerazioni che precedono, in ordine all'interpretazione dell'art. 6, primo comma, del d.l. n. 103 del 1991, implicano la non fondatezza di tutte le questioni, proposte dai giudici remittenti sulla base dell'erroneo convincimento che la norma preveda l'estinzione - a seguito della decorrenza del termine decennale - non soltanto dei singoli ratei, ma dello stesso diritto a pensione.

Debbono parimenti dichiararsi non fondate le questioni che coinvolgono la retroattività dell'art. 6, primo comma cit., definita di per sè irrazionale e contrastante con l'esigenza di tutela dei diritti previdenziali stabilita dall'art. 38 Cost..

La retroattività è, infatti, elemento connaturale alle leggi interpretative (sentenza n. 123 del 1988) e la conformità a Costituzione di tali leggi si riflette anche su questo elemento (cfr. sent. n. 118 del 1957).

6. Nel quadro della determinazione dei limiti della retroattività si inseriscono le questioni sollevate circa il secondo comma dell'art. 6: questa norma ha precisato gli effetti in praeteritum dell'interpretazione autentica data dal primo comma, escludendola con riguardo alle domande giudiziali per il conseguimento dei ratei, già proposte alla data dell'entrata in vigore della norma stessa.

I giudici remittenti hanno dedotto il contrasto di siffatta diversificazione con gli artt. 3 e 38 Cost., in quanto sarebbe irrazionale la disciplina del trattamento, fondata sull'elemento della proposizione della domanda.

Al riguardo alcune ordinanze chiedono l'estensione del trattamento più favorevole anche a chi non aveva ancora esperito il giudizio (così le ordinanze del Pretore di Verona e del Pretore di Voghera), mentre un'ordinanza (del Pretore di Sanremo) chiede l'estensione decadenziale anche alle domande giudiziali già proposte.

La questione deve essere dichiarata non fondata, in relazione ad entrambi i profili su riferiti.

Il carattere retroattivo, del quale si è detto, è da connettere alla circostanza che la legge interpretata costituisce il nucleo centrale della fattispecie che essa realizza insieme con la legge interpretativa, ponendosi come elemento costitutivo della struttura, cui si collegano gli effetti del processo interpretativo, con decorrenza, quindi, dal momento del suo venire in essere. Nella disciplina di tale retroattività il legislatore - salvo che si tratti di norme penali incriminatrici o introduttive di nuove pene ovvero incrementive delle pene stesse - ha un'ampia discrezionalità, purchè non violi il principio di ragionevolezza o altri principi costituzionalmente garantiti (cfr. da ultimo le sentenze n. 155 del 1990 e n. 822 del 1988). Appartiene quindi al potere del legislatore, sia emanare norme retroattive, sia limitare tale retroattività anche rispetto a norme che, per essere interpretative, hanno connaturale efficacia retroattiva.

A questa stregua va valutato il secondo comma dell'art. 6 del d.l. n.103 del 1991, con riferimento alla ragionevolezza del limite alla retroattività della interpretazione dell'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970. Tale retroattività non appare irragionevole, trovando la sua ratio nell'esigenza di garantire le posizioni di coloro che avevano proposto domanda in giudizio, fondandola sull'interpretazione data alla norma dalle Sezioni unite della Cassazione. Tale elemento concretatosi nell'atto formale di promozione del giudizio, poteva ben essere apprezzato dal legislatore come base del diverso trattamento riservato dalla norma alla pretesa per il conseguimento dei ratei pregressi delle prestazioni previdenziali.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi primo e secondo, del decreto-legge 29 marzo 1991, n.103 (Disposizioni urgenti in materia previdenziale), convertito nella legge 1 giugno 1991, n. 166 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 29 marzo 1991, n. 103, recante disposizioni urgenti in materia previdenziale), sollevate con le ordinanze indicate in epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/05/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Gabriele PESCATORE, Redattore

Depositata in cancelleria il 03/06/92.