Sentenza n. 210 del 1992

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SENTENZA N. 210

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-      Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-      Prof. Giuseppe BORZELLINO

-      Dott. Francesco GRECO

-      Prof. Gabriele PESCATORE

-      Avv. Ugo SPAGNOLI

-      Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-      Prof. Antonio BALDASSARRE

-      Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-      Avv. Mauro FERRI

-      Prof. Luigi MENGONI

-      Prof. Enzo CHELI

-      Dott. Renato GRANATA

-      Prof. Giuliano VASSALLI

-      Prof. Francesco GUIZZI

-      Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 (Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali), convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 1984, n. 863, promosso con ordinanza emessa il 10 giugno 1991 dal Pretore di Firenze nel procedimento civile vertente tra Stella Monica e la S.p.A. Impresa G.A.M.B.A. iscritta al n. 600 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di costituzione di Stella Monica;

udito nell'udienza pubblica del 21 gennaio 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

udito l'avvocato Giorgio Bellotti per Stella Monica

Ritenuto in fatto

 

 1.- Con ricorso depositato il 27 ottobre1989, Monica Stella, premesso di aver lavorato alle dipendenze della S.p.A. G.A.M.B.A. con contratto di lavoro individuale a tempo parziale, ha chiesto al Pretore di Firenze, quale giudice del lavoro, di dichiarare la nullità della clausola che stabiliva che la prestazione lavorativa sarebbe stata svolta ad orario ridotto, "durante gli orari stabiliti dalla Direzione, nel limite complessivo di effettivo lavoro settimanale, pari ad ore 20"; ha chiesto altresì di condannare la società al pagamento in suo favore della differenza tra il trattamento economico percepito e quello che le sarebbe invece spettato in base ad un rapporto a tempo pieno e ciò in ragione sia della dedotta nullità della clausola limitativa dell'orario, derivante dalla mancata specificazione per iscritto della distribuzione e dislocazione delle ore di lavoro da prestare in ciascun giorno, sia del fatto che, a causa dell'effettuazione di prestazioni lavorative ulteriori rispetto alle 20 ore settimanali pattuite e collocate ad orari variabili nel corso di ciascuna giornata, le modalità concrete di attuazione del rapporto avevano integrato una messa a disposizione delle energie lavorative analoga a quella del rapporto a tempo normale.

Il Pretore, con ordinanza del 10 giugno 1991 (r.o. n. 600/91) ha osservato che, secondo l'interpretazione data dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, all'art. 5, secondo comma, della legge 19 dicembre 1984, n.863, nel rapporto di lavoro a tempo parziale non è ammissibile una modifica unilaterale dell'orario di lavoro pattuito (Cass. 21 aprile 1986, n. 2797; Cass. 22 marzo 1990, n. 2382) ma, sul piano genetico, è possibile adottare clausole elastiche, con le quali le parti si limitano a determinare la durata del periodo lavorativo senza specificarne la collocazione temporale, che viene in tal modo rimessa alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro (Cass. n. 2382 del 1990 cit.). Il giudice a quo osserva altresì che, secondo la giurisprudenza della Cassazione, la forma scritta prevista dalla norma impugnata è richiesta ad substantiam, ma la sua mancanza non produce altro effetto che quello derivante dalla nullità del contratto ex art. 2126 cod. civ. (Cass. 11 luglio 1989, n.3266; Cass. 11 agosto 1990, n. 8169; Cass. 3 maggio 1991, n. 4811).

Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che l'art. 5, secondo comma, della legge 19 dicembre 1984, n. 863, così interpretato, possa confliggere con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione sotto due profili: a) in quanto non specifica la necessità che la distribuzione dell'orario sia precisata, oltre che rispetto al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, altresì nella sua collocazione temporale nell'ambito della giornata; b) in quanto non disciplina gli effetti della mancanza di forma scritta o della mancanza o insufficiente formulazione della clausola di distribuzione dell'orario, da ritenere equivalente a mancanza di forma scritta, nel senso che in tal caso il rapporto si deve intendere a tempo pieno e a tempo indeterminato.

Con riguardo al primo profilo, il Pretore osserva che se è vero, sulla scorta degli enunciati della Suprema Corte, che - "il rapporto di lavoro a tempo parziale, in dipendenza della riduzione quantitativa della prestazione lavorativa e, correlativamente, della retribuzione, lascia al prestatore d'opera spazio per altre eventuali attività, la cui programmabilità deve essere salvaguardata, anche all'ovvio fine di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un'esistenza libera e dignitosa" (Cass. n.2392 del 1990 cit.; Cass. 25 febbraio 1988, n. 2027) - appare contraddittorio consentire alle parti, nel momento genetico, di attribuire al datore di lavoro un potere unilaterale di determinazione e di variazione dell'orario confliggente con la lettera e la finalità della norma e suscettibile di rendere impossibili altre attività lavorative, sì da confliggere non solo con l'art. 36, ma anche con l'art. 38 Cost., in ragione dei riflessi previdenziali e pensionistici del rapporto di lavoro a tempo parziale.

Con riguardo al secondo profilo, il giudice a quo ricorda che le prescrizioni laburistiche che richiedono la forma scritta trovano la propria giustificazione nell'esigenza di tutelare il contraente ritenuto più debole, esigenza che, del resto, costituisce la ragion d'essere del diritto del lavoro e della sua specialità. Il vizio di forma, quando questa è richiesta ad substantiam produce normalmente la nullità della clausola cui il vizio stesso afferisce, ma nel diritto del lavoro, proprio in ragione della funzione tutoria insita nella specialità di tale ramo del diritto, il legislatore ha disciplinato gli effetti di tale nullità in modo non coincidente con quello previsto dalla disciplina dei contratti in generale, al fine di raggiungere in ogni caso l'obiettivo di tutela in funzione del quale è stata prescritta la forma solenne.

Così, il patto di prova orale o successivo all'assunzione, nulla disponendo l'art. 2096 sugli effetti della nullità, è tamquam non esset, e il rapporto di lavoro nasce privo di tale clausola limitativa, e quindi come normale rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Cass. 20 agosto 1987, n.6982). L'art. 2125 viceversa dispone espressamente la nullità della durata del patto di non concorrenza, per la parte eventualmente eccedente il limite di legge, ma tale nullità non ha riflessi sulla validità del contratto.

L'art. 1, comma terzo, della legge n. 230 del 1962 sancisce l'inefficacia del termine non risultante da atto scritto, e la conseguente prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato, a tutela dell'interesse del lavoratore, comunemente sussistente, al carattere definitivo del rapporto (Cass. 28 gennaio 1987, n. 832). L'art. 8, settimo comma, legge 29 dicembre 1990, n.407 dispone che in mancanza di forma scritta del contratto di formazione e lavoro il lavoratore si intende assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Tali ultime disposizioni paiono ispirate ad una presunzione di interesse del lavoratore al rapporto a tempo indeterminato puro, nonchè ad un valore confirmatorio della norma e sanzionatorio della sua inosservanza mediante la trasformazione del rapporto, da tempo determinato, o di formazione e lavoro, in rapporto a tempo indefinito. Tale funzione sanzionatoria è ancor più evidente nella disposizione di cui all'art. 3, nono comma, stessa legge n.863 del 1984, secondo cui "In caso di inosservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi del contratto di formazione e lavoro, il contratto stesso si considera a tempo indeterminato fin dalla data dell'instaurazione del relativo rapporto".

Dovendosi invece l'art. 5 della legge n. 863 del 1984 intendere, secondo il diritto vivente, nel senso che la mancanza della forma scritta produce il solo effetto, ex art. 2126 cod. civ., dell'obbligo di retribuire le prestazioni pregresse, ne deriva una irrazionale contraddittorietà tra voluntas legis di tutela del lavoratore part-time ex artt. 3, 36 e 38 Cost. e funzione pratica di tutta la normazione sul tempo parziale, perchè la norma non regola più il conflitto di interessi tra le parti in funzione tutoria di quella più debole, ma pone il lavoratore a tempo parziale, il cui contratto sia nullo per vizio di forma, alla totale mercè del datore di lavoro. Ciò costituisce lesione dei principi costituzionali menzionati (ove infatti il lavoratore facesse rilevare la nullità e manifestasse o notificasse al datore la sua intenzione o volontà di proseguire a lavorare, a tempo parziale o a tempo pieno che sia, il datore di lavoro potrebbe porre fine immediatamente alla prestazione lavorativa di fatto, priva di valido atto genetico). La questione proposta - conclude il giudice a quo - appare pertanto rilevante in causa, rispetto alla domanda formulata di condanna al pagamento della retribuzione corrispondente ad un normale rapporto a tempo pieno, e non manifestamente infondata, ex art. 3 Cost., sotto il profilo della diversa coerenza di tutela conseguente alla violazione di precetti a presidio di situazioni analoghe, di pari gravità, e parimenti fornite della garanzia della forma solenne, ed ex art.36 e 38 Cost., per il venir meno della garanzia retributiva e previdenziale per fatto esclusivo del datore di lavoro.

Nè pare ostare a tale ordine di considerazioni la preoccupazione dell'indebito arricchimento che il lavoratore, che abbia lavorato a tempo parziale, riceverebbe dalla conversione a posteriori del rapporto a tempo pieno, sia perchè il valore deterrente di una disposizione in tal senso eviterebbe il verificarsi di siffatte situazioni, sia perchè il valore sanzionatorio di disposizioni similari già comporta effetti di tal genere (come nel caso dell'art. 3, nono comma, legge n. 863 del 1984 menzionato, in cui il datore di lavoro inadempiente ha gli obblighi corrispondenti ad un rapporto normale, pur a fronte di un sinallagma originario che contemplava una prestazione presuntivamente ridotta dalle esigenze di formazione).

2.- Si è costituita la parte privata aderendo alle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione.

Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto.

Considerato in diritto

 

1.- La norma che il Pretore di Firenze sottopone all'esame di questa Corte è rappresentata dall'art. 5, secondo comma, della legge 19 dicembre 1984, n. 863, secondo cui "Il contratto di lavoro a tempo parziale deve stipularsi per iscritto. In esso devono essere indicate le mansioni e la distribuzione dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Copia del contratto deve essere inviata entro trenta giorni al competente ispettorato provinciale del lavoro". Il Pretore premette che la Corte di cassazione ha dato a tale norma un'interpretazione che consente anche l'adozione di clausole "elastiche", in virtù delle quali le parti si limitano a determinare la durata del periodo lavorativo senza specificarne la collocazione nell'unità di tempo immediatamente più ampia, con conseguente facoltà, per il datore di lavoro, di determinare e variare unilateralmente, nel corso del rapporto, la collocazione temporale della prestazione lavorativa.

Così intesa, peraltro, la norma confliggerebbe con l'art. 36 della Costituzione, in quanto il potere dell'imprenditore di determinare e variare unilateralmente l'orario di lavoro nel rapporto a tempo parziale, rende impossibile al lavoratore di assumere e di programmare altre occupazioni al fine di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un'esistenza libera e dignitosa. Anche l'art. 38 della Costituzione risulterebbe violato da un simile assetto normativo, per il pregiudizio che esso determinerebbe alla posizione previdenziale e pensionistica del lavoratore.

Dopo aver chiesto alla Corte di dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata, "nella parte in cui non specifica la necessità che la distribuzione dell'orario sia precisata, oltre che rispetto al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, altresì nella sua collocazione temporale nell'ambito della giornata", il Pretore affronta il problema delle conseguenze da collegare alla presenza di clausole in cui manchi o sia insufficiente la determinazione della distribuzione dell'orario. Al riguardo, il Pretore deduce che tale ipotesi è equivalente a quella della clausola di distribuzione dell'orario priva di forma scritta e riferisce che la Cassazione, per quest'ultima ipotesi, ha ritenuto che la forma scritta è richiesta ad substantiam, ma la sua mancanza non produce altro effetto che quello derivante dalla nullità del contratto ex art.2126 cod. civ.. A questa interpretazione si collega la seconda censura che il giudice a quo formula nei confronti del medesimo art. 5. Una simile disciplina, infatti - osserva il Pretore di Firenze - appare determinare una irrazionale contraddizione con la volontà di tutela del lavoratore a tempo parziale, che pur ispira la stessa norma legislativa, nonchè una irrazionale incoerenza con la disciplina prevista per le altre ipotesi di nullità parziale del contratto di lavoro subordinato, sì da confliggere con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione. Il lavoratore a tempo parziale il cui contratto sia nullo per vizio di forma è posto infatti alla totale mercè del datore di lavoro (perchè, se egli fa valere la nullità, il datore di lavoro può porre immediatamente fine alla prestazione lavorativa di fatto, priva di valido atto genetico), il che costituisce lesione dei principi costituzionali sopra menzionati.

2.- L'interpretazione del citato art. 5, secondo comma, alla quale il giudice a quo fa riferimento per la prima delle due questioni di costituzionalità sottoposte all'esame di questa Corte, è formulata nella sentenza della Cassazione, sezione lavoro, 22 marzo 1990, n. 2382, in cui, in effetti, si legge che "l'obbligo della distribuzione dell'orario stabilito dal citato art. 5 l. 863 del 1984 ... non implica la necessità di determinare, oltre alla durata unitaria, la dislocazione temporale della prestazione lavorativa. Di guisa che nel contratto individuale possono utilmente essere adottate clausole (cosiddette "rigide") recanti l'indicazione sia della quantità che della collocazione temporale della prestazione, ovvero clausole (cosiddette "elastiche"), con le quali le parti si limitano a determinare la durata del periodo lavorativo senza specificarne la dislocazione nell'unità di tempo immediatamente più ampia".

Questa interpretazione è stata assunta dal Pretore di Firenze a base e ad oggetto dell'ordinanza di remissione perchè ritenuta "diritto vivente", in ragione dell'affermazione di essa da parte del Supremo Collegio.

Occorre invece osservare che non sussistono le condizioni perchè l'enunciato interpretativo in esame sia considerato idoneo a rappresentare un consolidato indirizzo giurisprudenziale.

A questo riguardo, è da rilevare che l'affermazione suddetta - che, peraltro, non risulta essere stata successivamente ripresa dalla giurisprudenza della Cassazione - non costituiva la ratio decidendi della richiamata pronunzia, ma rappresentava un semplice obiter dictum.

Il caso sottoposto all'esame della Cassazione, infatti, riguardava contratti di lavoro a tempo parziale ai quali, come si legge nella motivazione, la normativa impugnata non era applicabile, essendo stati gli stessi conclusi prima della sua entrata in vigore.

La stessa pronunzia, del resto, dichiara che non aveva alcuna rilevanza, nella fattispecie in esame, la questione relativa alla dedotta essenzialità della specifica determinazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa.

3.- Se, quindi, non vi sono elementi per ritenere che l'interpretazione presupposta dal giudice a quo si sia affermata come "diritto vivente", vi è da osservare che essa non appare imposta e neppur suggerita dai comuni canoni ermeneutici, mentre preminente rilievo deve essere riconosciuto, in questo caso, al criterio secondo cui, tra più significati possibili di una medesima disposizione, l'interprete deve escludere quello, tra di essi, che non sia coerente con il dettato costituzionale.

Sul piano letterale, la prescrizione secondo cui nel contratto di lavoro a tempo parziale devono essere indicate, oltre alle mansioni, anche "la distribuzione dell'orario, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno" non appare poter essere interpretata nel senso che il legislatore abbia considerato sufficiente l'indicazione della durata della prestazione lavorativa in riferimento ai parametri temporali specificati nella norma (e tanto meno in riferimento ad alcuni soltanto di essi). Il ricorso al termine "distribuzione" ed il riferimento congiunto a tutti i parametri temporali denotano con chiarezza che il legislatore non ha considerato sufficiente che il contratto specifichi il numero di ore di lavoro al giorno (ovvero il numero di giorni alla settimana, al mese o all'anno, ovvero il numero di settimane al mese o all'anno, ovvero il numero di mesi all'anno) in cui la prestazione lavorativa deve svolgersi, ma ha inteso stabilire che, se le parti si accordano per un orario giornaliero di lavoro inferiore a quello ordinario, di tale orario giornaliero deve essere determinata la "distribuzione" e cioé la collocazione nell'arco della giornata; se le parti hanno convenuto che il lavoro abbia a svolgersi in un numero di giorni alla settimana inferiore a quello normale, la "distribuzione" di tali giorni nell'arco della settimana deve essere preventivamente determinata; se le parti hanno pattuito che la prestazione lavorativa debba occupare solo alcune settimane o alcuni mesi, deve essere preventivamente determinato dal contratto quali (e non solo quante) sono le settimane e i mesi in cui l'impegno lavorativo dovrà essere adempiuto. In definitiva, il legislatore ha escluso, appunto, l'ammissibilità di qualunque forma di contratto c.d. a chiamata o a comando (ove, con tali formule si intenda far riferimento a rapporti nei quali il contratto individuale consente al datore di lavoro di decidere in modo unilaterale quando utilizzare il singolo dipendente), e di certo lo ha fatto - adottando una precisa formulazione letterale - con piena consapevolezza e con piena intenzione, posto che simili figure contrattuali erano già presenti nell'esperienza di alcuni paesi europei e nel dibattito che aveva preceduto e accompagnato l'elaborazione del testo legislativo.

L'ammissibilità di un contratto di lavoro a tempo parziale nel quale sia riconosciuto il potere del datore di lavoro di determinare o variare unilateralmente, a proprio arbitrio, la collocazione temporale della prestazione lavorativa, sarebbe del resto in contraddizione con le ragioni alle quali è ispirata la disciplina di tale rapporto. Come ha giustamente rilevato la giurisprudenza della Cassazione, il rapporto di lavoro a tempo parziale "si distingue da quello a tempo pieno per il fatto che, in dipendenza della riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione), lascia al prestatore d'opera un largo spazio per altre eventuali attività, la cui programmabilità, da parte dello stesso prestatore d'opera, deve essere salvaguardata, anche all'ovvio fine di consentirgli di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva che sia sufficiente (art.36, primo comma, della Costituzione) a realizzare un'esistenza libera e dignitosa". E su tali rilievi la medesima giurisprudenza ha basato l'affermazione che "il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine a tale riduzione nonchè alla collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario (reputato dalle parti come il più corrispondente ai propri interessi) comporta che ogni modifica di detto orario non possa essere attuata unilateralmente dal datore di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell'attività aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le parti" (Cass., sez. lav., 22 marzo 1990, n.2382).

É del tutto evidente, peraltro, che le stesse ragioni che escludono il potere del datore di lavoro di variare unilateralmente la pattuita collocazione temporale della prestazione lavorativa ridotta, conducono altresì ad escludere l'ammissibilità di pattuizioni che attribuiscano al datore di lavoro un simile potere. Clausole di questo genere, infatti, farebbero venir meno la possibilità, per il lavoratore, di programmare altre attività con le quali integrare il reddito lavorativo ricavato dal rapporto a tempo parziale. Tale possibilità - come è stato osservato - deve invece essere salvaguardata, poichè soltanto essa rende legittimo che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Sarebbe inoltre certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall'attività lavorativa. A questo riguardo non è superfluo ricordare quale particolare rilievo riveste il rapporto a tempo parziale per il lavoro femminile: per molte donne è questa, infatti, la figura contrattuale che rende possibile il loro ingresso o la loro permanenza nel mondo del lavoro, perchè consente di contemperare l'attività lavorativa con quegli impegni di assistenza familiare che ancor oggi gravano di fatto prevalentemente sulla donna. Ma è chiaro che queste esigenze verrebbero completamente obliterate ove fosse consentito pattuire la variabilità unilaterale della collocazione temporale della prestazione lavorativa.

Il significato proprio della rigorosa formulazione della norma legislativa appare pienamente coerente con la necessaria salvaguardia di tali principi e di tali esigenze. Non vi è quindi alcuna ragione nè alcuna possibilità di attribuire alla norma stessa un'interpretazione tale da consentire la pattuizione di contratti di lavoro a tempo parziale nei quali la collocazione temporale della prestazione lavorativa nell'ambito della giornata, della settimana, del mese e dell'anno non sia determinata - o non sia resa determinabile in base a criteri oggettivi - ma sia invece rimessa allo jus variandi del datore di lavoro. La questione di costituzionalità in esame - fondata su un'opposta interpretazione della norma - deve quindi essere dichiarata non fondata.

4.- La seconda questione di costituzionalità investe, come già si è rilevato, la disciplina applicabile - secondo la giurisprudenza della Cassazione - al contratto di lavoro a tempo parziale privo della forma scritta richiesta dal comma secondo del citato art. 5, ipotesi alla quale il giudice a quo ritiene assimilabile quella della clausola di distribuzione dell'orario priva della necessaria determinatezza.

Per il profilo che ha riguardo al difetto di forma scritta del contratto di lavoro a tempo parziale o della clausola di riduzione e di distribuzione dell'orario, la questione non può essere esaminata perchè priva di rilevanza nel giudizio a quo.

Nel caso che il Pretore di Firenze deve decidere, infatti, il contratto era stato stipulato per iscritto e scritta era altresì la clausola che regolava la distribuzione dell'orario rimettendola alla determinazione unilaterale del datore di lavoro. La contrarietà alla legge della clausola pattuita attiene al contenuto e non alla forma di essa ed un'eventuale identità o connessione di profili logici e giuridici non toglie che la questione relativa agli effetti del vizio di forma è diversa dalla questione relativa agli effetti della contrarietà a norme imperative del contenuto sostanziale della clausola di distribuzione dell'orario.

5.- Per gli stessi motivi deve escludersi che - con riferimento alla disciplina degli effetti di una clausola di distribuzione dell'orario priva della necessaria determinatezza e che lasci al datore di lavoro il potere di decidere unilateralmente, nel corso del rapporto, la collocazione temporale della prestazione lavorativa - vi sia un'interpretazione giurisprudenziale consolidata - conforme a quella che il giudice a quo ha posto a base della questione - secondo cui dalla nullità di una simile clausola deriverebbe, o potrebbe derivare, la nullità dell'intero contratto, con conseguente applicazione dell'art. 2126 cod. civ..

L'indirizzo della Cassazione richiamato nell'ordinanza di rimessione ha infatti riguardo ad ipotesi di contratti di lavoro a tempo parziale ritenuti nulli per difetto di forma scritta, sicchè la ratio decidendi di tali sentenze non coinvolge direttamente la soluzione interpretativa presupposta dalla questione di costituzionalità che il Pretore di Firenze sottopone all'esame di questa Corte.

Di tale soluzione interpretativa deve quindi essere esaminata la validità, prima di poter basare su di essa una censura di incostituzionalità della norma legislativa. Ed anche in questo caso viene in rilievo il fondamentale principio ermeneutico, secondo cui l'interprete deve comunque escludere, tra più significati possibili di una disposizione, quello che non sia coerente con il dettato costituzionale, cosicchè una legge non può essere ritenuta invalida, perchè incostituzionale, fino a quando ne sia possibile un'interpretazione costituzionalmente conforme.

6.- Nel caso di nullità della clausola di riduzione e distribuzione dell'orario, la nullità dell'intero contratto di lavoro (e la conseguente applicabilità della sola salvaguardia prevista dall'art. 2126 cod. civ.) è stata sostenuta principalmente sulla base dell'art. 1419, primo comma, cod. civ., secondo cui la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità.

É da condividere l'opinione del Pretore di Firenze, secondo cui sarebbe palesemente irrazionale che dalla violazione di una norma imperativa regolante il contenuto del contratto di lavoro a tempo parziale e posta proprio al fine di tutelare il lavoratore contro la pattuizione di clausole vessatorie, potesse derivare la liberazione del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale. Se questi fossero gli effetti della normativa in esame, essa di certo non sarebbe in sintonia con la Costituzione.

Ma la suddetta paradossale conclusione non è certamente imposta dall'ordinamento legislativo.

L'art. 1419, primo comma, infatti, non è applicabile rispetto al contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare la conseguenza della nullità del contratto. Ciò, in ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anzichè giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere. Così non si dubita che non si estende all'intero contratto la nullità, per motivi di forma o di contenuto, del patto di prova (art. 2096 cod. civ.) o del patto di non concorrenza (art.2125), oppure del patto con cui venga attribuito al datore di lavoro un potere illimitato e incondizionato di variare unilateralmente le mansioni o il luogo di lavoro (art. 2103, secondo comma) ovvero della clausola appositiva di un termine alla durata del contratto di lavoro (legge 18 aprile 1962, n. 230), ovvero della clausola che preveda la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di matrimonio (art. 1 legge 9 gennaio 1963, n.7), e così via. Ed il medesimo assetto si registra anche rispetto a pattuizioni che incidono sullo stesso schema causale del contratto: così è per l'apprendistato (legge 19 gennaio 1955, n. 25 e successive modificazioni) e per il contratto di formazione lavoro (art. 3 decreto- legge 30 ottobre 1984, n. 726 e art. 8 legge 29 dicembre 1990, n.407), posto che la nullità delle relative pattuizioni - per motivi di forma o procedimentali ovvero per difetto delle condizioni sostanziali di ammissibilità di tali figure contrattuali - non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la c.d. conversione in un "normale" contratto di lavoro (o meglio, la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione della inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale) senza che vi si spazio per l'indagine - oggettiva o soggettiva - circa la comune volontà dei contraenti in ordine a tale esito.

Tutto ciò, del resto, rappresenta una naturale e generale conseguenza del fatto che, nel campo del diritto del lavoro - in ragione della diseguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell'immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto e, infine, dell'incidenza che la disciplina di quest'ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi - le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all'autonomia individuale, cosicchè il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. Non hanno quindi modo di trovare applicazione, in questo campo, quei limiti alla operatività del principio di conservazione del rapporto che sono strettamente collegati all'identificazione nel contratto della fonte primaria del regolamento negoziale, come si verifica nell'ambito della disciplina comune dei contratti. E la violazione del modello di contratto e di rapporto imposto all'autonomia individuale dà luogo, di regola, alla conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto - per via di sostituzione o integrazione della disciplina pattuita con quella legale ovvero per via del disconoscimento di effetti alla sola disposizione contrattuale illegittima - e non già alla riduzione del rapporto reale ad una condizione di totale o parziale irrilevanza giuridica.

L'art. 2126 cod. civ., del resto - come risulta dall'esame della giurisprudenza - ha sempre trovato applicazione rispetto ad ipotesi in cui la nullità del contratto derivava dalla contrarietà a norme imperative riguardanti il fatto stesso della costituzione e dell'esistenza del rapporto (ad esempio, ipotesi in cui l'esercizio di una determinata attività lavorativa era condizionata all'iscrizione in un albo o elenco o al possesso di una determinata autorizzazione; ipotesi in cui l'instaurazione del rapporto era vietata da una norma di legge, come si verifica per le assunzioni senza concorso ove tale procedimento sia prescritto dalla legge a pena di nullità; ipotesi di lavoro prestato da minori di età inferiore a 14 anni; e così via) e non anche ad ipotesi di difformità tra la disciplina del rapporto pattuita dalle parti rispetto a quella dettata dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

Deve quindi escludersi che, nell'ipotesi di nullità della clausola di riduzione e distribuzione dell'orario di lavoro che dia al datore di lavoro il potere di variare liberamente e unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, si possa verificare l'estensione della nullità all'intero contratto.

7.- La configurazione da dare alla fattispecie che risulta da tale evenienza costituisce un problema suscettibile di una pluralità di soluzioni, la scelta tra le quali dipende dalle caratteristiche del caso concreto ed anche da opzioni interpretative che spettano ai giudici ordinari e non alla Corte.

Non può quindi trovare avallo, in questa sede, l'implicazione che il giudice a quo ha chiesto invece alla Corte di dichiarare, e cioé che in caso di nullità della clausola di distribuzione dell'orario il rapporto si deve intendere a tempo pieno, con conseguente diritto alla retribuzione integrale per il periodo pregresso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 (Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali), convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 1984, n. 863.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/05/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 15/05/92.