Sentenza n. 192 del 1992

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SENTENZA N. 199

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-      Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-      Prof. Giuseppe BORZELLINO

-      Dott. Francesco GRECO

-      Prof. Gabriele PESCATORE

-      Avv. Ugo SPAGNOLI

-      Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-      Prof. Antonio BALDASSARRE

-      Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-      Avv. Mauro FERRI

-      Prof. Luigi MENGONI

-      Prof. Enzo CHELI

-      Dott. Renato GRANATA

-      Prof. Giuliano VASSALLI

-      Prof. Francesco GUIZZI

-      Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 66, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza emessa il 26 settembre 1991 dal Tribunale di Sorveglianza di Ancona nel procedimento di sorveglianza relativo a Gentili Pietro, iscritta al n. 693 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 marzo 1992 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 26 settembre 1991, il Tribunale di sorveglianza di Ancona, chiamato a deliberare in merito alla conversione per violazione delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione a suo tempo applicata nei confronti di Gentili Pietro - nel frattempo liberato per intervenuta espiazione della sanzione sostitutiva - dal Pretore di San Benedetto del Tronto con sentenza emessa a norma degli artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, due questioni di legittimità dell'art.66, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

La prima questione si fonda sull'assunto interpretativo che la norma impugnata non consente al tribunale di sorveglianza di valutare, ai fini della conversione, se la violazione delle prescrizioni sia o meno compatibile con l'ulteriore prosecuzione della sanzione sostitutiva da convertire, dovendosi invece ritenere che il controllo del giudice si limiti ad accertare la commissione di una trasgressione e la riferibilità della stessa alla colpevole volontà del condannato. Tale essendo l'interpretazione prescelta, rileva il giudice a quo come la rigidità che connota la disciplina della conversione, fondata su "parametri di automaticità", finisca per determinare un sostanziale svilimento della funzione rieducativa della pena, pur presente nel tessuto delle sanzioni sostitutive (art. 58, primo comma, della legge n. 689 del 1981), quando invece ben più ampio è il potere di valutazione affidato al giudice di sorveglianza in sede di revoca delle misure alternative alla detenzione, ove è stata espressamente prevista "un'opera di vaglio intesa a scandagliare l'atteggiarsi comportamentale del condannato nel suo complesso, onde stabilirne la compatibilità e la rispondenza agli intenti di risocializzazione".

2. La seconda questione ruota, invece, attorno al significato da annettersi alla espressione <<la restante parte della pena>>, che compare nel testo della norma impugnata, con riferimento alla "individuazione del dies a quo dal quale far decorrere l'efficacia della conversione".

Poichè secondo una pronuncia della Corte di cassazione (Sez. VI, 16 ottobre 1985, n. 1010), alla quale, afferma il remittente, avrebbe fornito "autorevolissimo avallo" l'ordinanza di questa Corte n. 418 del 1990, gli effetti della conversione devono farsi decorrere dal giorno in cui è stata commessa la trasgressione, ne deriva che, ove l'esecuzione della sanzione sostitutiva abbia già avuto termine nel momento in cui interviene il provvedimento di conversione, la conversione stessa "esplicherà efficacia retroattiva".

Non essendo dunque considerata l'ipotesi in cui il condannato abbia continuato a rispettare, dopo la violazione, le prescrizioni inerenti alla semidetenzione o alla libertà controllata, si ripropone, ad avviso del giudice a quo, la medesima situazione che indusse questa Corte a stabilire la "scomputabilità dalla pena detentiva residua del periodo di utile assoggettamento al regime lato sensu <<alternativo>>" in tema di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale e della liberazione condizionale (sentenze n. 343 del 1987 e n. 282 del 1989). Posto, quindi, che la semidetenzione e la libertà controllata costituiscono limitazioni della libertà personale, il non tener conto, in sede di conversione, della osservanza prestata dal condannato nel periodo compreso tra la violazione delle prescrizioni e il momento in cui interviene la pronuncia di conversione, integra secondo il remittente violazione "del principio di proporzionalità e di adeguatezza delle pene di cui all'art. 13 Cost.", generandosi una "duplicazione afflittiva" che contrasta con le garanzie costituzionali a tutela della libertà personale.

3. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che entrambe le questioni siano dichiarate non fondate.

Delineate le posizioni della dottrina e della giurisprudenza su entrambi i temi proposti, l'Avvocatura, pur riconoscendo "che la normativa in questione non sia in realtà univoca", tanto da aver indotto il Governo a presentare un disegno di legge modificativo della disciplina impugnata, esclude che sia ravvisabile la lesione dei parametri invocati dal giudice a quo. In ordine alla prima questione, la difesa dello Stato osserva che il remittente ha omesso di precisare "quale parte" dell'art. 13 della Costituzione venga preso in considerazione, rilevando, quanto al preteso contrasto con l'art.27, terzo comma, della stessa Carta, che il rispetto del fine rieducativo "è determinato dal trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena e non tanto dal tipo di pena previsto, la cui efficacia rieducativa sfugge al sindacato di legittimità della Corte".

Con riferimento alla seconda questione, l'Avvocatura si riporta alla tesi formulata in dottrina secondo la quale, facendosi leva sul combinato disposto degli artt. 57, primo comma, della legge n. 689 del 1981, 137 del codice penale e 271 del codice di procedura penale abrogato, può ritenersi detraibile dal residuo la pena eventualmente espiata dopo il verificarsi della causa di revoca, osservando come una simile interpretazione escluda ogni contrasto della norma denunciata con l'art.27 della Costituzione.

Considerato in diritto

1. Anche se riferite alla medesima disposizione oggetto di impugnativa, le questioni che il remittente sottopone all'esame di questa Corte sono di un duplice ordine, prendendo le stesse a riferimento aspetti diversi che scaturiscono dalla disciplina dettata dall'art. 66, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e deducendosi la violazione di distinti parametri di costituzionalità.

Ciascuna delle questioni, dunque, dovrà essere partitamente esaminata, per verificare se e in quale misura la ricostruzione del sistema offerta dal giudice a quo possa ritenersi corretta.

2. Il giudice remittente ritiene, anzitutto, di aderire all'opinione secondo la quale la più ampia ed elastica formulazione del terzo comma dell'art. 66 della legge n. 689 del 1981 ("...qualora ritenga doversi procedere alla conversione..."), rispetto alla rigorosa previsione enunciata nel primo comma dello stesso articolo ("Quando è violata anche solo una delle prescrizioni... la restante parte di pena si converte..."), non vale a conferire al tribunale di sorveglianza il potere di valutare se la condotta del condannato, pur in presenza di una trasgressione al "prescrizionale di comportamento", possa ritenersi compatibile con l'ulteriore esecuzione della sanzione sostitutiva e, conseguentemente, di omettere di convertire la parte residua della sanzione medesima nella pena detentiva sostituita. La cognizione del tribunale di sorveglianza sarebbe quindi limitata, secondo la tesi fatta propria dal giudice a quo, "all'accertamento dell'elemento materiale, di quello psicologico della trasgressione contestata, nonchè della sussistenza di eventuali circostanze scriminanti del comportamento", sicchè, ove risulti accertata la commissione di una violazione e questa sia riferibile alla volontà colpevole del condannato, "la conversione dovrebbe conseguire automaticamente al vaglio giudiziale". Tale automatismo, osserva il remittente, pare dunque correlarsi ad un principio di mera retribuzione che finisce per obliterare del tutto il fine del reinserimento sociale del reo, ponendosi in tal modo in contrasto con il precetto sancito dall'art.27, terzo comma, della Costituzione, che invece postulerebbe la devoluzione al tribunale di sorveglianza del potere di valutare la rilevanza della trasgressione in rapporto "al concreto carico afflittivo della sanzione irrogata ed alla complessiva condotta del condannato".

3. Giova preliminarmente rilevare come il preteso automatismo che caratterizzerebbe l'istituto della conversione disciplinato dalla norma oggetto di impugnativa, è già in sè fortemente temperato dall'ampio potere delibativo che il tribunale di sorveglianza è chiamato a esercitare in ordine all'apprezzamento della condotta in concreto tenuta dal condannato, posto che, come mostra di ritenere lo stesso giudice a quo e come è stato recentemente puntualizzato dalla Corte di cassazione (Sez. I, 14 gennaio 1992, n. 92), la violazione anche di una sola delle prescrizioni inerenti alla sanzione sostitutiva deve essere necessariamente valutata in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi, giacchè la sua rilevanza può essere attenuata o addirittura esclusa dall'esame e dalla verifica delle giustificazioni eventualmente addotte dal soggetto ammesso alla sanzione sostitutiva. D'altra parte, che la volontà del legislatore fosse quella di affidare al giudice una non trascurabile sfera di apprezzamento, quale testualmente desumibile dall'ampio enunciato che compare nel terzo comma della norma impugnata, traspare anche da taluni spunti offerti dai lavori preparatori della norma stessa, sia perchè la scelta del legislatore intese contemperare la duplice esigenza, da una parte, di "non inasprire troppo certe sanzioni nei confronti di colui che non adempiva determinati obblighi e dall'altra tenere conto della necessità di far adempiere a tali obblighi" (Relazione alla IV Commissione della Camera dei deputati, seduta del 24 settembre 1980, VIII legislatura), sia perchè il tendenziale superamento di un rigoroso automatismo è ben testimoniato dalle modificazioni subite dalla norma rispetto all'originario testo della proposta di legge, ove era prevista la conversione obbligatoria da parte del pretore nonchè l'arresto del condannato colto in flagrante violazione delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione e alla libertà controllata (art.42 della proposta di legge n. 363 presentata alla Camera dei Deputati il 17 luglio 1979).

In un contesto siffatto, peraltro, il peculiare atteggiarsi della fattispecie che viene qui in discorso, non consente di configurare la conversione delle sanzioni sostitutive alla stregua di istituto necessariamente sovrapponibile rispetto alla revoca delle misure alternative alla detenzione: raffronto, questo, che il remittente invece opera, per desumere proprio dalla diversa disciplina che regola la revoca di tali misure, un utile termine di comparazione per dedurre il contrasto della norma impugnata con l'invocato parametro di costituzionalità. Il fenomeno della conversione, infatti, è concettualmente diverso da quello della revoca di benefici, giacchè quest'ultimo istituto si fonda su di un contrarius actus speculare a quello che ha concesso il beneficio cui la revoca stessa si riferisce: sicchè, se il primo provvedimento ammette una sfera di discrezionalità del giudice fondata su determinati parametri, è del tutto logico che il provvedimento di revoca possa comportare un apprezzamento uguale e contrario che giustifichi gli effetti risolutivi del beneficio ed il ripristino dello status quo ante. La conversione, invece, evoca un meccanismo di trasformazione, radicato sul "fatto sopravvenuto" tipizzato dall'ordinamento, che genera effetti novativi tali da incidere, non sulle modalità esecutive, ma sullo stesso "tipo" di pena da applicare, con conseguente mutamento sostanziale del rapporto esecutivo: una novazione, dunque, che esclude quella naturale simmetria che è dato cogliere tra il provvedimento di concessione del beneficio e quello che lo revoca, ove il secondo atto che caduca il primo determina il riprodursi della situazione anteatta.

Ciò non esclude, tuttavia, che il fatto causativo della conversione, ancorchè tipizzato dal legislatore, debba essere riguardato in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta trasgressiva presenti o meno quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la "violazione" che la norma impugnata assume a presupposto della conversione. In altri termini, se l'art. 66, primo comma, della legge n. 689 del 1981, non richiede la violazione cumulativa delle prescrizioni, essendo sufficiente che risulti violata "anche solo una delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione o alla libertà controllata", deve al tempo stesso riconoscersi che non ogni singola infrazione del "prescrizionale di comportamento" sia, in sè e per sè, elemento necessario e sufficiente a far sì che il giudice debba apprezzare la condotta del condannato come automaticamente trasgressiva degli specifici obblighi che quelle prescrizioni impongono.

Tra la condotta che si discosta dal prescrizionale e l'accertamento della violazione che la norma postula, intercorre, dunque, il necessario potere delibativo che il giudice è chiamato a esercitare, in funzione, anche e soprattutto, del principio enunciato dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. In tale prospettiva, allora, ci si avvede agevolmente che, essendo la conversione delle sanzioni sostitutive normativamente riguardata come il riconoscimento della inadeguatezza delle sanzioni medesime a perseguire la funzione rieducativa che è loro propria, il comportamento del condannato che abbia trasgredito "anche solo una delle prescrizioni" deve presentare connotazioni tali da costituire elemento sintomatico di quella inadeguatezza, così da assegnare al sistema la necessaria flessibilità e coerenza che, sola, può dirsi rispondente alle reali finalità dell'istituto ed all'invocato precetto costituzionale.

Perchè la trasgressione delle prescrizioni integri la violazione evocata dalla norma, e perchè da ciò consegua la conversione delle sanzioni nella corrispondente pena sostituita, è dunque necessario che alla "prognosi" circa l'osservanza delle prescrizioni che il giudice compie nell'applicare le sanzioni sostitutive (art. 58, secondo comma), corrisponda una "diagnosi" contraria in sede di conversione, a testimonianza della inidoneità di quella tipologia di pena ad assecondare un efficace reinserimento sociale del condannato.

4. La seconda questione che viene sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Ancona concerne i criteri da applicare per la individuazione della "restante parte della pena" che deve essere convertita a seguito della accertata violazione delle prescrizioni. Osserva in proposito il giudice a quo che, essendo emersi due orientamenti interpretativi contrastanti da parte della Corte di cassazione, l'uno volto ad affermare che gli effetti della conversione devono ritenersi operanti dal giorno in cui è stata commessa la violazione (Cass., n. 1010 del 16 ottobre 1985), l'altro dal momento in cui interviene la pronuncia giurisdizionale (Cass., n. 473 del 19 febbraio 1987), questa Corte, chiamata a pronunciarsi su questione analoga relativa all'art. 108 della legge n. 689 del 1981, ebbe a rilevare (ordinanza n. 418 del 1990) l'insussistenza del preteso contrasto interpretativo osservando come il primo dei ricordati orientamenti non si riferisse alla norma allora impugnata, ma proprio all'art. 66, primo comma, della legge n. 689 del 1981, oggetto del presente giudizio. Da ciò il remittente desume un "autorevolissimo avallo alla tesi secondo cui, nella fattispecie di conversione, conseguente a violazione delle prescrizioni comportamentali, delle sanzioni sostitutive irrogate direttamente dal giudice della cognizione", gli effetti della conversione devono farsi decorrere dal giorno in cui è stata commessa la violazione, con la conseguenza che, ove la conversione intervenga in un momento in cui l'esecuzione della sanzione ha già avuto termine, la conversione stessa finirà per esplicare efficacia retroattiva.

Tale essendo, dunque, l'interpretazione alla quale il giudice a quo ritiene di dover aderire, ne scaturisce che, costituendo la semidetenzione e la libertà controllata una indubbia limitazione della libertà personale, l'impossibilità di valutare in sede di conversione l'osservanza prestata dal condannato alle prescrizioni inerenti la sanzione da convertire, per il periodo che va dalla data della violazione a quella in cui interviene il provvedimento di conversione, determina ad avviso del remittente, una "duplicazione afflittiva" che si pone in contrasto con le garanzie costituzionali a tutela della libertà personale, integrando una "violazione del principio di proporzionalità e di adeguatezza delle pene" desumibile ad avviso del remittente dall'art. 13 della Costituzione.

5. Ove l'unica interpretazione possibile fosse quella puntualmente dedotta dal giudice a quo, non v'è dubbio che diverrebbe allora pertinente il richiamo, anch'esso svolto nell'ordinanza di rimessione, ai principi affermati da questa Corte in tema di "scomputabilità dalla pena detentiva residua del periodo di utile assoggettamento al regime lato sensu <<alternativo>>", allorchè vennero presi in considerazione gli istituti della revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale e della liberazione condizionale (v. sentenze n. 343 del 1987 e n. 282 del 1989).

Una diversa ricostruzione ermeneutica del sistema, peraltro, è, non solo possibile, ma addirittura imposta, essendo l'unica idonea a rispettare quei valori costituzionali che le richiamate sentenze di questa Corte hanno inteso salvaguardare: e il fulcro di tale ricostruzione va rinvenuto nella disciplina dettata dall'art. 57, primo comma, della legge n. 689 del 1981, a norma del quale "per ogni effetto giuridico la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita". Alla stregua di tale enunciato, infatti, può agevolmente desumersi che l'espiazione delle sanzioni sostitutive produce effetti del tutto equivalenti a quelli che scaturiscono dalla espiazione della corrispondente pena sostituita, con l'ovvio epilogo che l'espiazione delle prime determina l'esaurimento dello stesso rapporto esecutivo, proprio perchè è la pena, sostitutiva o sostituita che sia, ad essersi, per così dire, "esaurita". Se, dunque, l'intervenuta espiazione della semidetenzione o della libertà controllata estingue la pena, ci si avvede, allora, che la conversione potrà operare nei limiti in cui il rapporto esecutivo sia ancora in essere, nel senso che residui una parte di pena da espiare e, quindi, da convertire. In tale quadro di riferimento cessa così di assumere connotazioni sfumate l'individuazione della "restante parte della pena" che il tribunale di sorveglianza è chiamato a convertire, giacchè tale deve intendersi la pena che residua in quanto non estinta per non essere stata la corrispondente sanzione sostitutiva già espiata. Sicchè, tanto nell'ipotesi in cui il provvedimento di conversione intervenga durante l'esecuzione della sanzione sostitutiva, quanto nel caso in cui la conversione sia disposta in un momento successivo, il tribunale di sorveglianza sarà previamente tenuto a esaminare la condotta serbata dal condannato dal momento in cui è intervenuta la violazione delle prescrizioni a quello in cui viene disposta la conversione, per accertare se e in che misura quella condotta abbia prodotto l'effetto estintivo di cui si è detto ed eventualmente determinare la parte della pena non espiata che deve essere convertita. Agevole diviene, a questo punto, l'individuazione dei criteri alla cui stregua il tribunale di sorveglianza è chiamato ad apprezzare la condotta tenuta dal soggetto sottoposto alle sanzioni sostitutive, ai fini della determinazione della pena da convertire. Posto, infatti, che la violazione delle prescrizioni impedisce di ritenere espiata la sanzione e, con essa, la pena sostituita, la conversione opererà per la parte di pena non eseguita, intendendosi per tale quella che si riferisce alla frazione temporale in cui il condannato, realizzando la condotta trasgressiva, si è sottratto alla esecuzione degli obblighi inerenti alla semidetenzione o alla libertà controllata.

Dovendosi poi ritenere che la condotta trasgressiva rilevante agli effetti che qui interessano, sia solo quella che integra il concetto di "violazione" che si è già delineato con riferimento alla prima delle questioni oggetto del presente giudizio, si sopiscono le preoccupazioni del giudice a quo circa il fatto che l'interpretazione offerta sarebbe ostacolata dal "rigido schematismo" che caratterizzerebbe l'intervento del tribunale di sorveglianza, risultando al tempo stesso inidonea a risolvere "quei casi limite, in cui, ad una aperta violazione delle prescrizioni di semidetenzione ovvero di libertà controllata, segue un comportamento del condannato non propriamente inosservante bensì semplicemente intempestivo".

Una volta affermato, infatti, che la trasgressione del "prescrizionale di comportamento" deve essere apprezzata dal giudice per verificare se la stessa integri, nel senso che si è già chiarito, la "violazione" che la norma postula a fondamento della conversione, ne consegue, da un lato, che un simile apprezzamento non può certo svolgersi su di un piano di rigoroso automatismo, mentre, sotto altro profilo, è proprio l'elasticità dei parametri a consentire di portare ad adeguata soluzione quei "casi limite" ai quali ha fatto riferimento il giudice a quo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 66, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) sollevate, in riferimento agli artt. 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Ancona con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/04/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 28/04/92.