Sentenza n. 109 del 1992

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 109

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 197 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1991 dal Pretore di Lanciano - sezione distaccata di Atessa - nel procedimento penale a carico di Porreca Nicola ed altri, iscritta al n. 581 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.38, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 19 febbraio 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. Il Pretore di Lanciano (sezione distaccata di Atessa) solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 197 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a testimoniare dell'imputato nel processo riunito a norma dell'art. 17, lett. c), ("nei casi di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre").

Ritiene il giudice a quo di non comprendere quale differenza vi sia tra l'imputato nel processo riunito a norma dell'art. 17, lett. c), e l'imputato nel processo connesso a norma dell'art. 12, lett. a), ult. parte, (ipotesi di più persone che con condotte indipendenti hanno determinato l'evento), ovvero l'imputato nel processo collegato a fini probatori. A suo avviso la posizione processuale di tutti questi soggetti appare sostanzialmente assimilabile, sicchè un trattamento differenziato sotto il profilo della incompatibilità con l'ufficio di testimone risulterebbe irrazionale e costituirebbe violazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

2. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato che ha concluso per l'infondatezza della sollevata questione.

Rileva l'Avvocatura che la ratio del divieto di testimoniare previsto per i soggetti indicati nelle lettere a) e b) dell'art. 197 va individuata nella incompatibilità tra l'ufficio di testimone, che assoggetta al dovere di collaborazione secondo verità, e la situazione di quei soggetti che, per l'esistenza di una interdipendenza tra la posizione processuale dell'imputato e la propria, nello stesso o in altro procedimento collegato, sono portatori di un interesse che può contrastare con il dovere suddetto.

Tuttavia, prosegue l'Avvocatura, il criterio prescelto dal legislatore al fine di individuare le situazioni in cui tale contrasto di interessi può limitare la capacità a testimoniare è quello dell'esistenza tra i procedimenti - nei quali il medesimo soggetto assume, rispettivamente, la veste di imputato e di testimone - di un vincolo probatorio in mancanza del quale tale limitazione non si ritiene giustificata, pur in presenza di interessi che possono contrastare l'accertamento della verità, i quali devono in ogni caso essere tenuti in considerazione dal giudice al fine di valutare la credibilità del teste.

In conseguenza, la difesa del governo ritiene che non possa ravvisarsi alcuna discriminazione nella disciplina denunciata, posto che la posizione delle persone imputate di reati commessi in danno reciproco le une dalle altre, le quali nei procedimenti riuniti a norma dell'art. 17, lett. c) assumono rispettivamente la veste di imputato e di persona offesa dal reato, non è assimilabile, sul piano del vincolo probatorio, a quella dei soggetti annoverati nell'art. 197 lett. a), i quali hanno un interesse a che l'accusa nei confronti dell'imputato sia smentita o minimizzata, per gli inevitabili riflessi sulla propria posizione processuale.

Peraltro, conclude l'Avvocatura, la circostanza che la persona chiamata a rendere testimonianza si trovi nella particolare situazione indicata dall'art. 17, lett. c), come portatrice di interessi che possono contrastare con il dovere di collaborare all'accertamento della verità, non sarebbe priva di rilevanza, dovendo essere considerata dal giudice nella valutazione della credibilità delle dichiarazioni rese in qualità di testimone.

Considerato in diritto

1. Il Pretore di Lanciano, sezione distaccata di Atessa, solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 197 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a testimoniare dell'imputato nel processo riunito a norma dell'art. 17, lett. c) dello stesso codice: nei casi, cioé, di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre.

In particolare il remittente - premesso che la norma impugnata pone il divieto di essere assunti come testimoni, tra gli altri, per gli imputati nel processo connesso ai sensi dell'art. 12, lett. a), ultima parte (ipotesi di più persone che con condotte indipendenti hanno determinato l'evento), e per gli imputati in un processo collegato per la prova ai sensi dell'art.371, secondo comma, lett. b), ("quando la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza") - ritiene che, nel caso sottoposto al suo esame, non siano ravvisabili ragionevoli differenze fra i soggetti prima indicati e gli imputati nel processo riunito a norma dell'art. 17, lett. c).

Dalla sostanziale eguaglianza della posizione processuale di tutti questi soggetti discenderebbe l'illegittimità, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, del trattamento differenziato posto dall'art.197 in ordine al divieto di essere assunti come testimoni.

2. La questione non è fondata.

Occorre precisare che la ratio del divieto di testimoniare previsto per i soggetti indicati nelle lett. a) e b) dell'art. 197 va individuata nella incompatibilità tra l'ufficio di testimone e la situazione di colui che, per l'esistenza di una interdipendenza tra la posizione dell'imputato e la propria, nello stesso o in altro procedimento collegato, è portatore di un interesse che può contrastare il dovere di rispondere secondo verità; interesse riconosciuto e garantito dall'ordinamento sulla base del principio "nemo tenetur se detegere".

D'altra parte, come afferma la relazione al progetto preliminare del nuovo codice, il legislatore ha anche considerato che "l'interesse di un soggetto in ordine all'oggetto del processo non deve essere di per sè motivo di esclusione della sua testimonianza, ma può solo costituire uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice si deve avvalere nell'apprezzare l'attendibilità della prova".

Ferme restando quindi le ragioni di tutela contro la possibilità di autoincriminazioni (apprestata in via generale dall'art. 198, secondo comma), il criterio posto a base della norma impugnata in ordine al divieto di essere assunto come testimone è quello dell'esistenza di un vincolo probatorio tra i procedimenti nei quali il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere rispettivamente la veste di imputato e di testimone: vincolo che sussiste sempre - è evidente - nei casi indicati dall'art.197, lett.a) (coimputati dello stesso reato o imputati di reati connessi a norma dell'art. 12) e che, in ogni altro caso in cui si verifichi, sarà rilevato dal giudice a norma dell'art. 197, lett. b).

La disciplina denunciata, quindi, non può essere ritenuta discriminatoria nei confronti delle persone imputate di reati commessi in danno reciproco le une delle altre, le quali nei procedimenti riuniti a norma dell'art. 17, lett. c) assumono rispettivamente la veste di imputato e di persona offesa dal reato: sul piano del vincolo probatorio tale posizione non è certamente assimilabile a quella dei soggetti annoverati nell'art. 197, lett. a), per i quali tale vincolo è in re ipsa, mentre nell'ipotesi in esame tale situazione può verificarsi o meno.

Conseguentemente, ove in concreto il giudice rilevi l'esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti, anche per coloro che siano imputati di un reato collegato opererà il divieto di essere assunti come testimoni ai sensi dell'art. 197, lett. b).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.197 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Lanciano - sezione distaccata di Atessa - con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/03/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 18 marzo del 1992.