Sentenza n. 91 del 1992

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SENTENZA N. 91

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BORZELLINO, Presidente

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 469 del codice di procedura penale promossi con n. 3 ordinanze emesse il 16 maggio 1991 dal Pretore di Ravenna - Sezione distaccata di Lugo, iscritte ai nn.520, 521 e 522 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 dicembre 1991 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Con tre ordinanze di identico contenuto pronunciate il 16 maggio 1991, il Pretore di Ravenna, Sezione distaccata di Lugo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 101 e 112 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 469 del codice di procedura penale "nella parte in cui non prevede che il giudice conosca ed utilizzi tutti gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento (rectius: del pubblico ministero e del dibattimento) al fine di dichiarare l'estinzione del reato ovvero per negare effetto ad una causa di estinzione e disporre che si proceda al dibattimento".

Dopo aver premesso, in fatto, che nei procedimenti a quibus è intervenuta remissione di querela e che le parti, sentite in camera di consiglio a norma dell'art. 469 del codice di procedura penale, non si sono opposte alla immediata declaratoria di estinzione del reato, il rimettente osserva che la norma denunciata non consente al giudice, nell'esercizio dei suoi poteri decisori, di conoscere e utilizzare gli atti acquisiti al fascicolo del pubblico ministero o utilizzare tutti gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento (fra i quali, in particolare, la querela che, a norma dell'art.511 del codice di rito, può essere utilizzata solo per accertare la sussistenza della condizione di procedibilità).

La norma, dunque, nell'impedire qualsiasi accertamento sul reato contestato dal pubblico ministero, violerebbe, secondo il rimettente, l'art. 101 della Costituzione, in quanto viene "intaccata l'essenza stessa della funzione giurisdizionale che per principio costituzionale è soggetta soltanto alla legge" e contrasterebbe con l'art. 112 della stessa Carta, in quanto si "sottrae al giudice il giudizio sull'esercizio dell'azione penale" e si "attribuisce al P.M. la facoltà di disporre in modo insindacabile l'oggetto della decisione". Osserva il giudice a quo che "non si può escludere (come nel caso di specie) che il reato contestato dal P.M. e per il quale occorre applicare una causa di estinzione sia in realtà diverso da quello commesso dall'imputato; ed è pure possibile che tale difformità si possa evincere già dagli atti acquisiti nel fascicolo del P.M. o del dibattimento": ma al giudice è inibito pronunciare la relativa declaratoria proprio perchè non gli è consentito di conoscere e utilizzare quegli atti. La norma denunciata, poi, viola, secondo il rimettente, anche il principio di ragionevolezza: infatti, rilevano le ordinanze, se la stessa causa di estinzione del reato fosse intervenuta prima della emissione del decreto di citazione, il pubblico ministero avrebbe dovuto richiedere al giudice per le indagini preliminari di pronunciare decreto di archiviazione, ed il giudice avrebbe potuto utilizzare tutti gli atti trasmessi per verificare la legittimità della richiesta "e quindi anche per dichiarare che la causa di estinzione non è operativa perchè il fatto è diverso da come ipotizzato nella richiesta o è diversa la sua qualificazione giuridica". Neppure è possibile sostenere, osserva il giudice a quo, che già l'attuale disciplina consente al giudice del predibattimento di "dissentire dai termini storici e giuridici in cui è formulata l'accusa e di procedere al dibattimento", giacchè una simile verifica è in concreto ostacolata proprio dal fatto che il giudice non conosce il materiale raccolto dal pubblico ministero e non può utilizzare nemmeno tutti gli atti (come la querela) già inseriti nel fascicolo del dibattimento.

2. - Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata irrilevante e comunque non fondata. La questione, secondo l'Avvocatura, sarebbe irrilevante in quanto il giudice a quo non ha fornito alcuna motivazione in ordine alla presunta sussistenza di un reato diverso da quello contestato. Nel merito, la difesa dello Stato contesta che la norma impugnata violi l'art. 101 della Costituzione, in quanto è pur sempre la legge che determina i poteri giurisdizionali, mentre non vi è alcun arbitrio del pubblico ministero in quanto l'eventuale esistenza di un reato diverso da quello dichiarato estinto impone l'esercizio della azione penale. Neppure violato sarebbe l'art. 112 della Costituzione, giacchè la norma impugnata non affida al pubblico ministero la disponibilità dell'oggetto della decisione, ma si limita a prevedere l'emanazione di una sentenza allo stato degli atti. Non sussisterebbe, infine, la lamentata irragionevolezza perchè la diversità delle situazioni si spiega in considerazione della progressione per fasi del procedimento.

Considerato in diritto

1. Le tre ordinanze di rimessione, pronunciate dallo stesso giudice, sottopongono all'esame della Corte l'identica questione fondata sui medesimi motivi: i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. Deve essere preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura Generale dello Stato per avere il giudice a quo omesso di motivare la rilevanza della questione sotto il profilo della presunta sussistenza di un reato diverso da quello contestato. Nei termini in cui risulta proposta, infatti, la questione può ritenersi, per così dire, autodimostrativa della propria rilevanza, posto che il rimettente, nel porre in risalto la circostanza che la norma impugnata non consente al giudice del predibattimento di "conoscere ed utilizzare gli atti acquisiti al fascicolo del pubblico ministero", trae da ciò argomento per dedurre che il medesimo giudice è posto, sempre e comunque, nella impossibilità di verificare "se il fatto commesso dall'imputato non sia diverso ovvero non sia da qualificare diversamente da come contestato". In una simile prospettiva, dunque, è proprio sulla impossibilità di motivare "in ordine alla presunta sussistenza di un reato diverso da quello contestato" che si radica il merito della questione, assorbendo, quindi, quel profilo di rilevanza che l'Avvocatura assume a fondamento della propria eccezione.

3. Nel merito il giudice a quo prospetta le censure invocando tre distinti parametri di costituzionalità, anche se la questione ruota essenzialmente attorno ad un unico aspetto della normativa impugnata, rappresentato dalla asserita carenza di atti sulla cui base poter operare una adeguata verifica circa la corrispondenza del fatto alla ipotesi contestata, al fine di emettere la sentenza di non doversi procedere o disporre la celebrazione del dibattimento.

Poichè, afferma il rimettente, nel particolare stadio del processo in cui si iscrive la norma impugnata non è consentito al giudice conoscere ed utilizzare gli atti raccolti nel fascicolo del pubblico ministero e neppure utilizzare tutti gli atti - come la querela - che sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento, ne deriva che il giudice è "vincolato all'ipotesi accusatoria sostenuta" dal pubblico ministero, con conseguente "restrizione dei poteri del giudice di conoscere e decidere sul fatto", tale da porre la norma in contrasto con "l'essenza stessa della funzione giurisdizionale che per principio costituzionale è soggetta soltanto alla legge (art. 101 Cost.)".

La questione attinge il nucleo essenziale che qualifica l'impianto del nuovo sistema processuale, giacchè, per certi aspetti, viene posto in discussione proprio lo iato, tipico della opzione accusatoria, che separa la fase delle indagini da quella del giudizio: uno iato che il legislatore delegante prima, e quello delegato poi, hanno inteso rimarcare al punto da distinguere lo stesso "patrimonio delle conoscenze" che caratterizza l'intervento giurisdizionale a seconda del differente stadio in cui si articola il progredire della vicenda processuale.

Afferma il giudice a quo che il principio della cosiddetta indipendenza funzionale del giudice è vulnerato dalla norma impugnata, in quanto sull'organo della giurisdizione graverebbe un "vincolo", rappresentato dalla sostanziale incontrollabilità della ipotesi accusatoria nel caso in cui, sul fatto dedotto nella imputazione, venga a proiettarsi, in limine, una causa di estinzione del reato. Vincolo che, sostiene il rimettente, deriverebbe proprio da quel difetto di "conoscenze" che scaturisce dal rigoroso meccanismo di selezione degli atti che segnala il passaggio da una fase all'altra al momento della translatio iudicii.

L'assunto, quindi, ove corretto, porterebbe alla conseguenza di ritenere come scelta costituzionalmente imposta quella di consentire al giudice, in ogni situazione in cui ciò possa apparire opportuno ai fini di una migliore comprensione dei fatti di causa, di "conoscere", e quindi utilizzare, gli atti raccolti nel corso delle indagini, con l'ovvio epilogo di un ritorno all'impianto "misto" che il legislatore ha, invece, inteso ripudiare.

Ma è proprio il paradosso delle conseguenze a svelare l'erroneità delle premesse da cui muove il giudice rimettente. Questi, infatti, mostra di ritenere insito nell'invocato parametro costituzionale, l'obbligo di assegnare al giudice il potere di utilizzare tutti gli atti comunque raccolti nel corso del procedimento, obliterando, per questa via, due aspetti essenziali ai fini di un corretto inquadramento del principio che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge. Da un lato, infatti, la tipologia degli interventi giurisdizionali viene per sua natura a modellarsi in funzione delle caratteristiche proprie di ciascuna domanda che quegli interventi mira ad evocare; dall'altro, la pronuncia deve necessariamente saldarsi con la specificità della sede processuale in cui la stessa si iscrive, così da assegnare al giudice una sfera di attribuzioni coerente rispetto al "momento" in cui il relativo munus deve essere esercitato. Ove, invece, si svilisse il principio della domanda, specie in un sistema di tipo accusatorio, o si omettesse di dare il necessario risalto alla ripartizione funzionale della giurisdizione, si finirebbe ineluttabilmente per configurare un giudice che, lungi dall'essere soggetto soltanto alla legge, sarebbe esso stesso in larga misura fonte dei propri poteri. L'esame della questione, quindi, andrà condotto alla stregua degli aspetti innanzi evidenziati, per verificare se la norma impugnata effettivamente "imponga" al giudice una determinata pronuncia su una corrispondente domanda, e se, quella pronuncia, coerentemente si inquadri nella particolare fase in cui si trova il processo.

Quanto al primo dei segnalati aspetti, è agevole rilevare come il decreto di citazione a giudizio che il pubblico ministero emette nel procedimento davanti al pretore, integri, al tempo stesso, l'atto di esercizio dell'azione penale e la "domanda" che la parte pubblica rivolge al giudice: una domanda, appunto, volta a promuovere il giudizio in ordine ad un "fatto" che trova enunciazione e qualificazione in quel decreto. Ma se il provvedimento di citazione affida al giudice il compito di soddisfare la domanda di giudizio che gli è stata rivolta, qualsiasi "verifica" del fatto e della sua qualificazione, attingendo il merito della causa, non può che profilarsi nello stadio terminativo della attività dibattimentale. In altri termini, poichè la citazione è, in sè considerata, una domanda in rito, e poichè il fatto ed il corrispondente nomen iuris trovano formulazione al precipuo scopo di promuovere il contraddittorio su di un tema predeterminato, se ne deve desumere che, nella fase degli atti introduttivi, il fatto deve essere riguardato dal giudice alla stregua di un mero enunciato dichiarativo che traccia i confini della successiva attività processuale. Ci si avvede, allora, che, ove quell'enunciato rinvenga in limine una causa estintiva che rende superflua la celebrazione del dibattimento, è la stessa domanda di giudizio a non avere più una effettiva ragion d'essere. Al giudice, quindi, ben può essere inibita la conoscenza degli elementi sulla cui base l'imputazione è stata elevata, proprio perchè è l'imputazione in quanto tale a dover essere valutata dal giudice al limitato fine di verificare se la domanda formulata dal pubblico ministero debba essere o meno ulteriormente coltivata. D'altra parte, il contraddittorio che precede la pronuncia della sentenza anticipata di proscioglimento mira proprio a dissipare qualsiasi controversia sul fatto e sulla sua qualificazione agli effetti della causa estintiva, sicchè neppure potrebbe ritenersi violato il principio sancito dall'art. 101, secondo comma, della Costituzione ove si ritenesse che la mancata opposizione delle parti assegni al fatto dedotto nella imputazione le caratteristiche del fatto non controverso e, dunque, provato, esimendo il giudice da uno specifico "controllo" sul punto.

Se, però, la cognizione del giudice è funzionalmente diversa a seconda degli stadi in cui si articola la fase del giudizio, risultando, quindi, graduata in rapporto al tipo di accertamento che deve essere compiuto, neppure può dirsi, come afferma il rimettente, che il giudice sia privato di qualsiasi potere conoscitivo allorchè viene chiamato a dichiarare l'estinzione del reato nel corso degli atti preliminari al dibattimento. Un primo aspetto, infatti, sul quale si proietta tale potere, verte proprio sulla enunciazione del fatto e delle norme di legge che si assumono violate, giacchè, ove per carenza o ambiguità degli elementi descrittivi, ovvero contraddittorietà tra questi e la relativa qualificazione, il giudice ritenga necessario "accertare" l'estinzione del reato, non v'è dubbio che l'unica sede conferente sia proprio quella dibattimentale. Sotto altro profilo, non deve essere neppure sottaciuta l'importanza che riveste la audizione delle parti ai fini della declaratoria di estinzione del reato: è quella, infatti, la sede ove il contributo dialettico, a meno che non lo si voglia appiattire al rango di mera fictio, offre la concreta "misura" delle rispettive prospettazioni, fornendo al giudice quel patrimonio di conoscenze che ben può porlo in condizione di operare, ratione cognita, le scelte previste dalla norma. Ma un ulteriore elemento che definitivamente svela l'infondatezza della questione, va colto nell'errore in cui cade il rimettente allorchè sostiene di non poter utilizzare, agli effetti di quanto previsto dall'art.469 del codice di procedura penale, "tutti gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento", citando, a mò d'esempio, la querela "che a norma dell'art. 511 può servire all'unico scopo di accertare la sussistenza della condizione di procedibilità". É ben vero, infatti, che la querela è assoggettata a precisi limiti di utilizzazione processuale; ma tali limiti, e non a caso, sono previsti dall'art. 511 del codice di rito con specifico ed esclusivo riferimento all'istituto delle letture, vale a dire a quel peculiare veicolo di utilizzazione che si colloca al termine della istruttoria dibattimentale e che assegna a determinati atti la qualità di "prove" suscettibili di essere valutate nella sentenza che definisce il giudizio. Ma ciò non esclude, ed anzi dimostra, che la querela, fondandosi sulla enunciazione di un fatto previsto dalla legge come reato, costituisca pur sempre un atto dichiarativo del quale il giudice può tener conto a fini diversi da quelli di cui innanzi si è detto. Se, pertanto, la querela prospetta elementi o circostanze di fatto che rendono sotto qualsiasi profilo dubbia l'estinzione del reato, al giudice è certamente consentito "conoscere" e "utilizzare" quegli elementi, al fine di stabilire se sia necessario procedere al dibattimento per accertare l'effettiva esistenza della causa estintiva.

4. Le considerazioni che precedono assorbono anche gli ulteriori profili di incostituzionalità che il rimettente denuncia. Non coglie infatti nel segno l'assunto secondo il quale la norma impugnata violerebbe l'art. 112 della Costituzione, sul presupposto che nella specie sarebbe sottratto al giudice "il giudizio sull'esercizio della azione penale" e attribuita al pubblico ministero la "facoltà di disporre in modo insindacabile l'oggetto della decisione". La funzione che il giudice è chiamato a svolgere nella specifica sede che qui interessa, non ha, infatti, a che vedere con un preteso controllo sulla azione, posto che questa è stata già esercitata con la emissione del decreto di citazione che, per quanto detto più sopra, rappresenta l'atto con il quale il pubblico ministero evoca l'intervento del giudice "domandando" la celebrazione del dibattimento: sicchè, se è vero che il giudizio postula l'esercizio dell'azione, non può certo dirsi che sia, esso stesso, un giudizio "sulla" azione. Quanto alla pretesa "disponibilità" della decisione da parte del pubblico ministero, il rilievo potrebbe ritenersi fondato solo nell'ipotesi in cui al giudice non fosse consentita altra via che quella di "acquietarsi" di fronte alle scelte della parte pubblica; ma una simile evenienza, si è già detto, deve ritenersi esclusa dal ben diverso scenario che la norma impugnata consente di tracciare.

L'ultimo aspetto affrontato dal giudice a quo fa leva sulla irragionevolezza che starebbe al fondo del diverso regime prefigurato dal codice a seconda che la causa estintiva intervenga prima o dopo l'emissione del decreto di citazione a giudizio. Nel primo caso, infatti, il pubblico ministero è tenuto a formulare richiesta di archiviazione e, in quella sede, il giudice per le indagini preliminari può utilizzare tutti gli atti per "verificare la legittimità dell'inazione del P.M. e quindi anche per dichiarare che la causa di estinzione non è operativa perchè il fatto è diverso da come ipotizzato nella richiesta o è diversa la sua qualificazione giuridica, disponendo in tal caso che il P.M. proceda a formulare l'imputazione". Nella seconda ipotesi, invece, al giudice del predibattimento è sottratta la conoscenza di "tutto il materiale di indagine contenuto nel fascicolo del P.M. già ostensibile al G.I.P.".

L'assunto non si rivela accoglibile perchè pone a raffronto situazioni fra loro non comparabili. Altro è, infatti, il tipo di "controllo" e la corrispondente funzione che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a svolgere per decidere sulla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero; altro sono le attribuzioni del giudice del dibattimento a seguito della relativa "investitura" che promana dal decreto di citazione. Nell'un caso è l'inazione del pubblico ministero a devolvere al giudice il compito di verificarne la legittimità, mediante un accertamento ex actis che deve necessariamente riguardare tutta l'attività svolta nel corso della fase; nella seconda ipotesi, invece, la pronuncia del giudice non verte, come si è già evidenziato, sulla azione, e quindi sugli elementi in base ai quali la stessa è stata esercitata, ma sulla possibilità o meno di dichiarare in limine estinto il reato.

Competenze funzionali, dunque, troppo diverse per rendere ammissibile un confronto e desumerne pretese censure di irragionevolezza fondate unicamente sul differente regime che le disciplina.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.469 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 101 e 112 della Costituzione, dal Pretore di Ravenna, Sezione distaccata di Lugo, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/02/92.

Giuseppe BORZELLINO, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 9 marzo del 1992.