Sentenza n. 79 del 1992

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SENTENZA N. 79

 

ANNO 1992

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2050 del codice civile, promosso ordinanza emessa il 4 aprile 1991 dal Tribunale di Monza nel procedimento civile vertente tra Anedda Paolo, Corriga Patrizio ed altro, iscritta al n. 589 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di costituzione di Anedda Paolo nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio di ministri;

udito nell'udienza pubblica del 21 gennaio 1991 il Giudice relatore Renato Granata;

udito l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 4 aprile 1991 il Tribunale di Monza - nel corso del giudizio civile promosso da Anedda Paolo nei confronti di Corriga Patrizio e Biassoni Ermenegildo per il risarcimento del danno subito per essere stato colpito all'occhio destro nel corso di una battuta di caccia dal fucile di uno dei due convenuti, i quali avevano fatto fuoco simultaneamente provocando, uno dei due, il rimbalzo di un pallino nellasua direzione - ha sollevato questione incidentale di legit costituzionale dell'art. 2050 c.c. per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.

 

Il giudice rimettente - accertato in punto di fatto che il colpo fu sicuramente esploso da uno dei due convenuti i quali puntarono la preda e spararono contemporaneamente mentre procedevano affiancati e di poco distanziati dall'attore, loro compagno nella battuta di caccia, ed esclusa d'altro canto la sussistenza di un concorso nella determinazione dell'evento, essendo risultato che uno solo fu il pallino che colpì all'occhio destro l'attore - ritiene conseguentemente non ipotizzabile la solidarietà passiva ex art. 2055 c.c. giacchè uno solo dei convenuti - pur avendo entrambi posto in essere un comportamento del tutto identico e simultaneo - deve ritenersi responsabile dell'evento. Ad avviso del remittente è invece applicabile l'art. 2050 c.c. essendo l'esercizio della caccia un'attività pericolosa in ragione dell'utilizzo di armi da fuoco; ma alla stregua di tale norma l'inversione dell'onere probatorio opera solo in relazione alla prova dell'elemento soggettivo della colpevolezza, dovendo il preteso responsabile dimostrare di avere adottato tutte le cautele atte ad evitare l'evento dannoso, mentre permane sull'attore l'onere di provare il nesso causale esistente tra condotta ed evento lesivo. Ciò comporta che nell'ipotesi della caccia (come in tutte le altre ipotesi di danno derivante dall'esercizio di un'attività pericolosa svolta simultaneamente e con condotte uniformi da più persone) il danneggiato risulta gravato dall'onere probatorio di individuazione del responsabile, onere che nella specie è di impossibile assolvimento concreto, dovendo egli dimostrare da quale dei due fucili che spararono contemporaneamente sia partito il proiettile che l'ha colpito.

 

Ciò premesso, il giudice rimettente denuncia disparità di trattamento (art. 3 Cost.) - che ridonda anche in lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) - tra le vittime incolpevoli di attività pericolose, quale l'esercizio della caccia, e le vittime incolpevoli degli incidenti stradali atteso che soltanto per queste ultime è prevista la cd.socializzazione del diritto al risarcimento del danno, così che le prime vengono a trovarsi in una situazione di evidente svantaggio, incombendo su di loro un onere probatorio, connesso all'individuazione del responsabile, di difficile o addirittura impossibile assolvimento allorchè il danno si sia verificato in costanza di una pluralità di condotte simultanee e tutte teoricamente possibili cause del danno.

 

Quindi il giudice rimettente denuncia d'ufficio l'incostituzionalità dell'art. 2050 c.c. nella parte in cui non prevede che, allorchè non sia possibile l'individuazione di uno specifico responsabile del danno nell'esercizio di un'attività pericolosa, sia applicabile la presunzione di responsabilità nei confronti di tutti i partecipi all'attività e quindi incomba su questi ultimi la prova liberatoria in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la loro condotta e l'evento dannoso.

 

2. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.

 

Sostiene essere improprio il richiamo al principio della socializzazione del diritto al risarcimento del danno ed in particolare il riferimento implicito al Fondo di garanzia per le vittime della strada (ex art. 19 L. n. 990 del 1969) che concerne situazioni non suscettibili di essere confrontate con la fattispecie concreta oggetto del giudizio principale.

 

Inoltre la pronuncia invocata dal giudice rimettente implica comunque scelte discrezionali che competono al legislatore, atteso che la soluzione auspicata dal giudice rimettente mira a sovvertire la regola che è a fondamento della fattispecie presuntiva dell'art. 2050 c.c. modificando il nesso causale da presupposto ad oggetto della presunzione e fondando questa su una quanto mai labile nozione di "partecipazione", con la conseguenza di gravare soggetti incolpevoli di ingiustificati oneri probatori privilegiando la contrapposta esigenza di assicurare il risarcimento del danno al danneggiato e quindi operando un giudizio dei contrapposti interessi che compete al legislatore.

 

3. Si è costituito l'attore Anedda, limitandosi a chiedere che la Corte ritenga fondata la questione di legittimità costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

1. É stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. - dell'art. 2050 cod. civ. nella parte in cui non prevede che - allorchè non sia possibile l'individuazione di uno specifico responsabile del danno nell'esercizio di un'attività pericolosa (quale nella specie l'attività venatoria) - sia applicabile la presunzione (iuris tantum) di responsabilità nei confronti di tutti i < < partecipi all'attività>>, per sospetta violazione del principio di parità di trattamento con le vittime della circolazione stradale, le quali vengono risarcite anche nel caso in cui sia rimasto ignoto l'autore dell'illecito, nonchè del diritto di difesa.

 

2. La premessa del dubbio di costituzionalità prospettato dal giudice rimettente è costituita dall'affermazione, che trova conforme riscontro nella giurisprudenza, secondo cui l'attività venatoria costituisce esercizio di attività pericolosa onde, in deroga al principio generale posto dall'art. 2043 cod. civ., opera l'inversione dell'onere della prova prevista dall'art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che chi cagiona il danno è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

 

All'evidenza tale inversione attiene all'elemento soggettivo della colpa e non già al nesso di causalità che lega la condotta dell'agente, costituente esercizio di attività pericolosa, all'evento dannoso sicchè il danneggiato rimane comunque onerato della prova che chi ha posto in essere l'attività pericolosa abbia causato il danno, prova da fornirsi secondo il canone generale dell'imputabilità del fatto illecito ex art.2043 cit., sotto questo profilo non derogato.

 

Non viene invece in rilievo il disposto dell'art. 2055 cod.civ. perchè nella prospettazione del giudice rimettente, secondo la ricostruzione della fattispecie concreta oggetto della controversia, si è fuori dall'ipotesi dell'imputabilità del medesimo fatto dannoso a più persone che abbiano concorso nel porre in essere la condotta causativa del danno.

 

3. La prima censura di costituzionalità si specifica come sospetta disparità di trattamento tra tale disciplina posta dall'art. 2050 cit. e quella, ulteriormente speciale, prevista dalla legge 24 dicembre 1969 n.990(sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità ci dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), modificata dal decreto legge 23 dicembre 1976 n.857 , convertito nella legge 26 febbraio 1977 n.39.

 

In particolare, in ipotesi di danno da circolazione di veicoli non solo opera la presunzione prevista dall'art. 2054, primo comma, cod. civ., norma in tale parte simmetrica al cit. art. 2050, ma trova anche applicazione il disposto dell'art. 19 della cit. legge n.990 del 1969, che prevede l'intervento del < < Fondo di garanzia per le vittime della strada>> per il risarcimento del danno alle persone allorchè il sinistro sia stato cagionato da un veicolo non identificato.

 

Risulterebbe quindi - secondo il giudice rimettente - un ingiustificato trattamento più favorevole per le vittime della circolazione stradale rispetto alle vittime di attività pericolose in genere; tale disparità dovrebbe essere rimossa, nella prospettazione del giudice rimettente, estendendo l'operatività della presunzione prevista dall'art. 2050 cit. fino a comprendervi anche il nesso di causalità nell'ipotesi in cui all'attività pericolosa abbiano partecipato più persone, ma sia rimasto ignoto l'autore della singola condotta determinativa dell'evento dannoso.

 

4. Questo essendo il tertium comparationis invocato dal giudice rimettente, la questione sollevata si appalesa inammissibile perchè la censura di incostituzionalità non è coerente con la disciplina presa in esame a confronto di quella investita dalla censura stessa.

 

Ed infatti l'art. 19 della legge n.990 del 1969 non prevede affatto una deroga al generale canone di imputazione del fatto illecito, nel caso di danno da circolazione stradale,come in quello di danno da attività pericolosa, rimanendo pur sempre limitata l'inversione dell'onere della prova al solo elemento soggettivo della colpa. In entrambi i casi, quindi, il danneggiato deve fornire la prova del nesso di causalità tra la condotta dell'agente e l'evento dannoso.

 

La circostanza, però, che sia rimasto ignoto l'autore della condotta causativa dell'evento dannoso - ancorchè non alteri in nessuna delle due ipotesi la portata dell'inversione dell'onere di cui rispettivamente agli artt. 2054 , primo comma, e 2050 cit., attiva - in un caso e non nell'altro - uno speciale meccanismo risarcitorio rappresentato dall'intervento del Fondo suddetto, meccanismo che si inserisce nel contesto del regime di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore.

 

Quindi la situazione meno favorevole in cui vengono a trovarsi le vittime di attività pericolose in genere rispetto alle vittime della circolazione stradale - situazione certamente degna di attenzione perchè desta allarme sociale il mancato ristoro del danno alla persona cagionato da soggetto non identificato - consegue non già ad una differenziata disciplina dell'onere probatorio, che è invece analoga, bensì alla previsione in un caso, e non nell'altro, di uno strumento assicurativo (il Fondo di garanzia) tale da assicurare il ristoro dei danni alla persona anche nell'ipotesi in cui il danneggiato non sia in grado di fornire la prova dell'identificazione dell'autore della condotta causativa del danno.

 

Pertanto la parificazione delle due situazioni poste a confronto non può aversi - come auspica il giudice rimettente - modificando in un caso il regime dell'onere della prova (da che anzi conseguirebbe un'ingiustificata disparità di trattamento ove l'inversione di tale onere operasse in relazione anche al nesso di causalità ovvero soltanto all'elemento soggettivo della colpa in ragione dell'essere il danno riferibile in generale ad un'attività pericolosa o in particolare alla circolazione stradale). D'altra parte la disciplina posta dall'art.2050 cod. civ., come nelle altre norme speciali rispetto al disposto dell'art.2043 cod. civ., è sottesa al bilanciamento tra l'interesse del danneggiato al ristoro del danno subito e l'interesse del soggetto sul quale si fa ricadere la responsabilità risarcitoria con meccanismi di inversione dell'onere della prova derogatori dei principi generali di imputabilità del fatto illecito. Tale bilanciamento è rimesso alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile se non irragionevole od ingiustificatamente discriminante.

 

Invece la prospettazione di ricondurre la disciplina della fattispecie presa in considerazione dal giudice rimettente a quella del tertium comparationis per uniformarle passa necessariamente attraverso l'estensione del meccanismo del Fondo di garanzia nel contesto del regime di assicurazione obbligatoria come da ultimo ha fatto, proprio per la caccia, il legislatore con la legge 11 febbraio 1992 n. 157. Ma questa ipotesi di estensione del meccanismo assicurativo - astrattamente rilevante nel regime precedente la citata recentissima riforma - non è presente nell'ordinanza di rimessione che mira ad un ampliamento manipolativo dell'ambito di operatività della presunzione di responsabilità di cui all'art.2050 cod.civ. e quindi attiene ad una norma diversa da quella censurata (donde la irrilevanza dello ius superveniens menzionato), incidendo sulla compatibilità, o meno, con il canone della ragionevolezza (ex art.3 Cost.) della disposizione a quel momento vigente (art. 8, sesto comma, legge 27 dicembre 1977 n.968, recante principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia) che, nel prevedere l'obbligo dell'assicurazione per chi intende esercitare l'attività venatoria, non contemplava altresì un meccanismo di copertura dei danni alla persona anche nel caso di mancata identificazione dell'autore della condotta dannosa.

 

6. Inammissibile è altresì la censura di incostituzionalità della medesima norma impugnata riferita al secondo parametro (art. 24 Cost.) invocato (ancorchè senza specifica e distinta motivazione) dal giudice rimettente, atteso che, pur quando tale censura si voglia intendere implicitamente motivata con l'impossibilità per il danneggiato di provare il nesso eziologico e quindi di individuare l'autore del fatto lesivo, nessuna compressione del diritto di azione potrebbe vedersi in tale situazione, ma soltanto il normale operare in concreto dell'onere probatorio. Mentre la censura, anche sotto questo ulteriore profilo, mira ad introdurre un nuovo criterio di imputazione, fondato non già sul nesso di causalità, ma sulla mera < < partecipazione>> all'esercizio di un'attività pericolosa con distinte ed autonome condotte uniformi da più persone, tutte simultanee e tutte teoricamente possibili cause di danno; ma l'introduzione di un tal criterio di imputazione - peraltro estremamente labile in quanto rappresenterebbe un quid minoris rispetto alla partecipazione ad una medesima condotta che già radica la responsabilità solidale ex art. 2055 cod. civ. - rientra nella discrezionalità del legislatore.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.2050 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Monza con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/02/92.

 

Aldo CORASANITI, Presidente

 

Renato GRANATA, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 4 marzo del 1992.