Sentenza n. 468 del 1990

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SENTENZA N.468

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 19 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), e degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile, promossi con ordinanze emesse l'8 novembre 1989 dal Tribunale di Napoli, il 24 novembre e il 18 dicembre 1989, il 10 gennaio, il 19 aprile e il 4 maggio 1990 dal Tribunale di Roma, iscritte rispettivamente ai nn. 72, 230, 231, 438, 454 e 498 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale nn. 9, 15, 28, e 31, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visti gli atti di costituzione di Polichetti Renato, Leoni Pier Paolo, Scopelliti Francesca erede di Tortora Enzo, Dente Gattola Orazio, Vitalone Wilfredo, Clò Alberto, Ambrosio Albino e Nebbia Marisa, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 25 settembre 1990 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;

uditi gli avvocati Giuseppe Zupo per Polichetti Renato, Enrico Guidi per Leoni Pier Paolo, Claudio Chiola per Scopelliti Francesca, Giovanni Giacobbe per Dente Gattola Orazio, Francesco S. Pettinari e Wilfredo Vitalone per Vitalone Wilfredo, Renata Bergonzoni per Clò Alfredo, Ambrosio Albino e Nebbia Marisa e l'Avvocato dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del Consiglio dei ministri

Ritenuto in fatto

1.1.- Nel corso di un giudizio in cui l'attore, con atto notificato il 15 giugno 1988, aveva convenuto in giudizio un magistrato con funzioni di Pretore del lavoro presso la Pretura di Roma, la Repubblica italiana in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, nonchè quest'ultimo ed il Ministro di grazia e giustizia nella qualità di firmatario della legge n. 117 del 1988, chiedendo il risarcimento dei danni che asseriva di aver subito all'esito di una controversia di lavoro - conclusasi con una conciliazione (che riteneva essere a lui pregiudizievole a causa delle asserite violazioni, da parte del Pretore, della legge processuale) - il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 24 novembre 1989, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 13 aprile 1988, n. 117.

Il giudice a quo prospetta violazione degli artt. 3, 28 e da 101 a 113 della Costituzione, censurando la norma là dove essa, nell'escludere l'applicabilità della legge ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato anteriormente alla 'sua entrata in vigore, non prevede che i giudizi introdotti in relazione a tali fatti siano sottoposti a condizioni di proponibilità.

Rileva il Tribunale come la fattispecie sia disciplinata, sul piano sostanziale, dall'abrogato art. 55 del codice di procedura civile, ma ritiene altresì che la correlativa norma di cui all'art. 56 - che prevedeva l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia per poter proporre la domanda - non sia più applicabile in quanto "essenzialmente processuale".

Pertanto la denunciata normativa risulterebbe viziata là dove omette di conferire efficacia ultrattiva al citato art. 56 con la conseguenza che le domande risarcitorie per fatti anteriori alla legge, per le quali non é neppure applicabile il preventivo giudizio di ammissibilità di cui all'art. 5 della legge medesima, resterebbero prive di quel "filtro", viceversa ritenuto indispensabile dalla stessa Corte costituzionale.

1.2.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, che ha richiesto la declaratoria d'infondatezza per erroneità del presupposto da cui muove il giudice a quo.

L'Avvocatura esclude infatti che la norma denunziata abbia inteso far venir meno le disposizioni preposte a costituire una remora ad azioni temerarie e pretestuose e prospetta, in via alternativa, l'applicabilità alle fattispecie de quibus del giudizio preliminare previsto dall'art. 5 legge n. 117 del 1988 (pur rappresentando la difficoltà di estendere tale meccanismo, previsto per un giudizio in cui lo Stato é l'unico legittimato passivo), ovvero ipotizza un'ultrattività dell'art. 56 del codice di procedura civile, più in coerenza con la logica di quel sistema.

1.3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si é costituita la parte privata Polichetti Renato insistendo per la declaratoria d'illegittimità della norma denunziata.

Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, la parte ha prospettato la possibilità che nel processo a quo siano applicabili le disposizioni procedurali di cui alla legge n. 117 del 1988, in quanto la limitazione dell'irretroattività della nuova normativa riguarderebbe esclusivamente l'aspetto sostanziale.

2.1.- Nel corso di un procedimento per il risarcimento danni proposto nei confronti di alcuni magistrati, componenti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (con atti notificati il 16 aprile ed il 28 giugno 1988) per l'asserita difformità di giudizio in questioni identiche che avrebbe cagionato pregiudizio all'attore, H Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 18 dicembre 1989, ha sollevato questione analoga a quella illustrata sub 1, richiamando anche il parametro costituito dall'art. 97 della Costituzione.

Il giudice a quo, richiamandosi alla ratio della norma impugnata, osserva come, nella specie, dovrebbe farsi necessariamente applicazione dell'art. 56 del codice di procedura civile, in quanto saldamente legato agli artt. 55 e 74 dei codice di procedura civile in un contesto normativa unitario, là dove l'art. 19 precluderebbe tale soluzione in quanto dettato nel presupposto che la legge n. 117 del 1988 sarebbe stata approvata entro i centoventi giorni di posticipazione dell'effetto abrogativo del referendum disposto - sino al 7 aprile 1988 - dal d.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497.

Viceversa la nuova normativa era entrata in vigore il 16 aprile 1988 ed appunto in tale lasso di tempo erano stati notificati gli atti di citazione (ad eccezione dei convenuto Cassata). Ne conseguirebbe che per tutti i magistrati, nei cui confronti fossero stati introdotti procedimenti quale quello in esame, dovrebbe ammettersi un incontrollato giudizio di responsabilità, mentre per tutti gli altri opererebbero invece il meccanismo dell'autorizzazione ovvero il giudizio di ammissibilità. La rilevanza della questione - analogamente a quanto sub 1 - risulta, a parere del Tribunale, dall'omessa richiesta di autorizzazione da parte dell'attore.

2.2.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si é costituita la parte attrice chiedendo la declaratoria di manifesta infondatezza della questione sull'assunto dell'applicabilità, nel lasso di tempo considerato, dell'art. 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, come conseguenza della valenza immediatamente precettiva dell'art. 28 della Costituzione.

Si assume in particolare nella memoria che una pronuncia di fondatezza della questione determinerebbe "una ingiustificata ed ingiustificabile posizione di privilegio in favore dei magistrati" e che un "filtro" all'azione sarebbe comunque costituito dallo stesso giudizio in corso davanti al Tribunale di Roma.

3.1.- Nel corso di un giudizio in cui l'attore aveva richiesto il risarcimento dei danni asseritamente cagionatigli da due magistrati rispettivamente in servizio presso il Tribunale e la Procura della Repubblica di Roma, convenendo i medesimi, unicamente al Presidente del Consiglio, al Ministro di grazia e giustizia ed alla Repubblica italiana, il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 10 gennaio 1990, ha sollevato la medesima questione di cui alle precedenti ordinanze con riguardo agli stessi parametri (escluso l'art. 97 della Costituzione), sinteticamente svolgendo considerazioni analoghe a quelle sviluppate nei suddetti provvedimenti di rimessione.

3.2.- É intervenuta l'Avvocatura dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, richiamando le conclusioni e gli argomenti di cui all'atto d'intervento relativo all'ordinanza n. 230 del 1990, prodotto in copia.

4.1.- Nel corso di un giudizio in cui Tortora Enzo aveva richiesto a due sostituti procuratori della Repubblica, al giudice istruttore ed ai componenti il collegio del Tribunale penale, nonchè all'amministrazione dello Stato, i danni cagionatigli dall'ingiusta detenzione, il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 19 aprile 1990, ha sollevato, in relazione agli artt. 3, primo comma, 25, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile.

Dette norme vengono censurate sulla premessa dell'inapplicabilità dell'art. 56 del codice di procedura civile, in quanto disposizione processuale, nella parte in cui non prevedono anche per il periodo successivo all'abrogazione referendaria, la necessità dell'autorizzazione ministeriale di cui al citato art. 56 - e della conseguente designazione dei giudice competente - quale condizione di proponibilità della domanda - volta ad ottenere la dichiarazione di responsabilità del magistrato - proposta successivamente al verificarsi dell'effetto abrogativo, ma in relazione a fatti risalenti ad epoca anteriore.

Osserva il giudice a quo come gli arti. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, costituissero un sistema organico, volto a filtrare, attraverso la preventiva autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, l'abuso dell'azione di responsabilità, esigenza riconosciuta come imprescindibile anche dal legislatore del 1988 con la previsione di un giudizio di ammissibilità, onde la mancanza di un qualsivoglia meccanismo di controllo nel lasso di tempo corrente tra abrogazione e nuova disciplina parrebbe "il frutto di una incompleta raffigurazione della esigenza di dettare norme intertemporali, piuttosto che il risultato di positivo esercizio di sciente discrezionalità".

Tuttavia, prosegue l'ordinanza, soltanto questa Corte potrebbe avallare un'interpretazione che affermasse la permanente applicabilità dell'art. 56: soltanto l'autorevolezza di una decisione interpretativa di rigetto in tal senso potrebbe infatti evitare un potenziale conflitto tra poteri dello Stato (ipotizzabile là dove il giudice ritenesse la domanda improponibile per difetto di autorizzazione ed il Ministro ritenesse per converso non esservi luogo ad alcuna attività autorizzatoria).

D'altra parte sostenere che fattispecie sostanzialmente inquadrabili ex art. 55 del codice di procedura civile debbano essere processualmente disciplinate dall'art. 5 della legge n. 117 del 1988 darebbe luogo ad un "monstrum giuridico, con problemi ermeneutici davvero irrisolvibili".

La censura va prospettata, a parere del remittente, per la disparità di trattamento conseguente al diverso momento cronologico della vocatio in ius, sotto il profilo della possibilità per l'attore di sottrarre il processo al giudice che sarebbe stato designato ex art. 56 del codice di procedura civile, per l'effetto d'inutile ed indeterminabile proliferazione di domande risarcitorie, ed infine per la potenziale attitudine ad incidere negativamente sull'indipendenza del giudice.

4.2.- É- intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la declaratoria d'infondatezza della questione, qualificata come sostanzialmente identica a quelle sollevate negli altri giudizi.

4.3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si é costituito Dente Gattola Orazio il quale ha anzitutto sostenuto l'inammissibilità di un'azione proposta contro i singoli componenti di un collegio in relazione ad una manifestazione di volontà, qual é la decisione, essenzialmente unitaria e non scindibile in una pluralità di atti individuali, a meno di concretare una forma di responsabilità oggettiva. La parte convenuta, atteso il vincolo del segreto, non sarebbe comunque in grado di apprestare un'adeguata difesa, onde si prospetterebbe un contrasto con l'art. 24 della Costituzione, secondo un profilo che, si sostiene, non sarebbe incompatibile con quanto affermato da questa Corte con sentenza n. 18 del 1989.

4.4.- Si é altresì costituita Scopelliti Francesca chiedendo la declaratoria d'inammissibilità, ovvero d'infondatezza della questione, che riguarderebbe la stessa norma abrogativa referendaria, avendo il giudice a quo nella sostanza richiesto "un'ulteriore ultrattività" dei regime di cui all'art. 56 del codice di procedura civile.

Sempre con riguardo alla dedotta inammissibilità, si obietta che la stessa competenza del Tribunale di Roma verrebbe posta in dubbio là dove si ritenesse applicabile l'art. 56 citato, in quanto diverrebbe nuovamente operante il meccanismo di designazione del giudice da parte della Suprema Corte. Parimenti irrilevante risulterebbe la denunzia dell'art. 19 della legge n. 117 del 1988, inapplicabile nel giudizio a quo.

Riaffermata la natura processuale dell'art. 56 del codice di procedura civile ed escluso che una disparità di trattamento possa mai scaturire dalla successione delle leggi nel tempo, la difesa della parte privata contesta che la scelta legislativa circa il filtro di ammissibilità rappresenti una risposta alla volontà referendaria e che possa essere assunta a parametro (si osserva altresì come nessuna condizione sia richiesta per promuovere l'azione penale nei confronti del magistrato e come, in definitiva, il meccanismo di cui all'art. 56 del codice di procedura civile, prevedesse l'intervento di un organo politico, quale il Ministro).

Quanto al richiamo agli artt. 25 e 97 della Costituzione, si sostiene in memoria che nell'art. 56 del codice di procedura civile vi era la negazione stessa del principio del giudice naturale e che il buon andamento dell'amministrazione non potrebbe mai passare attraverso una limitazione della domanda di giustizia, nè sarebbe in alcun modo conferente l'argomento riguardante la presunta proliferazione di domande risarcitorie.

Nel concludere sottolineando la necessità che i principi d'imparzialità ed indipendenza vengano bilanciati con altri valori costituzionali, la parte prospetta, in subordine, l'illegittimità costituzionale dell'art. 56 del codice di procedura civile, ove ritenuto applicabile, sia alla stregua della giurisprudenza di questa Corte che ha sanzionato le condizioni di procedibilità affidate alla discrezionalità della stessa Amministrazione interessata al giudizio, sia in rapporto all'art. 25 della Costituzione, per la mancanza di criteri predeterminati che guidino la scelta dei giudice competente da parte della Corte di cassazione.

Nell'imminenza dell'udienza la parte ha poi depositato ulteriore memoria insistendo sulla natura processuale dell'art. 56 del codice di procedura civile, che priverebbe di fondamento la tesi della sopravvivenza di tale norma, ed escludendo per converso ogni possibile applicabilità della normativa di cui alla legge n. 117 del 1988. La difesa di Scopelliti Francesca ribadisce altresì le proprie considerazioni negative circa la possibilità di intervenire con una sentenza additiva per colmare un vuoto processuale che, anche in mancanza di "filtro", si asserisce essere compatibile con i principi costituzionali.

5.1. - Nel corso di un giudizio promosso da Vitalone Wilfredo nei confronti di alcuni magistrati del Tribunale di Modena che, nell'esercizio delle loro funzioni requirenti e giudicanti, gli avrebbero cagionato pregiudizio in un procedimento conclusosi nel 1983, il Tribunale di Roma ha sollevato la medesima questione di cui sub 4.1, concernente gli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile, in riferimento ai medesimi parametri (ad esclusione dell'art. 25 della Costituzione), svolgendo sinteticamente motivazioni del tutto analoghe.

5.2. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato che ha concluso per la declaratoria d'infondatezza richiamando le considerazioni svolte nel giudizio di cui all'ordinanza n. 230 del 1990 e producendo copia del relativo atto d'intervento.

5.3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituiti i magistrati Ambrosio Albino, Clò Alfredo, Nebbia Marisa, tutti chiedendo l'accoglimento della prospettata denuncia d'illegittimità.

Si é altresì costituito l'attore Vitalone Wilfredo escludendo che la domanda proposta dovesse essere assoggettata a qualsivoglia "filtro" attesa la asserita rilevanza penale della condotta ascritta ai convenuti ovvero, in subordine, in considerazione dell'inquadrabilità dell'azione stessa tra quelle che regolano la responsabilità dei pubblici funzionari.

6.1.- Il Tribunale di Napoli, nel corso di un giudizio per risarcimento del danno analogo ai precedenti e relativo sempre a fatti anteriori alla legge n. 117 del 1988, ha sollevato, con ordinanza emessa l'8 novembre 1989, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge predetta in relazione agli artt. 24, 25 e 101 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che al giudice competente a giudicare sulle domande proposte contro lo Stato Per fatti commessi da magistrati, vengano devolute anche le domande relative a fatti commessi da altri soggetti in concorso con i magistrati o comunque connessi alle condotte dei magistrati stessi.

A parere del giudice a quo le disposizioni processuali della legge n. 117 del 1988 devono trovare applicazione anche se le azioni proposte si riferiscono a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore (e ciò sarebbe confermato, oltre che dai lavori preparatori, anche dal tenore dell'inciso contenuto nell'art. 19: "nei casi previsti dagli articoli 2 e 3").

Richiamati alcuni momenti salienti dei processo penale dal quale l'attore assume essere stato danneggiato, il Tribunale osserva che la domanda proposta avverso la pubblica Amministrazione di appartenenza dei magistrati, non risultando introdotta nella Corte d'appello viciniore ex art. 4 della legge n. 117 del 1988, dovrebbe essere dichiarata inammissibile.

Ma poichè la norma citata non prevede che analoghe domande per fatti intimamente connessi posti in essere da altri soggetti - ovvero da questi ultimi in concorso con magistrati - siano attratte dalla competenza funzionale suddetta, il Tribunale osserva che un giudice della medesima Corte d'appello può finire per Pronunciarsi sui comportamento di un collega del distretto, in violazione del principio dei giudice naturale e del diritto alla difesa.

Rileva infine il giudice a quo come nell'omessa previsione oggetto della denunzia sia anche ravvisabile una lesione dei principio dell'indipendenza del giudice, sotteso ai meccanismi di spostamento di competenza nei procedimenti riguardanti i magistrati. In conclusione si sottolinea come un'eventuale separazione dei giudizi comprometterebbe l'economia processuale comportando altresì il rischio di giudicati contrastanti.

6.2.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, eccependo anzitutto l'inammissibilità della questione in quanto sarebbe da escludere l'applicabilità delle disposizioni processuali di cui alla più volte citata legge n. 117 del 1988 per fatti non regolati dalla normativa sostanziale della stessa, in quanto antecedenti la sua entrata in vigore. La stessa struttura del giudizio e la esclusiva legittimazione passiva dello Stato non consentirebbero infatti di scindere la disciplina processuale ex artt. 4 e 5 della legge citata dal complesso unitario cui appartiene.

Conclude l'Avvocatura osservando, nel merito, come, nell'ipotesi di cause inscindibili, operi comunque la vis adtractiva dello speciale foro per le domande connesse, analogamente a quanto accade nel caso del foro erariale.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze dei Tribunali di Roma e di Napoli propongono questioni di contenuto analogo ovvero sostanzialmente identico, onde possono essere riunite, contestualmente trattate e decise con unico provvedimento.

2. - Il Tribunale di Napoli, con ordinanza dell'8 novembre 1989 (R.O. n. 72/1990), in relazione agli artt. 24, 25 e 101 della Costituzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui <non prevede che il giudice ivi indicato, funzionalmente competente a giudicare delle domande di risarcimento contro lo Stato per fatti dei magistrati, sia funzionalmente competente anche in relazione alle domande relative a fatti commessi da altri soggetti in concorso con magistrati, ovvero relative a fatti posti in essere da altri soggetti, ma intimamente connessi con le condotte dei magistrati>.

Il giudizio a quo concerne fatti anteriori all'entrata in vigore della legge citata.

2.1. - La questione è inammissibile.

Come si dirà più diffusamente in seguito, la legge 13 aprile 1988, n. 117, in forza della irretroattività sancita dal suo art. 19, secondo comma, non si applica per fatti accaduti anteriormente alla data della sua entrata in vigore (16 aprile 1988) in alcuna sua parte, nè sostanziale nè processuale, trattandosi di un insieme organico e non scindibile, fondato su una ratio radicalmente innovativa del regime precedente, nel senso che, per il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, risponde ora lo Stato e in via di rivalsa il magistrato.

L'estraneità della legge n. 117 del 1988 rispetto al fatto e al rito del giudizio a quo rende del tutto irrilevante ai fini della decisione di merito la questione sollevata.

3. - Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 19 aprile 1990 (R.O. n. 454/1990), in relazione agli artt. 3, primo comma, 25, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, 104, primo comma, della Costituzione, e con altra ordinanza del 4 maggio 1990 (R.O. n. 498/1990), in relazione agli artt. 3, 97, 101 e 104 della Costituzione, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile nella parte in cui non prevedono, dopo l'abrogazione referendaria, la permanente necessità dell'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, ex art. 56, primo comma, del codice di procedura civile, quale condizione di proponibilità della domanda nel giudizio di responsabilità civile del magistrato per fatti commessi anteriormente alla caducazione referendaria, nonchè la designazione del giudice competente da parte della Corte di cassazione, ex art. 56, secondo comma, del codice di procedura civile.

3.1. - La questione è inammissibile.

Non possono essere sottoposte a verifica di legittimità costituzionale norme abrogate se non quando si tratti di cancellarne effetti residuali, non invece allorchè si chieda di richiamarne in vigore altre ad esse collegate e parimenti abrogate.

Sotto un profilo di mera logica ordinamentale, al fine di individuare il diritto transitorio tra due normative che si succedono nel tempo, non è censurabile la legge che precede per non avere previsto il regime applicabile dopo la propria abrogazione, ma semmai la legge recenziore, dato che sono prerogative del legislatore, che riforma o innova, la scelta e la statuizione delle norme regolatrici dei rapporti non esauriti o definitivamente decisi sotto l'impero della disciplina abrogata.

4. - Il Tribunale di Roma, con tre ordinanze, rispettivamente del 24 novembre 1989 (R.O. n. 230/1990), del 18 dicembre 1989 (R.O. n. 231/1990), del 10 gennaio 1990 (R.O. n. 438/1990), in relazione agli artt. 3, 28, 101 a 113, nonchè nella seconda anche 97 della Costituzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 13 aprile 1988, n. 117, in quanto non prevede condizioni di proponibilità della domanda di risarcimento e, più in particolare, l'autorizzazione ministeriale di cui all'abrogato art. 56, primo comma, del codice di procedura civile.

4.1. - Questa Corte ha riconosciuto il rilievo costituzionale di un meccanismo di <filtro> della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, perchè un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle <condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati> che <la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono> (v. sentenze n. 2 del 1968 e n. 26 del 1987).

Tale filtro, nell'ordinamento introdotto nel 1940, era rappresentato dall'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, che si configurava come condizione di proponibilità della domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice, ex art. 56, primo comma, del codice di procedura civile.

Gli articoli del vigente codice di procedura civile 55 (Responsabilità civile del giudice) e 74 (Responsabilità del pubblico ministero) costituivano insieme all'art. 56 (Autorizzazione) un sistema coerente di tutela della funzione giurisdizionale, sia nella limitazione dei titoli di responsabilità del giudice-dolo, frode o concussione, omissione o ritardo di provvedere su istanze o domande delle parti o di compiere atti del suo ministero -sia nella valutazione discrezionale dell'autorità politica titolare di potere autorizzatorio.

Questo sistema è stato caducato con referendum popolare, i cui effetti abrogativi sono stati posticipati di 120 giorni dalla pubblicazione del d.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497: un differimento, sino al 7 aprile 1988, dell'efficacia dell'abrogazione referendaria, giustificato nel preambolo del citato d.P.R. n. 497 del 1987 con <la necessità di evitare che, a seguito del risultato del referendum, la materia della responsabilità civile dei magistrati resti priva di disciplina specifica>, donde la proroga dell'entrata in vigore degli effetti abrogativi nella misura massima prevista dalla legge data la complessità della materia, nonchè per <consentire l'approvazione di una nuova disciplina sostitutiva della precedente>. Ciò nell'intento di evitare che la responsabilità civile del giudice fosse abbandonata alle previsioni generali dell'art. 2043 del codice civile (Risarcimento per fatto illecito) o dell'art. 2236 del codice civile (Responsabilità del prestatore d'opera) o assimilata a quella dei funzionari e dipendenti dello Stato a norma dell'art. 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ma disciplinata con una nuova regolamentazione specifica senza soluzione temporale di continuità. Questa si è, invece, verificata per il protrarsi dell'iter parlamentare della legge n. 117 del 1988, entrata in vigore soltanto il 16 aprile 1988.

4.2. - Se è di tutta evidenza che i giudizi promossi, non importa se prima o dopo la data di entrata in vigore della legge n. 117 del 1988, per fatti del magistrato commessi anteriormente a quella data, hanno la fonte della propria causa petendi nei titoli di responsabilità previsti dall'art. 55 del codice di procedura civile, non sarebbe assistita da alcuna certezza quella interpretazione che, scindendo le norme sostanziali da quelle processuali nel disposto dell'art. 19 della legge n. 117 del 1988, applicasse i canoni del ius superveniens e del tempus regit actum, con la conseguenza di ridurre la portata della irretroattività della nuova legge alle sole fattispecie sostanziali, di cui agli artt. 2 e 3> escludendone quelle processuali di cui agli artt. 4 e 5.

Una lettura corretta dell'art. 19, secondo comma, non può che condurre a intendere la irretroattività come estesa a comprendere le fattispecie sostanziali insieme con l'intera struttura procedimentale che pone in primo piano il danno ingiusto risarcibile dallo Stato in luogo della diretta responsabilità civile del magistrato, con la conseguente legittimazione passiva dello Stato, l'intervento facoltativo del magistrato, la successiva azione di rivalsa dello Stato contro di lui.

Una esclusione dalla irretroattività delle norme di carattere processuale disposta dall'art. 19 citato, porterebbe ad applicarle, con il canone <in quanto compatibile>, ad un procedimento del tutto diverso nella causa petendi e nel destinatario del petitum, con estensione variabile delle regole utilizzate ed opinabilità di orientamenti, gravemente lesive della certezza del diritto.

4.3.-Del tutto improponibile è, peraltro, la tesi inversa della conservazione in vigore, quale norma transitoria, dell'art. 56 del codice di procedura civile abrogato dal referendum, inteso come modo di essere dell'azione di responsabilità di cui all'art. 55 del codice di procedura civile, che pur continua a costituire la base della causa petendi per giudizi relativi a fatti precedenti l'abrogazione referendaria. Si deve qui richiamare la peculiare natura del referendum, quale atto-fonte dell'ordinamento. A differenza del legislatore che può correggere o addirittura disvolere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta una volontà definitiva e irripetibile.

La caducazione dell'art. 56 del codice di procedura civile, come non potrebbe consentire al legislatore la scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta a titolo transitorio, così sottrae all'interprete l'operazione logica di una sua ultra- attività.

4.4. -La questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, secondo comma, della legge n. 117 del 1988 è dunque da ritenere fondata.

Il legislatore, come risulta dagli atti parlamentari, era ben consapevole del distacco temporale che sarebbe intervenuto tra la abrogata normativa codicistica e quella dettata con la irretroattiva nuova legge n. 117.

Non potendo ignorarsi: a) che il differimento degli effetti del referendum abrogativo era motivato dalla esigenza di non lasciare senza una disciplina specifica la materia della responsabilità civile per fatti causati dall'esercizio della giurisdizione; b) che questa Corte aveva ribadito in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo la indispensabilità di un <filtro> a garanzia della indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale; la mancata previsione nel contesto dell'art. 19 della legge n. 117 del 1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 della Carta costituzionale determina vulnus-prima ancora che dei suddetti parametri-del principio di non irragionevolezza implicato dall'art. 3 della Costituzione.

Per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall'esercizio di quella funzione, l'art. 19 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il Tribunale competente, con rito camerale e conseguente applicazione degli ordinari reclami ed impugnazioni, verifichi la non manifesta infondatezza della domanda ai fini dell'ammissibilità dell'azione di responsabilità nei confronti del magistrato promossa successivamente al 7 aprile 1988, per fatti anteriori al 16 aprile 1988, data di entrata in vigore della legge n. 117.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 19, secondo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevede che il Tribunale competente verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 25, 101 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, 97, 101 e 104 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 09/10/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Francesco Paolo CASAVOLA, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 22/10/90.