Ordinanza n. 420 del 1990

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ORDINANZA N.420

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del vigente codice di procedura penale (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) promosso con ordinanza emessa il 13 dicembre 1989 dalla Corte d'appello di Bari nel procedimento penale a carico di Lovecchio Giovanni ed altri, iscritta al n. 314 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23/1a s.s. dell'anno 1990.

 

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio dell'11 luglio 1990 il Giudice relatore Renato Dell'Andro.

 

Ritenuto che, con ordinanza del 13 dicembre 1989, la Corte d'appello di Bari ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del vigente codice di procedura penale (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) nella parte in cui non estende l'esperibilità dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti anche ai procedimenti in corso in grado d'appello al momento dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale;

 

che, invero, secondo il giudice a quo, la norma impugnata determinerebbe una situazione ingiustificatamente pregiudizievole per chi si trova sottoposto ad un procedimento in grado d'appello rispetto a chi ha pendenze penali ancora in primo grado nonchè per chi, per avvenuta separazione di procedimenti, è stato giudicato rispetto ai coimputati per i quali si sia verificata una causa di sospensione del procedimento;

 

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall' Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata;

 

che, a parere dell'Avvocatura, il termine per avanzare la richiesta d'applicazione della pena su richiesta delle part; è stato non illogicamente individuato nella dichiarazione d'apertura del dibattimento di primo grado, superato il quale non potrebbe più realizzarsi la funzione dell'istituto (incentivare l'immediata definizione del processo, eliminando la fase dibattimentale e quella dell'appello) e verrebbe meno il collegamento fra incentivo e rito differenziato; sicchè la prospettata diversità di trattamento trova razionale giustificazione nella diversità delle situazioni processuali.

 

Considerato che gli argomenti svolti da questa Corte nella sentenza d'infondatezza n. 277 del 1990-relativa all'impossibilità (a norma dell'art. 247 del medesimo testo approvato con il decreto legislativo n. 271 del 1989) di chiedere il giudizio abbreviato quando siano già state compiute le formalità d'apertura del dibattimento di primo grado - valgono anche per l'analoga questione qui trattata, relativa alla possibilità di richiedere l'applicazione della pena su richiesta delle parti soltanto prima del compimento delle formalità d'apertura del dibattimento di primo grado;

 

che, in particolare, nella citata sentenza la Corte ha, fra l'altro, sottolineato-con osservazione valida anche in ordine alla disposizione oggetto del presente giudizio-l'< inscindibile unità finalistica> della disposizione in quella sede impugnata, osservando che la riduzione della pena in tanto è consentita in quanto è diretta a sollecitare la richiesta, da parte dell'imputato, dell'attivazione d'un istituto inteso ad assicurare la rapida definizione del maggior numero di processi; divenuto, invece, impossibile, con l'apertura del dibattimento di primo grado, raggiungere le finalità che il legislatore si prefigge, diventa conseguentemente e razionalmente impossibile all'imputato realizzare il c.d. < diritto> alla riduzione della pena;

 

che questo essendo lo scopo degli istituti del giudizio abbreviato e dell'applicazione della pena su richiesta delle parti (esclusione della fase dibattimentale) è del tutto razionale che, per i procedimenti in corso all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, tali istituti siano stati resi applicabili soltanto quando il loro scopo possa essere interamente perseguito;

 

che la precitata sentenza ha altresì aggiunto - con considerazione anch'essa estensibile all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti - che irrazionale sarebbe semmai l'applicabilità, nella sede del giudizio abbreviato, dopo l'apertura del dibattimento di primo grado; giacchè in tal caso i benefici concessi all'imputato non sarebbero più giustificati nè dallo scopo (ormai impossibile) d'eliminare la fase dibattimentale nè dal rischio assunto dall'imputato (il quale si troverebbe nella comoda situazione di decidere dopo aver potuto valutare l'andamento del dibattimento stesso);

 

che analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 del decreto legislativo n. 271 del 1989, proprio nella parte in cui non consente all'imputato di richiedere il giudizio abbreviato per i procedimenti in corso in grado d'appello all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., dalla Corte d'appello di Ancona con ordinanza del 3 novembre 1989 (Reg. ord. n. 271/1990) è stata dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza n. 361 del 1990;

 

che, pertanto, non è producente il confronto fra imputati che hanno pendenze penali in primo grado o in grado d'appello, appunto perchè si tratta di situazioni oggettivamente diverse;

 

che, per le stesse ragioni, analoghe questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 248 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 -nella parte in cui non consente l'applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'art. 91 del codice di procedura penale, anche ai procedimenti per i quali siano state compiute le formalità d'apertura del dibattimento di primo grado - sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dal Pretore di Breno con ordinanza del 30 novembre 1989 (Reg. ord. n. 57/1990) e dal Pretore di Milazzo con ordinanza del 27 ottobre 1989 (Reg. ord. n. 67/1990) nonchè, in riferimento agli artt. 3, 25 e 97 Cost., dal Tribunale di Torino con ordinanza del 20 dicembre 1989 (Reg. ord. n. 147/1990) sono già state dichiarate manifestamente infondate da questa Corte, rispettivamente con le ordinanze n. 320 del 1990 e n. 355 del 1990;

 

che, di conseguenza, anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in epigrafe va dichiarata manifestamente infondata.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del vigente codice di procedura penale (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Corte d'appello di Bari con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/09/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Renato DELL'ANDRO, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 27/09/90.