Sentenza n. 366 del 1990

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SENTENZA N.366

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale previgente approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1399, promosso con ordinanza emessa il 26 gennaio 1990 dal Pretore di Pisa nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Massetani Luciano e l'I.N.P.S. ed altro, iscritta al n. 213 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di costituzione dell'I.N.A.I.L., nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1990 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;

uditi l'avv. Pasquale Napolitano per l'I.N.A.I.L. e l'Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di due giudizi di opposizione, successivamente riuniti, avverso, rispettivamente, ad ordinanza-ingiunzione emessa a favore dell'I.N.A.I.L. ed a decreto ingiuntivo ottenuto dall'I.N.P.S. per il recupero di contributi previdenziali omessi, il Pretore di Pisa, rilevato che, a seguito dell'accertamento compiuto dagli Ispettori del lavoro circa l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti di due artigiani, era stato emesso decreto penale divenuto esecutivo e che sulla base di tale condanna erano stati poi emanati gli opposti provvedimenti, ha sollevato, con ordinanza del 26 gennaio 1990, questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell'art. 28 del codice di procedura penale (approvato con regio decreto n. 1399 del 1930).

Osserva il giudice a quo che il decreto penale esecutivo perchè non opposto non contiene un vero e proprio accertamento dei fatti svoltosi in contraddittorio con l'imputato, diversamente dalla sentenza penale, onde appare irrazionale e lesiva del diritto di difesa l'attribuzione a tale provvedimento di quell'efficacia di giudicato nel giudizio civile od amministrativo prevista dalla norma impugnata ed espressamente esclusa dal nuovo codice di Procedura Penale.

La tenuità della sanzione Pecuniaria sarebbe inoltre, a parere del Pretore rimettente, tale da escludere in molti casi la percezione da parte dell'imputato della natura penale del decreto e delle connesse, pregiudizievoli conseguenze.

2.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione, osservando, sotto il primo profilo, che il Pretore rimettente sarebbe stato libero di valutare l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato posto a base degli opposti provvedimenti prescindendo dall'accertamento contenuto nel decreto penale.

Peraltro sarebbe "tutta da dimostrare" la tesi secondo cui nella cognizione sommaria che precede l'emissione dei decreto stesso il giudice porrebbe un'attenzione ed uno scrupolo inferiori a quelli richiesti dalla fase dibattimentale.

3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si é costituito l'I.N.A.I.L:, concludendo per l'infondatezza della questione in quanto la non opposizione al decreto rappresenterebbe pur sempre una scelta dell'imputato alla quale andrebbero collegati gli effetti preclusivi circa un diverso accertamento dei fatti.

La difesa dell'Istituto sottolinea altresì il carattere "metagiuridico" delle considerazioni attinenti la mancata rappresentazione delle possibili conseguenze della condanna da parte dell'interessato.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Pisa, con ordinanza del 26 gennaio 1990 (R.O. n. 213 del 1990), solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale, approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1399, in forza del quale - afferma il giudice a quo - <il decreto penale esecutivo fa stato nel giudizio civile in ordine ai fatti materiali accertati in sede penale e tale disposto trova vigenza ancora oggi dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di rito ai sensi del combinato disposto degli artt. 258, 241 e 242 del decreto-legge n. 271 del 1989, mentre, come è noto, il nuovo codice di procedura penale esclude esplicitamente che il decreto penale possa avere efficacia di giudicato nel giudizio civile od amministrativo (art. 460)>.

2. - La questione non è fondata.

Il Pretore rimettente ritiene che dal decreto penale esecutivo derivi nel giudizio civile un vincolo assoluto circa l'accertamento e la qualificazione dei fatti materiali su cui si è espresso il giudice penale. Poichè, però, per costante giurisprudenza, <è sempre consentito al giudice civile un riesame ex novo dei fatti, già oggetto del precorso giudizio penale, in relazione ai criteri probatori del sistema civile, e di dare ad essi una valutazione giuridica diversa da quella del giudice penale)> (Cassazione, sentenza 13 marzo 1984, n. 1716), la questione sollevata non ha ragione di porsi in un caso come quello di specie (condanna per omesso versamento di contributi previdenziali). É, infatti, insegnamento pacifico (Cassazione, sentenza 9 novembre 1982, n. 5902) che <quando lo stesso fatto (come l'omesso versamento di contributi previdenziali) viene preso in considerazione sia dal giudice penale che da quello civile per fini diversi, ben può verificarsi che le medesime questioni giuridiche presenti nella fattispecie ricevano soluzioni diverse; l'autorità del giudicato penale, infatti, riguarda solo i fatti materiali accertati e non anche le questioni giuridiche trattate, che debbono intendersi risolte ai soli fini dell'accertamento del reato>.

Nè può giovare come tertium comparationis l'art. 460, quinto comma, del nuovo codice di procedura penale (II decreto penale di condanna anche se divenuto esecutivo non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo), perchè trattasi di disposizione normativa sopravvenuta in un sistema profondamente innovato, non invocabile per la difformità con la norma temporalmente precedente, conservata nei suoi effetti in regime di diritto transitorio.

3.-Il Pretore rimettente peraltro dubita della legittimità costituzionale del decreto penale, esecutivo perchè non opposto, in quanto fondato su un accertamento non ottenuto in contraddittorio con l'imputato e dunque con palese violazione del diritto di difesa, di cui all'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Questa Corte ha già statuito che: <il decreto penale costituisce una decisione preliminare, contro la quale l'imputato può proporre opposizione, sicchè l'esperimento dei mezzi di difesa è rinviato al vero e proprio giudizio, che si svolge, con la stessa ampiezza dei procedimenti ordinari, dopo che l'opposizione ha messo nel nulla il decreto penale. Il rinvio dell'esercizio del diritto di difesa alla fase dibattimentale non può ritenersi in contrasto col precetto costituzionale dell'art. 24, quando trovi giustificazione nella struttura particolare e si armonizzi con le esigenze che regolano le diverse forme di procedimento> (sentenza n. 136 del 1967).

Ed ancora che: <la difesa è garantita, sotto un duplice aspetto.

In primo luogo, si concede all'imputato facoltà di scelta: accettare o meno la condanna; ed è evidente che l'accettazione non solo elimina di per se stessa qualsiasi questione difensiva, ma dimostra che l'imputato non ha motivo nè interesse di chiedere che si proceda all'esperimento del pubblico dibattimento. II che si traduce molto spesso in un vantaggio per lo stesso interessato.

In secondo luogo, la volontà di difendersi, manifestata attraverso l'opposizione al decreto, ha l'immediato effetto di far perdere ogni efficacia giuridica alla condanna, di metterla cioé nel nulla, come se non fosse stata mai pronunziata. Ed a seguito della opposizione, il processo prende il normale corso, mentre il decreto penale assume la funzione di contestazione dell'accusa e quindi costituisce la base della discussione dibattimentale> (sentenza n. 27 del 1966).

4. - Le altre considerazioni del giudice a quo (che il destinatario del decreto penale non ne avverte neppure la natura di atto penale e che non lo oppone perchè sembra più economico pagare la somma della multa che ricorrere a più costosi rimedi; che in concreto la condanna pecuniaria per decreto penale è ricevuta con lo stesso animo con cui si riceve una sanzione amministrativa) attengono a dati di esperienza rivelativi di inconvenienti o incongruenze di mero fatto, privi di rilevanza costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale (regio decreto n. 1399 del 1930), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Pisa con l'ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/07/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Francesco Paolo CASAVOLA, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 24/07/90.