Sentenza n. 1022 del 1988

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SENTENZA N.1022

ANNO 1988

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giovanni CONSO, Presidente

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 12 e 17, secondo comma, della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (<Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle LL. 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazioni di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata>), promosso con ordinanza emessa il 30 aprile 1987 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Monfrini Massimo ed altri e il C.I.M.E.P., iscritta al n. 114 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14/Ia s.s. dell'anno 1988;

Visti l'atto di costituzione di Monfrini Massimo e del C.I.M.E.P. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 settembre 1988 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

uditi gli avvocati Emilio Romagnoli per Monfrini Massimo e Mario Viviani per il C.I.M.E.P. e l'Avvocato dello Stato Luigi Sicanolfi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - In via pregiudiziale va dichiarata l'inammissibilità della costituzione di Regazzetti Angelo - affittuario dei terreni espropriati-in quanto egli non era parte nel giudizio a quo, mentre questa Corte ha costantemente affermato (cfr. da ultimo sentenze 25 febbraio 1988, n. 220; 7 aprile 1988, n. 412; 12 maggio 1988, n. 531) che, nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale, le parti private legittimate a costituirsi sono soltanto quelle che, al momento dell'emanazione dell'ordinanza di rimessione, avevano la qualifica di parte nel giudizio a quo.

Ciò si evince dall'art. 25, secondo comma, della l. 11 marzo 1953, n. 87, il quale attribuisce la facoltà di costituirsi nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale alle parti destinatarie della notificazione dell'ordinanza di rimessione ai sensi dell'art. 23: parti che sono, appunto, solo le <parti in causa> del giudizio a quo. Inoltre, gli artt. 23 e 25 della l. 11 marzo 1953, n. 87, nonché gli artt. 2 e 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale- disponendo che l'ordinanza di rimessione deve essere notificata alle parti del giudizio a quo, ove non sia stata letta in dibattimento, che la regolarità della notificazione deve essere controllata dal Presidente della Corte prima di disporre la pubblicazione dell'ordinanza sulla Gazzetta Ufficiale e che dall'ultima notificazione decorre il termine (perentorio) di venti giorni per la costituzione - regolano la costituzione delle parti davanti alla Corte, e gli adempimenti connessi, in modo tale da essere applicabili solo alle parti del giudizio a quo al momento della emanazione dell'ordinanza di rimessione. Il che rende manifesta la voluntas legis di attribuire soltanto a quelle parti la legittimazione a costituirsi dinanzi alla Corte costituzionale.

2. - Il giudice a quo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, primo comma (così come mod. dal d.l. 2 maggio 1974, n. 115 e dalla successiva l. 28 gennaio 1977, n. 10) e 17, secondo comma della l. 22 ottobre 1971, n. 865, i quali prevedono, rispettivamente, che il proprietario espropriando ha diritto di convenire con l'espropriante la cessione volontaria degl'immobili per un prezzo non superiore del 50 per cento all'indennità provvisoria determinata ai sensi degli artt. 16 e 17 e che, ove l'espropriazione riguardi un terreno coltivato da fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante, costretto ad abbandonarlo, a costui deve essere corrisposta un'indennità aggiuntiva pari a quella spettante al proprietario a norma dell'art. 16. Tali norme, in quanto tuttora applicabili alle procedure espropriative di terreni a destinazione edificatoria, secondo l'ordinanza di rimessione contrasterebbero con l'art. 42 Cost.: infatti le <maggiorazioni> da esse previste, dovendo essere calcolate su indennità di espropriazione da liquidarsi-dopo le declaratorie d'illegittimità costituzionale pronunciate con le sentenze 30 gennaio 1980, n. 5 e 21 luglio 1983, n. 223 -in base alla l. 25 giugno 1865, n. 2359, renderebbero l'importo complessivo delle indennità di espropriazione di gran lunga superiore al valore del bene espropriato.

3. - All'esame di tali questioni vanno premesse le seguenti considerazioni.

L'art. 16 della l.22 ottobre 1971, n. 865 (modificato dall'art. 14 della l. 28 gennaio 1977, n. 10) ha previsto l'istituzione di commissioni provinciali aventi il compito di stabilire (entro il 31 gennaio di ogni anno), nell'ambito delle singole regioni agrarie delimitate dall'I.S.T.A.T., il valore agricolo medio, per il precedente anno solare, dei terreni, considerati liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente praticati. L'indennità di espropriazione, secondo quanto disposto dai commi quinto, sesto e settimo di detto art. 16, per le aree esterne ai centri edificati, doveva essere commisurata al valore agricolo medio anzi detto, corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area di espropriazione. Per le aree comprese nei centri edificati invece, l'indennità di espropriazione doveva essere commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricadeva l'area da espropriare, coprisse una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata nella regione agraria stessa, moltiplicata per determinati coefficienti.

Tali criteri di calcolo delle indennità di espropriazione- originariamente applicabili alle sole espropriazioni d'immobili disposte per le finalità indicate dall'art. 9 della l. n. 865 del 1971 - furono estesi dalla l. 27 giugno 1974, n. 247 a tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o d'interventi da parte dello Stato, delle Regioni, delle Provincie, dei Comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali.

Questa Corte, peraltro, con la sentenza 30 gennaio 1980, n. 5, dichiarò l'illegittimità costituzionale dei commi quinto, sesto e settimo della l. n. 865 del 1971, come modificati dall'art. 14 della l. n. 10 del 1977, per contrasto con gli artt. 3 e 42 della Costituzione.

A seguito di tale pronuncia, la l. 29 luglio 1980, n. 385, stabili che le indennità di espropriazione, già regolate dalle disposizioni dichiarate illegittime, fossero provvisoriamente liquidate secondo i criteri previsti dalla l. n 865 del 1971, come modificati dalla l. n. 10 del 1977, salvo il conguaglio che sarebbe stato stabilito da apposita legge, da emanarsi entro un anno (termine poi prorogato dal d.l. 29 maggio 1982, n. 298, conv. nella l. 29 luglio 1982, n. 481 e dalla l. 23 dicembre 1982, n. 943).

Anche queste norme, pero, furono poi dichiarate illegittime perché in contrasto con gli artt. 42 e 136 della Costituzione (Corte cost. 21 luglio 1983, n. 223).

Va infine precisato che, in relazione alle anzi dette declaratorie d'illegittimità costituzionale, costituisce ormai ius receptum - secondo quanto emerge dalla successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza 21 dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984 n. 231) e dal costante indirizzo della Corte di Cassazione - che esse riguardano solo i criteri di determinazione delle indennità per le aree con destinazione edificatoria.

Le norme in discorso sono, pertanto, tuttora applicabili all'espropriazione di aree con destinazione agricola, in relazione alle quali non é stato riconosciuto sussistente alcun profilo d'incostituzionalità, stante il collegamento della liquidazione dell'indennità con le effettive caratteristiche e con la destinazione economica del bene. E’ parimenti ius receptum che per le aree a destinazione edificatoria, in conseguenza delle declaratorie d'illegittimità costituzionale della normativa su riferita, l'indennità deve essere liquidata- in mancanza di una disciplina sostitutiva delle norme caducate - sulla base del valore venale o di scambio del bene, ai sensi dell'art. 39 della l. 25 giugno 1865, n. 2359, che non era stata abrogata, ma solo derogata dalla l. n. 865 del 197l.

In particolare, l'indennità va liquidata in base alla normativa generale della l. n. 2359 del 1865 anche riguardo alle espropriazioni di aree edificabili per l'attuazione di piani di edilizia economica e popolare, disposte ai sensi della l. n. 865 del 1971: infatti l'art. 39 di quest'ultima legge-che aveva espressamente abrogato le norme speciali in materia di espropriazione per la realizzazione dei piani di edilizia residenziale pubblica (art. 12 l. 18 aprile 1962, n. 167, mod. dall'art. 1 della l. 21 luglio 1965, n. 904), che rendevano applicabili a tali espropriazioni i criteri d'indennizzo previsti dall'art. 13 della l. 15 gennaio 1885, n. 2892-non é stato toccato dalle suddette declaratorie d'illegittimità costituzionale. Ne consegue che, per l'abrogazione operata dall'art. 39 cit., anche tali espropriazioni finiscono con l'essere regolate, quanto ai criteri di liquidazione delle indennità, dalla disciplina generale della l. n. 2359 del 1865.

4. - Il quadro giurisprudenziale e normativo ora disegnato consente di precisare il contenuto <attuale> della disciplina della l. n. 2359 del 1865, per i riflessi che su essa possono esplicare i relitti ancora vigenti-in tema di espropriazione di aree edificatorie - della l. n. 865 del 1971 (artt. 12 e 17), che, come si e già detto, non sono stati caducati dalle ricordate dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

L'indennizzo dell'espropriato, che e costituzionalmente garantito (art. 42, terzo comma Cost.) e che si configura come presupposto di legittimità del provvedimento di espropriazione (cfr. art. 48 l. n. 2359 del 1865), deve assumere il carattere di un serio ristoro (sentt. n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983 citt.); esso si pone, alla stregua della ripresa di operatività della l. n. 2359 del 1865, come diritto dell'espropriato al valore venale o di scambio del bene (art. 39 l. n. 2359 cit.).

All'ammontare, in tal senso determinato, va aggiunto, ove ricorrano le circostanze previste dagli artt. 64 e segg. di questa legge, l'indennizzo per occupazione temporanea; circostanza che, secondo un accenno dell'ordinanza di rimessione, sembrerebbe ricorrere nella fattispecie, ma che non spetta a questa Corte di acclarare, non essendo, tra l'altro, compresa nelle ipotesi alle quali si riferiscono le norme sospettate di illegittimità costituzionale .

5. - Com'é noto, carattere distintivo dell'indennità di espropriazione, nel sistema <puro> della l. n. 2359 del 1865, e quello della sua unicità. Anche se sull'immobile coesistano, insieme con il diritto del proprietario, diritti di altri soggetti (ad es., usufrutto, uso, servitù, dominio diretto), l'indennità, nei detti limiti massimi del valore di scambio, é unica e spetta esclusivamente al proprietario (art. 27, primo comma). Fa eccezione l'ipotesi di enfiteusi, nella quale <l'indennità sarà accettata o pattuita, anziché dal proprietario, dagli enfiteuti che trovansi in possesso del fondo> (art. 27, secondo comma).

<Pronunciata l'espropriazione, tutti i diritti anzidetti si possono far valere non più sul fondo espropriato, ma sull'indennità che lo rappresenta> (art. 52, secondo comma, l. cit.).

In questa posizione si trovavano originariamente anche i conduttori degli immobili oggetto di espropriazione, immobili che l'art. 27 l. n. 2359 del 1865 designa, nel primo comma, come <fondi> e, nel terzo, come <stabili>; termini che sono manifestamente comprensivi sia dei beni immobili urbani che di quelli rustici.

La questione, sulla quale é chiamata a decidere la Corte, comporta che sia esaminata in primo luogo la posizione di questi soggetti, titolari di rapporti obbligatori insieme con il proprietario del fondo, del quale sono coltivatori (fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante). La censura di illegittimità, per violazione del terzo comma dell'art. 42 Cost., si riferisce, infatti, fra l'altro, al secondo comma dell'art. 17 l. n. 865 del 1971, nel caso in cui intervenga cessione volontaria del fondo; secondo l'ordinanza di rimessione, se si dovesse riconoscere all'espropriato un indennizzo pari al valore venale o di scambio, sulla base del quale deve essere ulteriormente commisurata l'indennità aggiuntiva attribuita ai sopra detti coltivatori, si verrebbe a determinare un indennizzo <estremamente superiore al valore venale del fondo>, con la conseguente incostituzionalità della disciplina.

Chiarita, in generale, l'attuale posizione del proprietario circa l'indennizzo - ed a parte il problema della maggiorazione ad esso spettante in base al primo comma degli artt. 12 e 17 l. n. 865 del 1971, in caso di cessione volontaria di fondo edificatorio, che sarà esaminato in seguito - é da vedere come vi incida la posizione dei su menzionati titolari di rapporti obbligatori.

E’ al riguardo tuttora operante l'art. 17, secondo, terzo e quarto comma della l. n. 865 del 1971, che non e stato toccato dalle più volte menzionate declaratorie di illegittimità costituzionale.

Da questa norma si ricavano tre principii:

1) il fittavolo, il mezzadro, il colono e il compartecipante, costretti ad abbandonare il fondo coltivato, sono titolari (cfr. Corte cost. 3 marzo 1988, n. 262) di uno specifico diritto all'indennità di espropriazione, il cui contenuto sarà tra poco precisato;

2) essi sono autonomamente legittimati alla percezione di tale indennità e all'azione per conseguirla;

3) l'indennità ad essi dovuta é da detrarre da quella spettante al proprietario (cfr. Corte cost. 12 maggio 1988, n. 530, anche se relativa a fattispecie normativa regionale), determinata in base al valore venale del bene espropriato.

La consistenza oggettiva dell'indennizzo dei predetti soggetti é chiaramente desumibile dall'art. 17 terzo comma l. n. 865 cit.: essa consiste in una somma pari al valore agricolo medio, indicato dal primo comma dell'articolo 16 l. n. 865 cit., corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato, anche se si tratti di aree comprese nei centri edificati o delimitati come centri storici.

La norma reca un autonomo riferimento al valore agricolo medio, che le consente di rendere applicabile il criterio anzidetto, indipendentemente dallo specifico richiamo, che pur contiene, all'art. 16. Questo richiamo rafforza la validità e l'operatività del criterio del valore agricolo medio, perché l'art. 16 e un precetto rimasto pienamente operante rispetto ai fondi a destinazione agricola (cfr. Corte cost. 21 dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984, n. 231 cit.).

Ed é indubbio che un fondo, oggetto di contratto di affitto (come si verifica nella fattispecie, di cui e causa) o di mezzadria o di colonia, ecc., é naturaliter agricolo, anche se inerisce ad area a destinazione edificatoria.

Ha rilevato il Presidente del Consiglio, attraverso l'Avvocatura generale dello Stato, che della presenza del coltivatore, rilevante per l'ordinamento, non possa non tenersi conto in sede di determinazione del valore venale rappresentante l'indennità di esproprio dovuta al proprietario, posto che la stima non potrebbe, correttamente, essere riferita ad un terreno <considerato libero da vincoli di contratti agrari>, nel momento stesso in cui, in base alla legge, l'esistenza del contratto di affitto assume autonoma rilevanza sul piano giuridico.

Nel riferire tale esatta considerazione, la Corte osserva che se ne deve spostare l'angolo di incidenza.

Pare più coerente, stante l'autonomia del diritto all'indennizzo del coltivatore (art. 17, ultimo comma, l. 865 cit.), compiere una distinta operazione di determinazione di tale indennizzo, calcolato in base al valore agricolo medio del fondo e dovuto direttamente al coltivatore, ai sensi del terzo comma di quest'ultima norma, nel limite massimo del valore venale del fondo stesso.

Si tratta di una precisazione di carattere non soltanto formale, in quanto risponde meglio alla titolarità del diritto del coltivatore, sancito dalla norma ora richiamata, titolarità ed autonomia rispetto all'indennizzo del proprietario, che non sarebbero poste nella giusta luce qualora il valore agricolo, corrispondente alla perdita determinata dall'<abbandono del terreno>, dovesse essere affidato ad un'operazione unica, con giunta a quella di determinazione dell'indennizzo del proprietario.

Fermo il valore venale del terreno come limite massimo complessivo del prezzo dell'operazione espropriativa, l'autonoma valutazione, entro detto limite, e la diretta corresponsione al coltivatore della somma corrispondente al valore agricolo medio, realizzano, per effetto della lettura congiunta della l. 2359 del 1865 e dell'art. 17 della l. n. 865 del 1971, una deroga al principio innanzi richiamato della unicità dell'indennizzo.

6. – E’ tempo di prendere in esame la posizione del proprietario nell'ipotesi di cessione volontaria; per essa il primo comma dell'art. 12 della l. n. 865 del 1971 prevede una maggiorazione dell'indennità <determinata ai sensi dei successivi artt. 16 e 17>.

E’ da premettere che e fuori discussione la vigenza di tutte queste norme nel caso che si tratti di terreno agricolo; si pone, invece, il problema della disciplina applicabile nella fattispecie di terreno edificatorio.

Nel primo caso, infatti, non essendo operanti le dichiarazioni di illegittimità costituzionale, la normativa della l. n. 865 del 1971 si esplica in tutta la sua pienezza; diversamente si prospetta la questione nel secondo caso (fondo edificatorio), che contrassegna la fattispecie in esame.

Anche il giudice a quo, nel formulare la questione, parte dalla constatazione che la sentenza n. 5 del 1980 non ha dichiarato illegittimo l'art. 12 della l. n. 865 del 1971.

In mancanza di tale declaratoria, l'ordinanza reputa che la norma sia tuttora operante, perdendo però l'originario contenuto precettivo in relazione alla sopravvenuta applicabilità, alle espropriazioni di aree a destinazione edificatoria, del criterio di liquidazione dell'indennità di espropriazione costituito dal valore venale del suolo, secondo la previsione della l. n. 2359 del 1865. A parere, del giudice a quo, la fattispecie normativa, in precedenza integrata dal richiamo al disposto dell'art. 16 della stessa l. n. 865 del 1971 per la determinazione dell'indennità sulla quale calcolare la maggiorazione massima, ora andrebbe integrata col disposto dell'art. 39 della l. n. 2359 del 1865, il quale commisura l'indennità al valore venale del bene.

Siffatta strutturazione del quadro normativo va peraltro disattesa, essendo in contrasto sia con l'interpretazione letterale che con quella sistematica dell'art. 12 della l. n. 865 Va preliminarmente rilevato che tale norma, mentre nei suo testo originario prevedeva che <i proprietari, entro 30 giorni dalla notificazione dell'avviso di cui al quarto comma dell'art. 11, possono convenire con l'espropriante la cessione volontaria degli immobili, per un prezzo non superiore del 10 per cento all'indennità provvisoria>, nel testo risultante dalle modificazioni apportate dal d.l. 2 maggio 1974, n. 115 e dalla l. 28 gennaio 1977, n. 10 dispone che <il proprietario espropriando, entro trenta giorni dalla notificazione dell'abisso di cui al quarto comma dell'art. 11, ha diritto di convenire con l'espropriante la cessione volontaria degli immobili per un prezzo non superiore del 50 per cento dell'indennità provvisoria, determinata ai sensi degli articoli 16 e 17>.

In tale formulazione viene fatto specifico e vincolante richiamo all'art. 16 quale norma determinativa dei criteri di commisurazione dell'indennità di riferimento per il calcolo della maggiorazione del 50 per cento. Il testuale, esplicito richiamo all'art. 16 non può essere sostituito dall'interprete con il riferimento al criterio di calcolo previsto dall'art. 39 l. n. 2359 del 1865. A differenza di quanto questa Corte ha affermato circa i terreni agricoli ed alle ipotesi in cui debba essere preso in considerazione il valore agricolo del terreno, rispetto alle quali l'art. 16 opera secondo una normativa che conserva intatta la sua efficacia, per i terreni a destinazione edificatoria le ricordate dichiarazioni di incostituzionalità impediscono l'applicabilità di tale disciplina nell'ipotesi di cessione volontaria, per il computo dell'indennità aggiuntiva spettante al proprietario.

In tal caso, il legislatore, attraverso il rinvio operato dal primo comma dell'art. 12 l. n. 865, impone un quantum indennitario secondo la determinazione prevista nella fattispecie espropriativa tipica dell'art. 16. Venuta meno questa norma rispetto alla determinazione dell'indennizzo per i terreni edificatori, viene a cessare, per la mancanza del supporto della disciplina principale (determinazione dell'indennizzo), il funzionamento della norma dipendente (maggiorazione di questo stesso indennizzo in caso di cessione volontaria). Non e da trascurare, infatti, che l'art. 12 opera in un sistema nel quale l'indennità di espropriazione dei suoli a destinazione edificatoria viene determinata in base a criteri del tutto differenziati da quello del valore venale del bene; una volta inficiato per detti terreni il criterio determinativo dell'indennizzo, posto dall'art. 16, si priva automaticamente l'art. 12 di un elemento qualificante del suo contenuto precludendo il funzionamento del meccanismo, da esso azionato per determinare la maggiorazione dell'indennizzo stesso.

7. - Da quanto precede, emerge l'inaccettabilità dell'interpretazione dell'art. 12 sostenuta nell'ordinanza di rimessione.

Questa Corte ha già dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della stessa l. n. 865 del 1971, in quanto tale norma, facendo riferimento per la determinazione dell'indennità di espropriazione dei terreni con destinazione edificatoria all'art. 16-dichiarato costituzionalmente illegittimo-<non può più trovare applicazione, una volta venuta meno la norma base alla quale si riferiva> (Corte cost. 11 giugno 1980, n. 84).

La vicenda in esame é del tutto omogenea a questa ora ricordata e si ispira a un sicuro orientamento della Corte, relativo alla non operatività di norme strutturalmente e/o funzionalmente collegate, nel caso di invalidazione di una di esse a seguito della pronuncia di illegittimità-costituzionale (cfr. al riguardo Corte cost. 26 marzo 1980, n. 42; 7 luglio 1976, n. 164).

Va pertanto affermato che l'art. 12, primo comma, della l. n. 865 del 1971 (concernente la cessione volontaria dell'immobile espropriando) in seguito alle declaratorie d'illegittimità costituzionale anzidette, non é più applicabile all'espropriazione d'immobili con destinazione edificatoria, essendo venuto meno un elemento intrinseco della fattispecie normativa, essenziale al suo funzionamento.

D'altra parte, in un sistema, nel quale l'indennizzo é commisurato a valori medi e astratti, avulsi dalla consistenza e dall'attitudine concreta del bene, la maggiorazione per la cessione volontaria da parte del proprietario ha una sua peculiare funzione nel senso che la spinta della valutazione verso valori più vicini a quelli reali contribuisce ad accelerare l'acquisizione del bene espropriando.

Riportato, per i terreni edificatori, l'indennizzo al valore venale o di scambio, siffatta giustificazione perde gran parte del suo contenuto. Né é ipotizzabile una maggiorazione che conduca l'indennizzo al di la del valore venale, nel caso di cessione volontaria, non soltanto perché lo impedisce l'art. 42, terzo comma, Cost., ma anche perché viene a mancare un interesse del proprietario, costituzionalmente rilevante. Il proprietario non può, infatti, pretendere dall'espropriante (normalmente, una pubblica amministrazione, che deve valutare adeguatamente anche gli aspetti economici e finanziari dell'operazione: Corte cost. 3 marzo 1988, n. 262 cit.) un prezzo maggiore del valore di scambio del bene in una vendita tra privati.

Per le ragioni sopra esposte, entrambe le questioni sollevate dal giudice a quo vanno dichiarate non fondate.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 12, primo comma e 17, secondo comma, della l. 22 ottobre 1971, n. 865 (<Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle LL. 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazioni di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata>), sollevate dal Tribunale di Milano con ordinanza 30 aprile 1987 (R.O. n. 114 del 1988), in riferimento all'art. 42, terzo comma, Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/10/88.

 

Francesco SAJA - Gabriele PESCATORE

 

Depositata in cancelleria il 09/11/88.