Sentenza n.365 del 1988

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SENTENZA N.365

ANNO 1988

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 del d.l.lgt. 21 novembre 1945, n. 722 (Provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali) e 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212 (Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali), promosso con ordinanza emessa il 23 gennaio 1980 dalla Corte dei Conti-Sezioni Riunite-sul ricorso proposto da D'Ottavi De Castro Rita, iscritta al n. 465 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228 dell'anno 1980;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 1988 il Giudice relatore Francesco Greco.

Considerato in diritto

l.-Il dubbio di legittimità costituzionale investe gli artt. 3 del d.l.lgt. 21 novembre 1945, n. 722 (Provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali) e 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212 (Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali), nella parte in cui non riconoscono all'impiegata statale coniugata, per il periodo anteriore all'entrata in vigore della legge 9 dicembre 1977, n. 903, il diritto alle quote di aggiunta di famiglia per figli a carico, nel caso che il di lei marito presti attività lavorativa, anche se questa non dia titolo alla corresponsione di assegni familiari.

2.-La censura muove dalla constatazione del deteriore trattamento in tal modo riservato alla lavoratrice coniugata -rispetto all'uomo cui gli assegni in questione competono, invece, in ogni caso, anche se la moglie lavori-per pervenire alla conclusione dell'assoluta mancanza di giustificazione, con riguardo sia al regime familiare che a quello previdenziale di tale disciplina, che appare, quindi, differenziata solo in relazione al sesso.

Di qui appunto la prospettazione della violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) sia in generale, sia in particolare, per ciò che riguarda la reciproca posizione dei coniugi nel matrimonio (art. 29 Cost.) e la condizione della donna lavoratrice (art. 37 Cost.).

3. - La questione é fondata.

La censurata disparità di trattamento e venuta meno con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 9 dicembre 1977, n. 903, che, nel sancire la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, ha eliminato anche in materia di assegni familiari ogni disparità tra i coniugi, statuendo all'art. 9 che il relativo trattamento può essere corrisposto, in alternativa, alla donna lavoratrice alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore. Ciò, però, non toglie, stante la irretroattività della sopravvenuta legge, che il regime di diseguaglianza si debba considerare persistente fino alla data suddetta.

Come ha già ritenuto questa Corte (sent. n. 105 del 1980), in riferimento all'analoga disposizione di cui all'art. 3, primo comma, del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, il regime differenziato in questione si fonda sul presupposto della priorità della posizione del padre nell'ambito familiare e si pone, perciò, in contraddizione con l'esigenza di equiparazione della moglie al marito, nel matrimonio e nella famiglia. Esigenza che già prima di riflettersi nella disciplina dettata dalla legge di riforma del diritto di famiglia n. 151 del 1975 (alla cui logica si é poi ispirata la legge n. 903 del 1977 sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro e rapporti connessi), risultava, sul piano del fondamento normativo, direttamente dal principio di parità dei coniugi sancito dagli artt. 3 e 29 della Costituzione (v. Corte cost., sent. n. 6 del 1980). Pertanto, in considerazione del contrasto con il detto principio di parità e, di conseguenza, con gli artt. 3 e 29 Cost., va dichiarata l'illegittimità delle norme censurate, nella parte in cui non prevedono che le quote di aggiunta di famiglia spettanti per figli a carico possano essere corrisposte (cosi come, per gli assegni familiari in genere, discende ora dall'art. 9 della citata legge n. 903/'77), alla dipendente statale, anche nel caso in cui il di lei marito svolga attività lavorativa che, come quella autonoma (art. 2, lett. f del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797), non dia titolo alla corresponsione degli assegni suddetti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 3 del d.l.lgt. 21 novembre 1945, n. 722 (Provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali) e 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212 (Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali) nella parte in cui escludono il diritto dell'impiegata statale coniugata alla corresponsione delle quote di aggiunta di famiglia per figli a carico, nel caso in cui il di lei marito svolga attività lavorativa che non dia titolo alla corresponsione di assegni familiari.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/88.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Francesco GRECO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 31 Marzo 1988.